Populista Bergoglio? Al contrario pluralista e nemico dei demagoghi

Papa Francesco è stato qualificato dai suoi critici come populista, cosa che va respinta senza riserve, a meno che accettiamo di definire come populista chi abbia a cuore il problema della povertà. Ipotesi assurda e disgustosa. II populismo è un concetto vasto, con diverse accezioni: nel contesto nord-americano, in quello russo nell’Ottocento e in quello latino-americano nel Novecento. Attualmente soprattutto in Occidente la parola definisce gruppi politici eterogenei che coltivano il risentimento verso le élite politiche ed economiche e l’ostilità verso immigrati, rifugiati e stranieri in generale: “noi” contro “loro”, contro i rappresentanti del potere in carica da una parte, e contro gli “altri” e i “diversi”, dall’altra, percepiti come una minaccia agli interessi del popolo nativo e residente. Ora, da questo populismo il Papa ha preso le distanze con grande energia, denunciandolo apertamente e paragonandolo addirittura al nazismo. Ma ha anche affermato, con Evangelii gaudiumuna concezione della politica come “vocazione altissima” e come “una delle forme più preziose della carità”, respingendone la “denigrazione” e l’abitudine di farne “il capro espiatorio” delle “nostre carenze”: respingendo il populismo, appunto.

Uno sguardo all’“Atlante” di Francesco ci dice anche molto di più, e cioè che siamo di fronte a una prospettiva aperta, sovranazionale, pluralista, che è esattamente opposta a quella dei populismi europei. C’è nelle posizioni del Pontefice una differenza fondamentale rispetto a quella di qualunque populista, tra quelli che hanno fortuna nel mondo contemporaneo nelle più diverse varianti, di destra e di sinistra, dagli indipendentisti scozzesi a Marine Le Pen o Mélenchon, da Narendra Modi fino a Donald Trump e in larga misura diversa anche dalla prospettiva di qualunque leader politico democratico. In democrazia gli eletti sono inevitabilmente limitati nel loro orizzonte spazio-temporale dalla pressione degli interessi della loro base. Anche il Papa ha una constituency con cui deve misurarsi, ma l’Atlante di Francesco è privo dell’ancoraggio a un centro di interesse geografico o etnico; è il contrario di “America first”, non è neanche sospettabile di “Europe first”, per tante ragioni, istituzionali e personali. Ma non è neppure “the Church first”. La sua teologia della misericordia non è etnocentrica, il che è ovvio, ma neppure “ecclesiocentrica”, cosa invece meno ovvia, perché il primato cristiano della misericordia e dell’annuncio evangelico, si manifesta in Francesco con l’offerta al mondo della Chiesa come attrice di alleanze prima che come portatrice di una propria verità, come promotrice di pluralismo prima e più che di una propria esclusiva giustificazione della fede e di una salvezza riservata a chi ne fa parte. La Chiesa di Francesco promuove insieme la propria identità cattolica, di cui riconosce ed esplicita “il dovere”, dovere che riconosce e esplicita anche per le altre culture e confessioni, e promuove insieme la propria fede, l’ecumenismo e il pluralismo religioso, oltre che la collaborazione con i non credenti, tutte cose che non sempre e non facilmente si accordano.

Considero qui la prospettiva geopolitica di cui il Papa è portatore da una angolatura specifica, che ritengo personalmente prioritaria e che non ha pretesa di essere esaustiva, ma certo rileva un tratto forte di questo pontificato: quello del pluralismo religioso e culturale. Un tratto che non è del tutto nuovo nella vicenda della Chiesa dell’ultimo cinquantennio. Si era affacciato già con una energia dirompente con Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, ed aveva avuto momenti molto significativi e vitali anche nel pontificato di Giovanni Paolo II: penso, tra le altre cose, ai seminari estivi di Castelgandolfo organizzati da Krzysztof Michalski, ai quali il Papa partecipava personalmente in uno spirito di dialogo tra le culture e tra credenti e non credenti. E penso a diverse fasi di quel pontificato, dal cosiddetto spirito di Assisi del 1986 (cui seguirono certo contraccolpi e polemiche),  fino alle scuse e al pentimento per gli errori commessi dalla Chiesa nel “servizio della verità” per l’Inquisizione, le Crociate, gli scismi, le persecuzioni religiose, i pregiudizi antigiudaici, un processo che preparò e accompagnò il Giubileo di fine secolo. E che subì poi una battuta d’arresto nell’anno stesso del Giubileo con l’epistola Dominus Iesus. E negli anni successivi.

