C’era una volta lo stato di diritto.
Perché sui valori l’Ue rischia la deriva

«Uno dei valori fondamentali dell’Unione europea è in pericolo: lo stato di diritto. La distruzione di questo valore fondamentale in uno degli Stati membri potrebbe portare all’emergere e all’accettazione di simili meccanismi e anche in altri Stati membri, il che potrebbe finire per portare al collasso dell’Unione europea». Le parole ruvide sottoscritte dai leader di quasi tutti i gruppi politici del Parlamento europeo in una lettera inviata ieri sera alla presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ci ricordano come, alle spalle della “scena madre” della rincorsa ai vaccini, c’è un’altra battaglia vitale che l’Ue sta rischiando seriamente di perdere: quella dell’applicazione dei princìpi fondamentali dello stato di diritto sul suo territorio.

Giustificabile o meno, la concentrazione quasi ossessiva dell’attenzione dei media sul bollettino quotidiano della pandemia – ieri di vittime e contagi, oggi (anche) di fiale e richiami – sembra in effetti aver offuscato nell’opinione pubblica qualsiasi altra preoccupazione: ma dall’inizio della crisi sanitaria lo “smontaggio” mattone dopo mattone della democrazia in Polonia e Ungheria – dunque in Europa – non si è affatto fermato, anzi. Peggio, i due Paesi leader della fronda autoritaria hanno imparato a sfruttare le falle del sistema di controllo Ue sul rispetto di criteri fondamentali per la sua stessa appartenenza come l’indipendenza della magistratura o il pluralismo politico, affinando una strategia di “resistenza” politico-legale che si sta dimostrando incredibilmente efficace. Ultima tappa, solo in ordine di tempo: il ricorso alla Corte di Giustizia contro il condizionamento degli ingenti fondi europei per la ripresa al rispetto dello stato di diritto, in questo modo di fatto neutralizzato sino alla sentenza, che potrebbe arrivare tra oltre diciotto mesi.

Una volta domato il virus, l’Ue si risveglierà con le fondamenta giuridiche e “morali” del suo stesso progetto politico erose? Per provare a capirlo, vale la pena riavvolgere il nastro.

«L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini», recita l’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, dando corpo alla miglior tradizione universalista e voce alla promessa di quel “mai più” richiamato all’unisono dalle società europee dopo il 1945: mai più guerra, mai più governi autoritari, mai più intolleranza verso le minoranze.

Sette decenni dopo l’avvio del cantiere dell’integrazione europea, quell’obiettivo pare quanto mai in pericolo. Evaporato rapidamente l’entusiasmo per l’allargamento – nella “vecchia” Europa così come nella nuova – Polonia e Ungheria hanno fatto da avanguardie per il centro-est Europa di quella che Holmes e Krastev hanno definito la rivolta antiliberale: una ricetta personalizzabile alla realtà di ciascun Paese ma composta essenzialmente di richiami ossessivi alla tradizione (bianca, cristiana, patriarcale) e alla nazione, disprezzo di diversi come gay, rom e migranti, smantellamento progressivo dell’indipendenza di presìdi di controllo sull’attività di governo come sistema giudiziario, media e organizzazioni della società civile.

Svuotata da ormai oltre dieci anni (Viktor Orbán la governa dal maggio 2010) di senso e di strumenti, quella ungherese non è già più definibile come una democrazia, sostengono autorevoli istituzioni e studiosi. Una brutta copia, nella migliore delle ipotesi. Una giovane autocrazia ai suoi primi passi, in quella più inquietante. Quanto alla Polonia, le cronache delle ultime settimane riferiscono di agguerrite manifestazioni di migliaia di donne contro i piani del governo di divieto pressoché assoluto dell’aborto; ma anche di zone dichiarate “LGBT-free” ai quattro angoli del Paese dove attivisti e cittadini gay o presunti tali sono esposti a violenze e persecuzioni.

A Budapest e Varsavia, insomma, la situazione si fa mese dopo mese più drammatica, il clima più intimidatorio per minoranze e opposizioni; ma la tendenza è nota, esplicita da tempo. Che fa dunque l’Ue per combattere questa deriva?

