Referendum Grecia, che cosa resta
del popolo sovrano

Articolo pubblicato su La Repubblica del 30 giugno 2015

Che cosa resta della “sovranità popolare” nel referendum di domenica prossima in Grecia?
Qualcosa sì, certo, e importante, ma siamo lontani da quel che quelle parole significavano quando gli Stati-nazione perimetravano con certezza l’orizzonte del comando politico, economico, militare e quello del diritto. I greci pronunceranno un nai o un oxi , un “sì” o un “no”, apparentemente chiari. Ma indirizzati a ordini di «sovranità» assai diversi, nazionale, europeo, internazionale. Chiamando un popolo, uno dei più piccoli dell’Unione, con undici milioni di abitanti, a pronunciarsi sulle proposte dei creditori europei rappresentati dalla troika (Commissione, Banca Centrale Europea, Fondo monetario), il primo ministro Alexis Tsipras ha compiuto un gesto di sfida che mette nelle mani degli elettori greci una scheda di cui non è facile decifrare il significato. Alle molti ragioni di ansia per il futuro, nella mente degli elettori greci si aggiunge un quesito: che cosa rappresenta il mio voto rispetto al governo nazionale? E a Bruxelles? E a Washington? Che cosa dico o mando a dire alla sinistra che mi governa e che mi chiede di votare “no”? A Juncker che mi chiede di votare “sì”? E al Fondo monetario e al resto del mondo?

A una scelta obiettivamente e comunque difficile si aggiunge il groviglio di contraddizioni, grazie al quale Syriza ha chiesto una proroga delle scadenze del debito, ma di fronte alle ultime ipotesi di compromesso ha indetto un referendum, quasi contando sulla possibilità che vengano accolte dal voto con un «sì», ma dicendo, per quanto la riguarda, di «no». Il partito chiede un «no» e se lo otterrà vedrà confermata la sua scelta, che aprirebbe la via, secondo la maggioranza degli osservatori, a un probabile abbandono dell’euro. Se invece riceverà un «sì» vedrà smentito ­ e sfiduciato? ­ il proprio operato, ma questo potrebbe consentire una ripresa delle trattative. Salvo che gli eventi non siano intanto precipitati oltre il punto di non ritorno.
Sulla piazza strettamente greca i «sì» e i «no» saranno un modo di misurare il consenso al partito di maggioranza relativa, e forse anche dei simpatizzanti di Tsipras sparsi per l’Europa.

Ma è questa la vera posta della sfida? C’è da dubitarne. La catena degli effetti dell’uno o dell’altro risultato non è controllabile. Quale ne sia l’esito, questo passaggio drammatico segnala una fase inevitabile di trasformazione dell’Unione europea, una costruzione che sta in mezzo al guado, tra livelli di sovranità, vecchi e resistenti (nazionali), oppure nuovi e latenti (federali), tra rischio di retrocedere e disintegrarsi da una parte e possibilità di dar luogo a una vera costruzione politica dall’altra.

Questo stato di incertezza dovuto alla creazione di una unione monetaria senza una unione politica è stato finora contenuto dalle mosse della Bce che ha prevenuto il collasso annunciando, quando necessario, acquisti di titoli senza limiti, «simulando» Draghi in questo modo, virtuosamente ­ ha notato Jürgen Habermas su queste pagine ­ , un potere fiscale che a rigore non possedeva.

Il modello repubblicano classico della sovranità nazionale, quello cui erano aggrappate le sorti della vecchia sinistra e della vecchia destra, della politica del secolo scorso anche nei suoi momenti migliori, sta da tempo sgretolandosi sotto i colpi di infiniti fattori che attraversano impietosamente i suoi confini perforandoli da ogni lato: la competizione economica, le imprese multinazionali che agiscono con la forza e il budget di dimensioni statali, le migrazioni, il terrorismo, ma anche i grandi soggetti privati internazionali, le fondazioni, le Ong, da Bill Gates a Transparency International. E poi le istituzioni sovranazionali, politiche, finanziarie, del commercio, del diritto, tecnologiche, sanitarie, professionali, dall’Onu alla Croce Rossa, dal Wto all’Oms, che formano una «Loya Jirga» mondiale, come la chiama un politologo americano riferendosi, in modo niente affatto spregiativo, all’assemblea generale afgana modellata sulle tribù in un mix di poteri centrali e periferici. Istituzioni che si prendono ciascuna uno spicchio del potere degli stati già gloriosamente sovrani.

Rousseau immaginava una volontà generale formarsi dal corpo di una cittadinanza che avrebbe espresso una sovranità inalienabile, ma anche incontaminabile da parte di interessi particolari o proprietari. Vedeva depositata lì la fonte del potere dello Stato nella sua natura di patto e nella purezza e stabilità di una base ben definita di partecipanti. Oggi questa ipotetica certezza, se mai è esistita, è minacciata, pressoché scomparsa; il formarsi della sovranità riposa su una cittadinanza cangiante e non omogenea; quote di sovranità sono cedute a livelli più alti di quelli nazionali, ai livelli sottostanti crescono spinte separatiste. L’Unione europea è di questo processo un laboratorio aperto, senza sipari, analizzabile da tutti nella sua fase più critica. Il «noi» dei cittadini greci che andranno a votare è un po’ anche il «noi» di tutti gli altri europei, tutti esposti al perimetro variabile, cangiante, della propria identità «sovrana». Di questo «noi» potrebbero continuare a far parte, ma potrebbero anche decidere di uscirne.

Photo credits: Getty

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