L’ultimo appello di Barenboim: riscopriamo la musica del dialogo

Il dialogo in musica. Con uno spartito duro, incalzante, che non concede nulla a mielose melodie a lieto fine. Un j’accuse possente, da leggere tutto di un fiato, perché a pronunciarlo è uno dei più grandi musicisti contemporanei e, ancor più, un grande uomo: Daniel Barenboim, già direttore musicale generale del Teatro alla Scala, dell’Opera di Stato di Berlino e dello Staatskapelle di Berlino. Insieme al compianto Edward Said, ha co-fondato la West-Eastern Divan Orchestra, un’orchestra con sede a Siviglia di giovani musicisti arabi e israeliani. Nessuno può certo tacciare il Maestro di antisemitismo o di essere un nemico d’Israele. Al contrario. Il suo j’accuse è un atto d’amore di un uomo, di un ebreo, che non accetta di chiudere gli occhi o restare silente di fronte alla deriva etnocratica che sta prendendo la democrazia in Israele. Una deriva che si alimenta di una cultura militarista e di una logica annessionista che nulla hanno a che vedere con il sogno dei padri fondatori dello Stato d’Israele.

Ascoltare il suo appello, pubblicato pochi giorni fa su Haaretz, fa bene alla mente e al cuore.

«Questa settimana, il 35° governo dello Stato di Israele presterà giuramento, 75 anni dopo la fine dell’Olocausto. Nel suo accordo di coalizione, il nuovo governo dichiara di pianificare un voto del governo e/o della Knesset sull’annessione di parti della Cisgiordania (la valle del Giordano e gli insediamenti), sulla base del ‘piano di pace’ dell’amministrazione Trump. Questo piano è un ulteriore passo nella direzione di tutto tranne che di un accordo di pace con i palestinesi. È a dir poco catastrofico.

Storicamente, il fatto che Israele sia una democrazia liberale funzionante – spesso chiamata l’unica democrazia in Medio Oriente – è stato il suo capitale politico principale, un capitale anche basato su una pretesa di moralità esemplare che è stata alla radice dell’esistenza ebraica nel corso della storia.

Una delle dichiarazioni centrali della Torah, riecheggiata in molte ingiunzioni, è “Giustizia, giustizia che perseguirai”. La ricerca della giustizia è stata in effetti un principio fondamentale dell’ebraismo sin dal suo inizio. Gli insegnamenti universali della tradizione ebraica sulla responsabilità verso tutti gli esseri umani e verso il mondo intero riflettono un profondo impegno nei confronti dei principi etici della giustizia.

Ma Israele sta spendendo questo capitale storico alla velocità della luna, per due ragioni interconnesse: l’etica della sua memoria della Shoà e il suo continuo trattamento dei palestinesi.

Alla fine del XIX secolo, Theodor Herzl fece un bellissimo sogno della patria ebraica. Ma sfortunatamente, solo pochi anni dopo, una narrazione si intrufolò nella narrazione: la Palestina come “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Questo semplicemente non era vero: nel 1914, il popolo ebraico rappresentava solo il 12 percento della popolazione totale della Palestina. Nessuno può onestamente affermare che la Palestina fosse allora una terra senza popolo (per un popolo senza terra) e questo fatto è al centro dell’incapacità storica dei palestinesi di accettare l’esistenza dello Stato di Israele.

Questa opposizione non ha alcun legame con l’odiare gli ebrei. Accusare i palestinesi di essere antisemiti è inaccettabile, perché il loro rifiuto di accettare una presenza ebraica in quello che oggi è lo Stato di Israele ha una chiara base storica. Non ha nulla in comune con l’antisemitismo europeo diffuso che ha trovato la sua espressione più orribile nella Shoà.

Israele ricorda solo il passato del popolo ebraico. Ma ha perso la capacità di ricordare. Ricordare significa richiamare dalla memoria di una persona mentre ricordare significa raccogliere nuovamente i propri pensieri, in particolare sugli eventi passati. La necessità perfettamente corretta di dire “mai più” quando si parla della Shoà non deve essere l’unica forma di impegno con il passato. Ci deve essere un ulteriore aspetto costruttivo legato al ricordare, ci deve essere ricordo.

Certo, la Shoà deve essere riconosciuta da tutto il mondo, compresi i palestinesi, deve essere studiata e compresa in modo da non poter essere ripetuta. In nessun momento e da nessuna parte. Edward Said lo ha capito perfettamente e ha combattuto contro la stupidità e la crudeltà dei negazionisti della Shoà.

Era chiaro che una mancanza di comprensione della devastazione umana della Shoà e della sua negazione razzista avrebbe aperto la porta a una ripetizione e sarebbe stata crudele, sia per la memoria di coloro che sono morti sia per la realtà di coloro che sono sopravvissuti.

Ma la comprensione in senso spinoziano ha un altro significato più profondo: Conoscenza e comprensione sono distinte. La conoscenza è qualcosa che accumuli ma la comprensione proviene da un profondo processo di ragionamento e conduce alla libertà.

Applicato alla memoria della Shoà, questo significa che acquisire conoscenza attraverso la comprensione della sua stessa essenza ci consentirà di non essere schiavi di un ricordo che non dobbiamo dimenticare. Altrimenti offrirà la giustificazione di tendenze non democratiche e militaristiche che mettono gravemente a repentaglio il presente e il futuro delle società israeliana e palestinese.