Per lunghi anni, la Commissione – che, è sempre utile ricordare, agisce su impulso politico del Consiglio, cioè l’insieme dei governi – ha tentato di neutralizzare le minacce alle fondamenta democratiche di suoi membri con le armi della diplomazia: richiami, ammonimenti, dialogo con i rispettivi governi, raccomandazioni. Valutazione d’impatto: risibile, al netto delle buone intenzioni, di fronte alla determinazione illiberale dei “ribelli”. Né le procedure d’infrazione occasionalmente sollevate presso la Corte di Giustizia su alcuni aspetti specifici hanno contribuito ad influire più efficacemente sul quadro.

Frustrata dagli sforzi vani, la Commissione (quella Juncker-Timmermans) ha infine preso la situazione in pugno ricorrendo all’arma più potente dell’arsenale giuridico Ue a dicembre 2017: di fronte agli attacchi frontali all’indipendenza della magistratura polacca, compresa la stessa Corte costituzionale, l’esecutivo di Bruxelles ha fatto ricorso all’articolo 7 del Trattato Ue chiedendo al Consiglio di avviare la procedura di “messa in mora” del Paese dichiarandolo formalmente a “evidente rischio di violazione grave dei valori” fondanti dell’Unione. Se portata sino al fondo, tale procedura è la sola di fatto nel toolbox istituzionale europeo a implicare sanzioni concrete contro uno Stato membro, come la sospensione del diritto di voto in ogni consesso Ue.

Quaranta mesi dopo, tuttavia, quella “pistola sul tavolo” del confronto Bruxelles- Varsavia s’è dimostrata scarica. «La procedura avviata dalla Commissione richiede che prima di procedere alla constatazione il Consiglio ascolti lo Stato membro in questione – spiega Sonja Priebus, ricercatrice all’università di Magdeburgo specialista della questione – ma non precisa né come, né quando o quante volte ciò debba accadere». Risultato: il Consiglio ha tenuto alcuni hearing di rappresentanti del governo polacco nel corso del 2018; poi più nulla. Tecnicismi a parte, spiega ancora Priebus, l’ostacolo di fondo è evidentemente politico: per proclamare formalmente l’“evidente rischio di violazione grave”, che pure evidente sarebbe già a tutti, serve la maggioranza dei quattro quinti dei Paesi membri, e non è affatto scontato che essa sarebbe raggiunta. Polonia e Ungheria a parte, sono parecchi i Paesi del blocco ex-sovietico che hanno situazioni interne sempre più borderline su questo o quel fronte dello stato di diritto, e vedrebbero come fumo negli occhi una procedura ai loro danni: dalla Repubblica Ceca alla Slovacchia, dalla Bulgaria alla Slovenia.

Come a dire che mentre l’Ue si perde – per insufficienza di strumenti a disposizione e di determinazione politica – in procedure di controllo lunghe e inefficaci, il virus illiberale si diffonde a macchia d’olio.

A onor del vero, di fronte alla minaccia di tale arretramento generale la Commissione ha provato a fare ulteriori passi, lanciando nel 2019 una nuova strategia di rafforzamento della cultura dello stato di diritto che passi da un lato da programmi di sostegno alla società civile e alle istituzioni indipendenti dei diversi Paesi, dall’altro dal cosiddetto Rule of Law Review Cycle, pensato per alzare il livello di pressione e di attenzione pubblica sulle violazioni, soprattutto con la Relazione Annuale sullo stato di diritto, pubblicata per la prima volta nell’autunno 2020. Utile strumento di verifica e monitoraggio, anche questo però non prevede alcun meccanismo sanzionatorio. E in sistemi mediatici ampiamente compromessi è perfino difficile il frutto delle sue raccomandazioni arrivi a destinazione.

Per provare a invertire la rotta, l’ultima arma rimasta in mano alle istituzioni Ue sembra (sembrava) essere dunque quella della leva economica, considerato che i fondi europei sono stati un volano fondamentale per la crescita tanto polacca che ungherese: a Varsavia nei soli anni 2015-2019 sono arrivati quasi 50 miliardi di finanziamenti nei vari programmi comunitari, a Budapest quasi 22: qualcosa come il 5% della spesa pubblica nel caso polacco, il 7,2% nel caso ungherese, come ha calcolato Pagella Politica. Difficile pensare che i rispettivi governi vogliano rinunciare a una tale manna che il programma Next Generation EU e il prossimo bilancio settennale promettono di replicare. Di qui l’idea di vincolare l’uso dei futuri fondi a criteri stringenti di rispetto dello stato di diritto.

