La prima volta che Papa Bergoglio citò Sindrome 1933 fu nell’ottobre 2020, in pieno Covid, e alla vigilia delle elezioni americane perse da Trump. Lo fece in un incontro con l’allora premier spagnolo Sanchez. Otto minuti, dedicati a una lezione di politica. Di politica come “forma più alta di carità”. Era responsabilità dei politici impedire il ripetersi di quel che era successo negli anni trenta in Germania, con l’ascesa al potere di Hitler e la sua “invenzione” di una “patria”, una nazione “al di sopra di tutte le altre”, di un partito unico senza opposizioni, senza controlli, al di sopra delle leggi. “La patria – egli disse – dobbiamo costruirla con tutti”. Enfatizzando: “con tutti”. “Non è facile”, aggiunse.
“La patria va costruita”. La missione del leader politico, dello statista, è “consolidare la nazione”. Va consolidata, va considerata “come un organismo fatto di leggi, di modi di procedere, di usanze”. Per far forte e grande davvero una nazione bisogna “salvaguardarne il diritto, la giustizia”. Non si fa la patria secondo quello che il leader e l’ideologia di una parte si figurano, dicono o vorrebbero che fosse. Non la si fa cambiando la narrazione, facendo piazza pulita (borrón y cuenta nueva, la colorita espressione spagnola). Non la si fa imponendo la propria ideologia. La si fa “con tutti”, “con la realtà del popolo”, nella sua diversità. “La patria è qualcosa che abbiamo ricevuto dai nostri padri e dovremo lasciare ai nostri figli”. Non è quello che immagina “la fantasia tradizionalista” o l’ideologia di una parte. “È davvero triste quando le ideologie si appropriano dell’interpretazione di una nazione, e così facendo deturpano la patria”.
È a questo punto che Francesco invita caldamente i sui interlocutori a leggere Sindrome 1933, dove si racconta come Hitler divenne cancelliere, distrusse la Repubblica e la Costituzione democratica di Weimar, insomma quel che succede quando fallisce la politica e falliscono i politici. Lo usa come atto di accusa a tutti i sovranismi, a tutti i populismi, a tutti i “prima gli italiani”, “prima gli americani”, tutti i “Deutschland über alles”. A tutti i modi per appropriarsi di “nuove narrazioni” per brandirle come clava di una parte contro l’altra di una nazione. Era cinque anni fa. A risentirle oggi suona come profetico di Trump e dell’ideologia del Make America Great Again.
Sarebbe stata la prima di molte altre volte in cui ha fatto riferimento al mio libro. “Cita più te che i Padri della Chiesa”, la battuta di mio figlio. In effetti credo di essere il giornalista più citato dal Papa in questi anni. E ancora non mi raccapezzo sul perché di tanta sintonia del capo della Chiesa cattolica con lo scritto di un giornalista non cattolico, non credente, e per giunta ebreo. La prima volta parlava a braccio, non gli veniva il nome. Mi citò come “un intellettuale italiano del Partito comunista”. Si riferiva probabilmente alla notizia sul risvolto di copertina in cui si diceva che ero stato a lungo corrispondente de l’Unità in molti Paesi. Ero venuto a saperlo, del tutto di sorpresa, da un lancio Ansa segnalatomi da un amico. Lo segnalai agli amici direttori dei maggiori quotidiani italiani. Mi pareva una notizia. La Repubblica lo ignorò. “Anche per non offendere Scalfari”, che si riteneva interlocutore unico del Papa, mi spiegarono. Dal Corriere mi risposero: “Ma tu ti riconosci della definizione di comunista?”. “Che dite, gli dovrei chiedere una rettifica?”, replicai. Il Foglio era orfano inconsolabile di Ratzinger, qualunque cosa avesse detto il nuovo Papa veniva preso con fastidio.
Il libro glielo avevo dato in mano, due anni prima, a una delle udienze del mercoledì. “Parla di cose che lei ripete spesso”, gli avevo detto. Lui, incuriosito, l’aveva sfogliato, commentando, “interessante”. Poi l’aveva passato a uno dei suoi collaboratori. Non mi aspettavo che lo leggesse davvero. Né che gli facesse tanta impressione. E invece la lettura deve avergli lasciato un’impronta profonda se, dopo quella prima volta con Sanchez, ha continuato a citarlo, a invitare a leggerlo, a più riprese. L’ultima in un’intervista alla televisione argentina dell’aprile scorso, appena uscito dalla prima lunga malattia. L’aveva letto con attenzione, cogliendone perfettamente il senso: che a Hitler si arriva quasi senza accorgersene, non necessariamente con la violenza ma attraverso elezioni democratiche. Per colpa di politici sprovveduti convinti di poter controllare e gestire a proprio vantaggio il demonio che hanno evocato. Per l’insipienza di opposizioni incapaci di unirsi e fermarlo. Grazie a nuove “narrazioni” che stravolgono il senso di una nazione. Grazie al controllo dei media, all’incitamento all’odio, al fregarsene dei più deboli, all’emarginazione dei diversi.