Papa Francesco ha potuto dunque riprendere un percorso che ha lasciato tracce importanti e che non va dimenticato. E oggi si presenta sulla scena internazionale con una riflessione sul pluralismo, sapiente, esplicita e articolata. Opera e interviene sul tema della globalizzazione, ne affronta la complessità in un modo che rappresenta una innovazione forte; sarebbe da definire una innovazione “di processo” per rendere omaggio a un concetto che gli è caro, ma da profano vorrei dire, con metafora aziendalistica, che quella che il Papa offre è anche una “innovazione di prodotto”, dove il “prodotto” è un’“agenda aperta”, alle differenze e alle alleanze – concetto ricco di implicazioni teologiche – tra le religioni e le culture: una agenda che sviluppa un messaggio in difesa degli esclusi, dei poveri, nella dimensione globale, ma non alla maniera del localismo populista, senza la nostalgia del “bring back”, senza quel rimpianto di un tempo che fu, che Zygmund Bauman ha qualificato come “retrotopia”.

Francesco critica la versione della globalizzazione sostenuta dall’estremismo neoliberale, ma la dimensione globale gli è congegnale, per la sua storia personale, per il suo venire dalla “fine del mondo”, per quanto la sua elezione ha rappresentato nel decentralizzare lo sguardo della Chiesa, nel moltiplicarne i punti di vista, dopo due pontefici che, non più italiani, erano tuttavia ancora europei. Non ultima ragione di questa congenialità, la sua formazione di gesuita, che della Compagnia riprende con forza i tratti di apertura al pluralismo e al dialogo interreligioso, e di grande attenzione ai diritti umani e alla giustizia sociale. Con Giovanni Paolo II il Papato aveva già pienamente sviluppato un Atlante che includeva l’intero pianeta, grazie alla visione del mondo dello stesso Wojtyla, e l’aveva fatto anche mediaticamente – questa fu una rivoluzione –, estendendo la sua presenza nel “villaggio globale” di MacLuhan, grazie all’avvento dei satelliti televisivi che rendevano possibile la trasmissione contemporanea, in diretta, dei suoi viaggi dal Brasile, all’India, alla Nigeria. La novità di Francesco non è questa, è lo spostamento del baricentro e l’accento nuovo da lui messo nel riconoscimento e nel rispetto della diversità dei contesti (difficile non menzionare qui un elemento tipico della storia dei Gesuiti: la capacità di «inculturare» la fede), nel distacco da una prospettiva incentrata sulla struttura della Chiesa, di cui ha avviato una profonda riforma, in funzione anche di questa rinnovata visione del Cristianesimo.

Un esame degli atti e dei testi che corroborano queste affermazioni può cominciare con l’Enciclica Laudato si’, dove il tema dell’alleanza si presenta in tutto il suo vigore. Francesco vi offre infatti, come già ho sostenuto in un volumetto collettivo il contributo della religione come parte di un desiderabile concerto umano, volto a risolvere un problema di dimensioni enormi, prima che precipitiamo nel baratro, perché «se teniamo conto – è il testo dell’Enciclica – della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere (…) che nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio.» Nessuna forma di saggezza sia dunque esclusa: la Chiesa offre la sua, in quanto tale, con il suo proprio linguaggio, come complementare alle altre. Non avanza dunque una pretesa di verità, ma un’offerta di aiuto. Francesco sembra proprio qui tendere la mano alla filosofia postsecolare di Jürgen Habermas. E infatti aggiunge: “La Chiesa Cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione”. Il riferimento è molto evidente. Secondo il filosofo tedesco, tra cultura religiosa e non, tra credenti e non credenti, non solo è possibile un reciproco apprendimento, ma è anche utile che i non credenti affrontino lo sforzo di tradurre il contenuto delle esigenze manifestate dai religiosi, anche quando si esprime nel linguaggio della loro fede, in modo che i “depositi semantici” che vi si trovano possano essere resi servibili nella sfera pubblica. L’auspicio di Habermas è che “si prendano sul serio i contributi religiosi ai dibattiti politici e che, in una ricerca cooperativa della verità, ne verifichino un possibile contenuto esprimibile in termini laici e giustificabile nel linguaggio della motivazione”, linguaggio che negli atti pubblici dovrà adattarsi alla necessaria neutralità del diritto e della legge. E nell’Enciclica, in parallelo troviamo infatti l’affermazione, a proposito dei principi cari alla fede, che “il fatto che appaiano con un linguaggio religioso non toglie loro alcun valore nel dibattito pubblico. I principi etici che la ragione è capace di percepire possono riapparire sempre sotto diverse vesti e venire espressi con linguaggi differenti, anche religiosi”. La chiamata alla alleanza nella Laudato si’ mette in luce tre aspetti ricorrenti del suo pensiero: il primo è che la fede cristiana può e deve cooperare con le altre fedi e con le scienze; il secondo che la religione, in quanto tale a prescindere dalla sua determinazione specifica, cristiana o no, è un aspetto inestinguibile della dimensione umana; il terzo che questa collaborazione di una varietà di religioni e culture impone il metodo e la pratica del pluralismo culturale. L’enciclica lo annota con toni da antropologia culturale e religiosa: un processo storico di mutamento, come quello che è in gioco quando si parla di forme di vita, non può essere imposto dall’esterno, ma deve essere compreso “all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano” e richiede “il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura”. Ciascuno di essi dovrà comprendere e giustificare le cose da farsi di fronte alle “necessità attuali”, ispirandosi alle “rispettive fonti”. Significativo l’esempio degli “aborigeni”, per i quali “la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori”. Spazi da rispettare dunque e ambiti nei quali i mutamenti del modo di vita, anche quando necessari o inevitabili, devono avvenire all’interno delle diverse tradizioni e culture.

