Il divorzio sine die tra Ungheria e democrazia

Da oggi l’Ungheria è governata per decreto da Viktor Orbán. Non ci sarà più alcun dibattito in Parlamento: le sue attività sono sospese. L’esecutivo potrà prendere tutte le misure che ritiene necessarie, e sarà soltanto la Corte costituzionale a giudicarne l’azione. Visto che i suoi giudici sono ritenuti organici a Fidesz, il partito pigliatutto di Orbán, è lecito attendersi una certa indulgenza. Andrà avanti così fintanto che lo stesso Orbán non deciderà di rimettere i deputati sugli scranni.

Il pacchetto sullo stato d’emergenza, votato ieri dal Parlamento e prontamente firmato dal presidente della repubblica János Áder, porta Orbán oltre le scelte inevitabilmente limitatrici di certe libertà compiute in questo frangente da tutti i governi europei per fronteggiare la crisi sanitaria ed economica in corso. Quanto accaduto a Budapest è una vera e propria sospensione di democrazia, denunciano l’opposizione ungherese e molti politici liberali o di sinistra in Europa. Molto insidiosa, tra le norme approvate, è quella che prevede il carcere per coloro che diffonderanno notizie false sulla pandemia. Volteggia minacciosamente sulla stampa indipendente, i cui spazi sono ormai catacombali. Quasi tutti i giornali, le radio e le televisioni sono in mano al potere.

Giustizia, stampa, accademia: dal 2010 a oggi Fidesz, che ha vinto tre elezioni di fila, ha poco alla volta addomesticato ogni centro di dissenso, ogni contropotere. Si è registrata una vera e propria “presa dello stato” che ha svuotato la democrazia. Con la svolta di ieri arriverà la dittatura? Fino a quando il governo terrà chiuso il Parlamento? La Commissione europea farà scattare una procedura d’infrazione? Il Partito popolare europeo espellerà Orbán, già sospeso tempo fa? Sono domande a cui è impossibile, per ora, rispondere. Ciò che si può fare, però, è ricostruire come si è giunti a questo passaggio e quale potrebbe essere la logica che ha ispirato Orbán per avventurarsi su questa china.

 

L’altalena populista

Il governo, inizialmente, ha sottovalutato l’impatto della pandemia: lo stesso errore compiuto da molti altri Paesi Ue. L’atteggiamento è stato quello di non considerarla nella sua gravità e di vederla come un “fattore straniero”.

A inizio marzo, per esempio, Budapest ha sospeso – per un presunto legame tra virus e migranti – l’accesso alle aree di transito al confine con la Serbia per i pochissimi richiedenti asilo che ancora cercano da lì la via per l’Europa. Poco dopo, all’emergere dei primi casi di contagio, ha attribuito la responsabilità ai ragazzi stranieri che studiano nelle università magiare, in particolare agli studenti iraniani recatisi nella madrepatria al momento dello scoppio del focolaio – uno dei primi al mondo al di fuori della Cina – e poi rientrati in Ungheria. Così sono state chiuse le università. Le università, ma non le scuole. E quando gli insegnanti hanno chiesto di sospendere l’attività scolastica, hanno ricevuto in cambio una minaccia. Possiamo farlo, ma non prenderete lo stipendio, ha fatto loro sapere il primo ministro. Una postura che ha fatto salire la rabbia nel Paese, creando persino una fronda all’interno di Fidesz.

Orbán a quel punto ha cambiato repentinamente rotta. Sospensione delle attività scolastiche e stato d’emergenza. Chiusi i confini, chiusi i cinema e i teatri, chiuse le biblioteche; limitazioni all’orario di farmacie, supermercati, tabaccai e stazioni di carburante. Il tutto in linea con le restrizioni già assunte altrove in Europa. Nel giro di qualche giorno il governo è andato oltre, presentando il decreto sui poteri speciali e catapultandolo in Parlamento, lunedì 23, con procedura d’urgenza. Per l’approvazione erano necessari quattro quinti dei voti (i deputati sono 199), ma è stata fumata nera. Fidesz, pur avendo una maggioranza schiacciante, non arriva a fare questi numeri. È stata quindi necessaria una seconda lettura, quella di ieri, dove bastavano i due terzi.

Le opposizioni erano disposte a sostenere le misure speciali, ma chiedevano l’indicazione di un limite di tempo. Orbán non lo ha concesso, accusandole di “stare con il virus” e di tradire l’unità nazionale, mai così indispensabile. In tal modo, ha identificato un nemico da accusare e aggredire. Il suo consenso, la sua azione politica si è sempre basata sulla ricerca di un avversario fisico, noto: le élite europee, Soros, i migranti, la finanza globalizzata. Il coronavirus è un nemico imprevedibile, sfuggente. Dichiarargli guerra, con tutta l’incertezza su quello che sarà il conteggio finale delle vittime, la dimensione del crollo economico (la crescita stimata al 4% si trasformerà di sicuro in recessione) e il possibile taglio del welfare, tra i fattori chiave del consenso del governo, è un’operazione scivolosa. Incolpare l’opposizione per la mancata unità nazionale nel momento del pericolo, scaricandole addosso eventuali fallimenti, è invece un atto semplicissimo. Un primo sondaggio a caldo, realizzato dall’agenzia Publicus, sembra dar ragione a Orbán. Il 75 per cento degli elettori ungheresi concorda con il modo in cui ha affrontato la crisi finora.

Un altro possibile motivo della stretta è di carattere partitico. Accentrare il potere, ancora di più, per riportare ordine e disciplina dopo il piccolo terremoto seguito alle minacce agli insegnanti.

Se sarà dittatura, si vedrà. Di certo è che l’Ungheria e il suo primo ministro sono ancora una volta al centro del palcoscenico, e anche questo può far parte di una strategia. In queste settimane l’Unione europea è molto criticata per la mancanza di solidarietà interna, vera o presunta che sia, così come per l’incapacità di prendere decisioni rapide per fronteggiare la pandemia. “Vedete, sono stato costretto a fare di testa mia, perché Bruxelles ha dimostrato ancora una volta di non essere all’altezza”: questo è l’altro messaggio chiave che Orbán, sempre pronto a criticare l’Ue per nutrire il suo consenso, potrebbe aver inviato.

 

Foto: Zoltan MATHE / POOL / AFP

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