L’orrore della disumanità della Shoà e della sua tragedia appartiene all’umanità nel suo insieme. Sono convinto che solo la capacità di vederlo in quanto tale ci darà la necessaria chiarezza di pensiero e capacità emotiva per affrontare il conflitto con i palestinesi. Se è vero che i palestinesi non saranno in grado di accettare Israele senza accettare la sua storia, compresa la Shoà, è altrettanto vero che Israele non sarà in grado di accettare i palestinesi fintanto che la Shoà è il suo unico criterio morale per esistere.

E che dire di Israele e del suo nuovo governo? Non solo la sua etica della memoria è imperfetta, ma mantiene l’occupazione e crea nuovi insediamenti e ora pianifica persino di annettere territori aggiuntivi, e tutto ciò ha reso i palestinesi moralmente superiori. Ma israeliani e palestinesi sono e saranno permanentemente interconnessi. Gli israeliani non sono solo gli occupanti e i palestinesi non sono solo le vittime. Ognuno è un “altro” ma preso solo insieme, formano un’unità completa.

Pertanto, è essenziale che ciascuno comprenda non solo la propria narrazione, ma anche l’esperienza umana dell’altro. Possiamo imparare questo dalla musica: la musica non racconta mai una singola narrativa, c’è sempre un dialogo o un contrappunto. Se nel dibattito politico c’è una sola voce, è un’ideologia rigida. Ciò non potrebbe mai accadere in musica».

È difficile non emozionarsi nel leggere questo scritto. È impossibile, se si ha ancora una coscienza democratica e una memoria storica, non condividerne ogni passaggio, ogni virgola. Reset lo mette a disposizione dei suoi lettori, dopo che la Knesset ha votato la fiducia (73 sì, 47 no) al nuovo governo Netanyahu-Gantz. Un Governo che “stecca la prima” e che si appresta a replicare uno “spartito” (politico) che Barenboim non dirigerebbe mai. Per il bene d’Israele. E di una pace giusta, tra pari, in Palestina.

PS. Per non steccare neanche noi, l’aggiunta va nel post scriptum. Israele ha dunque un nuovo governo. Il più grande, nel senso della ipertrofia ministeriale (36 ministri, 16 vice) della sua storia. Nell’immediato, il neo-governo monstre dovrà cimentarsi con la “guerra” al Covid. D’altro canto, ufficialmente il nuovo esecutivo è nato proprio su questa emergenza nazionale, o almeno questa è stata la narrazione di Benny Gantz, alle prese con una scissione nella coalizione Blu e Bianco che lo rende più debole nei confronti di “King Bibi” Netanyahu. Sul Coronavirus, le mascherine, i tamponi, il distanziamento sociale, sarà alquanto improbabile che i due sodali troveranno il modo di litigare. Ma le cose si complicheranno quando si tratterà di dare il via alla fase realizzativa dell’estensione della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano e gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania palestinese occupata da Israele nel 1967. Le restanti porzioni, i centri abitati palestinesi o poco più, resteranno sotto la legge militare israeliana. Una battaglia cruciale, quella dell’annessione e dell’ampliamento unilaterale dei confini d’Israele, per il primo ministro più longevo nella storia d’Israele, sulla quale si è sempre speso considerandola la sua eredità storica. Gantz vorrebbe prendere tempo, ma per Netanyahu e il suo indefesso sostenitore americano, l’amico Trump, è tempo di azione. E di annessione.

E il tempo è un fattore chiave anche dalle parti di Ramallah. Il rischio, confidano a Reset autorevoli fonti vicine ai massimi livelli della dirigenza palestinese, è che il governo israeliano, col sostegno americano, metta il tutt’altro che compatto schieramento arabo di fronte al fatto compiuto, e a quel punto, secondo la fonte, verrebbero a galla le divisioni esistenti, dietro alle quali vi sono mire regionali di potenza che dividono il fronte sunnita, guidato dall’Arabia Saudita, a quello sciita, con l’Iran in testa. È in questo contesto, che è maturo l’annuncio del presidente palestinese, Abu Mazen, di porre fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, affermando che il primo, come potenza occupante, è responsabile dei territori che occupa.

«L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e lo Stato della Palestina sono da oggi esentati da tutti gli accordi e le intese con i governi americano e israeliano e da tutti gli obblighi ivi previsti, compresi quelli di sicurezza», si legge nella dichiarazione presidenziale, pubblicato dall’agenzia statale Wafa. Abu Mazen esorta Israele ad assumersi i propri obblighi in quanto potenza occupante «con tutte le conseguenze e le ripercussioni basate sul diritto internazionale e umanitario, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra». Il che riguarda, aggiunge, le responsabilità per la sicurezza della popolazione civile nei territori occupati e delle sue proprietà, il divieto di punizioni collettive, del furto di risorse, dell’annessione di terra e di trasferimenti di popolazione dall’occupante agli occupati, che «costituiscono gravi violazioni e crimini di guerra». Il presidente palestinese ha ripetuto il netto rifiuto della proposta di pace statunitense e condannato la decisione dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e riconoscere la città come capitale di Israele. Per contro il presidente palestinese ha ripetuto il suo appoggio a uno Stato indipendente, contiguo e sovrano nelle frontiere del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e «una pace giusta e completa basata sulla soluzione dei due Stati».

Linea che, sulla carta, è sposata da tutti i Paesi facenti parte della Lega araba. Sulla carta, per l’appunto…

 

Foto: MICHELE TANTUSSI / AFP

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