LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Marcia su Roma, antifascismo e religione civile

In questi giorni i nostalgici del ventennio fascista stanno dando vita a celebrazioni e plateali forme di azione per commemorare il novantesimo anniversario della marcia su Roma. L’Hotel Brufani di Perugia, da dove il 22 0ttobre del 1922 fu proclamata la mobilitazione generale, ospita un convegno organizzato dal ‘Comitato pro 90° anniversario’; a Roma Blocco Studentesco imperversa negli istituti scolastici, tra lacrimogeni e apologia del fascismo, e a Predappio va in scena un folclorico raduno. Intanto, a sinistra si discute di come finire di liquidare l’antifascismo, notoriamente già in crisi da tempo.

Che sia esistito un antifascismo dogmatico, al tempo del regime come dopo, lo sappiamo ed è bene esercitare giudizio critico su di esso; che sia esistito un antifascismo non democratico è cosa acquisita; che l’antifascismo – reciso il legame con democrazia e libertà – sia stato usato nell’Europa dell’Est in chiave anti occidentale e contro minoranze, è fatto su cui la ricerca storica fa il suo corso, stimolando una riflessione che induce a considerare la tradizione antifascista più come un ‘campo aperto e problematico’ che un ‘edificio di certezze e risposte definitive’ (cfr. Antifascismo e identità europea, a cura di De Bernardi e Ferrari); ma che si debba farla finita una volta per tutte con la “storia dell’arco costituzionale, dell’unità antifascista” e forse anche con la “retorica dell’Anpi”, mi sembra francamente troppo. È quanto invece sostiene Piero Sansonetti nell’ultimo numero de “Gli altri”, naturalmente non senza argomenti. Infatti, la “retorica dell’Anpi”, che Sansonetti in coda al suo intervento critica “con timidezza e affetto”, viene assunta come “uno degli elementi che in questi anni ha impedito (…) la nascita di una sinistra moderna, sovversiva, radicale e liberale”, capace di scardinare quegli elementi ideologici propri del fascismo – “ultralegalitarismo,  ordinismo, militarismo, moralismo”, ma anche “patriottismo” e “meritocrazia” – che sarebbero poi migrati in parte nello stesso campo antifascista e oggi nell’ideologia dei mercati.

Credo che la ‘furia’ libertaria di Sansonetti faccia un po’ troppo sbrigativamente tabula rasa di distinzioni che andrebbero coltivate: il patriottismo costituzionale, ad esempio (e Sansonetti lo sa bene), non ha nulla a che fare né con il militarismo né con il culto della nazione, né l’idea di una sinistra ‘moderna’ e radicale deve necessariamente strizzare l’occhiolino a forme di sovversivismo, culto della trasgressione per sé o considerarsi incompatibile con il senso di un perimetro condiviso di valori e memorie (l’idea dell’arco costituzionale).

Ma soprattutto quella furia libertaria sembra provocatoriamente volerla fare finita e sbarazzarsi dell’unica narrazione di cui questo Paese dispone per raccontare a se stesso, ai suoi figli, ai suoi nuovi cittadini – sì, proprio anche a loro, ai nuovi italiani –, una storia di liberazione e di lotta per la propria dignità. Con la retorica dell’Anpi non bisogna farla finita; l’Anpi va aperta, come sta meritoriamente cercando di fare l’Anpi per prima, al futuro e alle generazioni di quei ragazzi che regime fascista e Resistenza rischiano di non sapere neanche cosa siano stati. Vorrei dire a Sansonetti e a quanti, anche a sinistra, sono stanchi della retorica antifascista, che di retorica, immedesimazione, storie esemplari, racconti, luoghi, riti, cortei, avremo bisogno anche dopo Berlusconi e Monti. Una religione civile non è necessariamente una forma di pacificazione dei conflitti sulla memoria, ma quel che consente di sentire quei conflitti come nostri, parte del noi che vogliamo continuare ad essere, criticamente, e soprattutto inclusivamente. L’antifascismo come religione civile non è né un dogma né un anestetico, è una storia di libertà, la più drammatica e grandiosa che possiamo raccontare generazione dopo generazione, corteo dopo corteo, commemorazione dopo commemorazione, giorno dopo giorno, per smuovere le coscienze a indignarsi per le nuove forme di soprusi, negazione di libertà e ingiustizie; è la più drammatica e grandiosa storia di liberazione che possiamo raccontare per smuovere noi stessi a lavorare per un Paese inclusivo e in cui nessuno venga privato con la violenza di libertà e dignità.

  1. Caro Massimo,

    credo che oggi i giovani italiani abbiano con la Resistenza un rapporto simile a quello che i giovani degli anni ’20 del Novecento avevano con il Risorgimento: i più la percepiscono come un fatto lontano, pochi la ricordano con passione e vi riconoscono i tratti di una religione civile. Tuttavia, se penso a Bobbio, mi viene da dire che oggi noi non siamo più capaci di mettere insieme “maggiori”, maestri e compagni.

    Carlo Azeglio Ciampi ebbe ben chiara la necessità di preservare la memoria collettiva, e l’indissolubilità epica di alcuni passaggi storici: il Risorgimento, la Prima Guerra Mondiale e l’antifascismo della prima ora, la Resistenza. Si può dire che abbia consacrato il suo settennato a questo obiettivo. Quel seme un germoglio lo ha dato: a Torino, ad esempio, nei giorni più bui del berlusconismo l’orchestra del Regio suonava in piazza gli spartiti di Verdi. I balconi della città si coprivano di bandiere e il Presidente della Repubblica fu accolto come difensore della democrazia. Il popolo c’era, e dimostrava di capire.

    Ora, l’ANPI avrà molti limiti – anche retorici – ma non le si possono certo imputare le mancanze altrui. E se il problema fosse che troppi intellettuali – o presunti tali – anziché scrivere, educare ed agire usando sommessa coerenza, da anni preferiscono pascere superbi nei salotti televisivi? Prima che politico, il problema è culturale: forse la cosa più importante è riconoscersi ignoranti e riaprire i libri.

    “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla ‘bocca di lupo’ guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe. E’ l’inizio della primavera. Quei suoni, e il profumo del vento, e il cielo terso, mi danno un senso di vertigine.
    Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne.
    La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. E’ un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare…” (Sandro Pertini, Ergastolo di Santo Stefano, 1930).

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