Del suo pluralismo Francesco ha dato diverse prove fin dall’inizio del pontificato quando ha connotato in modo estremamente negativo il concetto di “proselitismo”. Si tratta di giudizi che si connettono in modo stringente logicamente (e teologicamente) con l’ecumenismo cristiano, da una parte, e con l’idea dell’alleanza delle religioni non cristiane, dall’altra; e che includono l’apprezzamento per la cooperazione anche con i non credenti nel nome del bene comune.

Temi che ritornano nella intervista a Signum, la rivista svedese, su Lutero e la Riforma, alla vigilia del viaggio a Stoccolma: “La preghiera comune e le opere di misericordia, cioè il lavoro fatto insieme nell’aiuto agli ammalati, ai poveri, ai carcerati. Fare qualcosa insieme è una forma alta ed efficace di dialogo”. Ma no al proselitismo, tra cristiani di diversa affiliazione, che “è un atteggiamento peccaminoso”, perché trasformerebbe “la Chiesa in una organizzazione”, cioè come una sorta di bottega che persegue i propri interessi. “Parlare, pregare, lavorare insieme: questo è il cammino che dobbiamo fare. Nell’unità quello che non sbaglia mai è il nemico, il demonio. Quando i cristiani sono perseguitati e uccisi, lo sono perché sono cristiani e non perché sono luterani, calvinisti, anglicani, cattolici o ortodossi. Esiste un ecumenismo del sangue”.

Qui lo spirito di collaborazione riguarda i cristiani di ogni genere, ma in altri casi l’alleanza si estende esplicitamente al di fuori del perimetro cristiano. Era così nel caso della Laudato si’ in difesa del creato. Ed è di nuovo una alleanza allargata quella che riguarda la lotta alla corruzione. Anche in questo caso il Papa chiama ad affrontare insieme un problema, un male che logora le nostre vite fuori e anche dentro la Chiesa: “Noi, cristiani e non cristiani, siamo fiocchi di neve, ma se ci uniamo possiamo diventare una valanga: un movimento forte e costruttivo”. Si tratta di una alleanza che diventa un “nuovo umanesimo, questo rinascimento, questa ri-creazione contro la corruzione che possiamo realizzare con audacia profetica. Dobbiamo lavorare tutti insieme, cristiani, non cristiani, persone di tutte le fedi e non credenti, per combattere questa forma di bestemmia”.

Nel discorso del Cairo, dove il dialogo con l’Islam di al-Azhar ha un evidente centrale rilevanza, la formulazione dell’Atlante pluralista di Francesco evolve in forme sempre più esplicite. Se la questione al centro degli incontri in Egitto era quella della pace e del rifiuto della violenza, Francesco muove decisamente in direzione del tema che gli è caro dell’alleanza delle religioni, preparato da giudizi che valorizzano il rispetto reciproco e individuano “nella differenza una fonte di ricchezza e mai un motivo di scontro”. La sapienza che Francesco sprona a perseguire, “ricerca l’altro” superando “identità ripiegate su se stesse” e la tentazione di “irrigidirsi” e di far “prevalere la propria parte”, cercando invece “l’altro come parte di sé”. Sì dunque al dialogo interreligioso, guardato senza sospetto e timori, perchè “l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le culture”. Dobbiamo far nostri “il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni”, trasformare la competizione in collaborazione, allearsi per il bene comune. “Nel parlarne, vorrei utilizzare come simbolo il ‘Monte dell’Alleanza’, simbolo di un imperativo, quello cui sono chiamate tutte le religioni: soddisfare l’‘urgente bisogno dell’Assoluto’ escludendo qualsiasi assolutizzazione che giustifichi forme di violenza”. No, dunque a “sincretismi concilianti” (il Papa ha già richiamato il “dovere dell’identità”), ma dialogo e collaborazione nella chiara consapevolezza che l’assolutizzazione rigida della propria verità è in sé stessa causa di violenza.

Il no al ripiegamento sulla propria identità, il rifiuto di una assolutezza che prepara la violenza, la condanna del proselitismo, la diversità religiosa come ricchezza, la proposta di una alleanza tra le religioni per la salvezza del creato e contro la violenza sono indicazioni chiare di una ispirazione pluralistica che non può non avere anche una rilevanza teologica, una volta che il credente si ponga la domanda sul significato di questa varietà nel disegno divino.

 

 

Questo articolo è tratto, con poche modifiche, dal volume L’Atlante di Francesco a cura di Antonio Spadaro, Marsilio 2019. 

Immagine di copertina: papa Francesco saluta i pellegrini in Piazza San Pietro, al Vaticano, il 6 novembre 2024. (Foto di Filippo Monteforte / AFP)

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