Israele-Hamas, l’attrazione fatale degli opposti e il fallimento delle leadership

Fallita come forza di governo, resuscitata come perno della resistenza al “nemico sionista”. Hamas ringrazia Netanyahu, il suo più grande alleato. Sì, alleato. Perché è nella guerra che i falchi si riconoscono e si rilegittimano a vicenda. È la tragedia in atto. La violenza come sostitutiva della politica. O meglio ancora: la forza che si fa politica. Un primo ministro che cerca di sopravvivere politicamente alle inchieste giudiziarie che lo chiamano in causa direttamente, giocando l’unica carta a sua disposizione: la sicurezza minacciata di Israele. Un movimento che ha fallito la prova di governo e che cerca una nuova legittimazione cavalcando la rabbia e la sofferenza e cercando nella resistenza all’”occupante sionista” il recupero di una sua centralità. Una popolazione in gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’uno con l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza.

Il sangue versato a Gaza racconta una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nella Striscia uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione. È la storia di quattro guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l’”entità sionista” (Hamas). È la storia di punizioni collettive, di quindici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Il sangue di Gaza chiama in causa i due “Nemici” che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso.

Perché “compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra Israeliani e Palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.

Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas, può al massimo contemplare una hudna (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. Hamas fa la guerra perché sa di non poter vincere le elezioni. Quelle prima convocate per l’estate e poi rinviate dal presidente Mahmoud Abbas con il consenso di Fatah e del movimento islamico. Meglio combattere che perdere il potere.

«Mahmoud Abbas ha aspettato più di un decennio per indire le elezioni per il Consiglio Legislativo dell’Autorità Palestinese, la presidenza e il Consiglio Nazionale dell’Olp. Ironia della sorte, queste elezioni programmate rischiano di ritorcersi contro e di causare un danno irreparabile alla democrazia palestinese», annota in un documentato articolo su Haaretz il professor Bishara A. Bahbah, che ha insegnato all’Università di Harvard, è stato membro della delegazione palestinese ai colloqui di pace multilaterali sul controllo delle armi e la sicurezza regionale ed è fondatore del Palestine Center di Washington.

«Questo non perché le elezioni e la democrazia siano un male per i palestinesi – riflette ancora lo studioso – Ma la tempistica è terribile: le elezioni potrebbero mettere a repentaglio il ripristino dei legami post-Trump con gli Stati Uniti, potrebbero gettare il processo di pace in un congelamento ancora più profondo e potrebbero portare alla disintegrazione di Fatah.  Inoltre, le elezioni sono programmate per essere tenute nel mezzo di una pandemia che Abbas sta gestendo male: non riuscendo a garantire i vaccini con i suoi sforzi per i palestinesi, e non riuscendo a far valere con sufficiente forza che Israele, secondo le convenzioni di Ginevra, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e i codici dei diritti umani, è responsabile di garantire il vaccino per i palestinesi che vivono ancora sotto l’occupazione di Israele. Se, vicino al giorno delle elezioni, Abbas sente che potrebbe perdere il suo controllo tripartito di Fatah, l’Autorità Palestinese e l’Olp, potrebbe annullare il suo recente impegno alle elezioni per mantenere il potere senza un mandato. In effetti, fin dalla sua elezione alla presidenza dell’Autorità Palestinese nel 2005, sono state le azioni di Mahmoud Abbas a danneggiare maggiormente la democrazia palestinese. Anche se il mandato presidenziale di Abbas è terminato il 9 gennaio 2009, è stato successivamente esteso a tempo indeterminato da un comitato centrale di Fatah compiacente. Abbas ha trasformato l’Anp in una dittatura. Ha scavalcato il Consiglio legislativo palestinese, sospeso poco dopo la sconfitta di Fatah a Gaza nel 2007, e ha iniziato a governare per decreto presidenziale. Si è rifiutato di indire nuove elezioni da allora fino a due mesi fa. In quel periodo, Abbas ha emarginato l’Olp, il più alto organo politico per i palestinesi di tutto il mondo, e ha indebolito le sue istituzioni politiche e militari. Ha prosciugato le sue fonti di finanziamento indipendenti per sostenere l’Anp, l’organo politico per i palestinesi in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, nato dagli ormai defunti accordi di Oslo. L’attuale intenzione di Abbas di candidarsi di nuovo alla presidenza dell’Anp alla veneranda età di 85 anni sta causando convulsioni all’interno di Fatah e portando alla sua scissione in tre fazioni più una fazione indipendente. Questo potrebbe segnare la fine del dominio di Fatah tra le istituzioni politiche palestinesi come le conosciamo oggi».