Peccato che la ben allenata astuzia dei leader centro-orientali nell’incunearsi nelle debolezze dell’architettura decisionale europea rischi ora di neutralizzare anche quest’ultimo asso nella manica. Forti dell’unanimità necessaria per varare qualsiasi nuovo stanziamento di bilancio, come è noto, lo scorso autunno Orbàn e Morawiecki si sono messi di traverso sull’adozione del piano di rilancio Ue post-Covid fatto di fondi straordinari (Next Generation EU) e ordinari (quadro pluriennale 2021-27), minacciando di far saltare il tavolo in presenza della clausola di condizionalità. Ad evitare un fallimento che nessuno voleva è stato il compromesso dell’ultim’ora trovato a dicembre dalla presidenza di turno tedesca: sì ai fondi e sì al vincolo, ma con la possibilità di adire la Corte di Giustizia per verificarne la legittimità.

Detto fatto, lo scorso 11 marzo i due governi “ribelli” hanno presentato ricorso alla Corte, bloccando di fatto l’applicazione del meccanismo di verifica democratica. Game, set, partita?  «Tecnicamente, no – dice ancora Priebus – È difficile pensare che la Corte darà loro ragione nel merito del ricorso. Ma certamente hanno ottenuto il loro obiettivo primario, cioè quello di guadagnare altro tempo». Secondo gli osservatori europei la Corte potrebbe decidere sul contenzioso infatti non prima della metà del 2022. Nel frattempo, lo “smontaggio” delle garanzie democratiche in Polonia, Ungheria e forse anche altrove potrà procedere senza troppi fastidi esterni.

Un rischio di cui è ben consapevole il Parlamento europeo, che proprio ieri ha alzato la voce, approvando una risoluzione di rara durezza con cui minaccia di portare la Commissione stessa di fronte alla Corte se non si deciderà ad implementare il meccanismo di condizionalità da subito, e comunque non più tardi del prossimo 1° giugno. Secondo il Parlamento infatti il compromesso raggiunto dal Consiglio lo scorso dicembre non ha essenzialmente valore giuridico, e il ricorso promosso da Polonia e Ungheria dunque nessun effetto sospensivo. Nel caso il messaggio non fosse sufficientemente chiaro, il voto della risoluzione è stato accompagnato dalla lettera personale a Ursula Von der Leyen citata in apertura.

Sul rischio di “naufragio” dei valori fondamentali europei, dunque, la temperatura politica a Bruxelles (finalmente) sale. Ma addossare ogni responsabilità alla Commissione – come in molte altre vicende – pare esagerato, e un tantino ipocrita. «Review Cycle, condizionalità, perfino lo stesso articolo 7 si sono dimostrate in fin dei conti armi spuntate perché sono strumenti tecnici», riflette un altro specialista della questione, Cristian Surubaru dell’Università di Maastricht. «Ciò di cui c’è bisogno per tentare di cambiare realmente le cose è invece la politica: in primis nei Paesi stessi, naturalmente, con le forze di opposizione; in seconda istanza, dall’esterno, c’è bisogno che leader come Angela Merkel investano direttamente negli sforzi, s’impegnino in incontri bilaterali, esercitino pressioni, usino tutto il peso delle leve economiche che hanno a disposizione».

Se non ha valenza politica la salvaguardia delle fondamenta stesse dell’edificio europeo, in effetti, è difficile pensare che cos’altro ce l’abbia – specie nelle settimane in cui l’Ue sembra voler rilanciare il proprio ruolo di “garante globale” della democrazia e dei diritti umani infliggendo sanzioni a tutti i regimi che si macchiano di gravi violazioni dello stato di diritto. Difficile farlo credibilmente quando piccoli e medi autocrati scorrazzano indisturbati dentro casa.

 

Foto: I primi ministri di Polonia e Ungheria, Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán (Wojtek RADWANSKI / AFP)

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