Se si andasse al voto e se egli si candidasse, sostiene il direttore del Centro palestinese per la politica e la ricerca Khalil Shikaki, ad ottenere il maggior numero di voti sarebbe oggi Marwan Barghouti – leader della Seconda Intifada, in carcere in Israele dal 2004 dopo essere stato condannato a cinque ergastoli.

Secondo l’ultimo sondaggio del Centro, il 78% degli elettori palestinesi dovrebbe votare alle prossime elezioni generali: il 27% voterebbe per la lista di Hamas, il 24% quella di Fatah, il 20% la lista di Barghouti ed il 7% la lista di Mohammad Dahlan, anche lui membro di Fatah. Ma alla richiesta di indicare il loro candidato presidenziale preferito, ha riferito Shikaki, il 22% ha scelto Marwan Barghouti, il 14% Ismail Haniyeh, il 9%, l’attuale presidente Mahmoud Abbas ed il 7% Dahlan.

Secondo diversi analisti, la decisione di Abbas di rinviare le elezioni non ha avuto solo l’effetto di aumentare la frustrazione dei palestinesi o di saldare la protesta esplosa rispetto a Sheikh Jarrah. Non ha nemmeno solo influito negativamente sulle relazioni tra Hamas e Fatah, bensì sulla vitalità delle altre fazioni palestinesi, che in questa tornata elettorale avevano anche discrete chances di ottenere dei seggi. Secondo l’analista palestinese Mohammad Hijazi, diverse formazioni come il movimento Mustaqbal (Futuro) guidato dall’ex leader di Fatah, Mohammad Dahlan, o la lista Hurriyah (Libertà), guidata dall’ex leader della fazione Tanzim di Fatah, Marwan Barghouti, hanno perso la possibilità di fare la differenza all’interno delle strutture dell’Autorità palestinese.

La protesta di Hamas rispetto al rinvio del voto appare invece artificiosa e calcolata, forse alimentata da Turchia e Qatar. A Gaza, Hamas rimane in qualche modo aggrappata a un potere più che decennale, dei cui benefici finanziari approfitta per mantenerlo saldo. Se ci fossero delle elezioni ci sarebbe il rischio per Hamas di dover fare i conti con una nuova Assemblea legislativa e un nuovo governo che forse la incalzerebbe sul controllo della Striscia. Non uno scenario augurabile per Hamas, che potrebbe aver condannato pubblicamente il rinvio delle elezioni più per mettere in imbarazzo Abbas che per altri motivi. E oggi, per crescere in consensi, sceglie la guerra.

Sullo sfondo di questo proliferare di liste, di riposizionamenti e colpi bassi, si staglia, gigantesco, il rigetto verso questa politica del baratto da parte dei giovani palestinesi. Un rigetto che viaggia in rete, sui social media che sfuggono al controllo di Hamas e dei servizi dell’Anp. La lettura di queste chat è molto più istruttiva dei discorsi paludati di vecchi leader e o aspiranti tali. Il quadro che ne esce è di un malessere diffuso, di un rigetto verso politici arricchitisi “sulla nostra pelle”. È una volontà di cambiamento che fatica a incanalarsi. Ma essa esiste, e segna il fallimento delle vecchie leadership.

Certo, l’occupazione israeliana, la creazione, di fatto, di un regime di apartheid in Cisgiordania, l’assedio pluridecennale di Gaza, tutto ciò influisce pesantemente sullo sviluppo di una sana vita politica in Palestina. Ma non può giustificare tutto. Non giustifica i finanziamenti milionari arrivati all’Autorità nazionale palestinese sperperati in una moltiplicazione di apparati di sicurezza o peggio finiti sui conti esteri degli esponenti della nomenclatura. L’occupazione israeliana non assolve una classe dirigente palestinese che si è autoriprodotta selezionando il personale non sulla base della competenza e neanche nel ruolo avuto nella resistenza, ma per fedeltà al capo bastione. Chiunque faceva ombra è stato accantonato, criminalizzato, fatto fuori. E pur di non farsi da parte, sparano razzi. Dare morte, per poter vivere (al potere).

 

Foto: Mohammed Abed / AFP.

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