Egitto, condannato Bahey Hassan, storico attivista per i diritti umani

A 15 anni per "diffusione di notizie false e attività antigovernativa all'estero"

Parla dal suo esilio Bahey Eldin Hassan. Dal luogo che lui ha scelto per auto esiliarsi quando ha avvertito l’urgenza di mettersi in protezione. Sono passati sei anni ormai dalla sua fuga dall’Egitto. Un periodo segnato dalle minacce di morte (anche a mezzo stampa); la confisca dei beni della sua famiglia; il trasferimento della sede della sua Ong (una delle più importanti della regione) e la comparsa del suo nome nella lista dei non graditi all’aeroporto del Cairo. Nel mezzo anche una causa, da lui iniziata ma mai portata a termine dalla Magistratura egiziana, contro un presentatore televisivo che ha incitato in diretta ad ucciderlo avvelenandolo “alla russa”. E alla fine due casi contro di lui – formalmente diversi, ma sovrapposti – conclusi entrambi con una condanna. L’ultima – a 15 anni di carcere – è arrivata in contumacia proprio ieri, 25 agosto.

«Per decenni, l’indipendenza della Magistratura in Egitto è stata uno degli obiettivi a cui ho dedicato la mia vita. Per tutto questo tempo, ho unito le forze con giudici di grande principio dediti allo stesso obiettivo. Li invito a continuare la loro lotta per essere liberi dal dominio della sicurezza statale sul funzionamento della giustizia; solo una Magistratura indipendente sradicherà la repressione dall’Egitto», dice Bahey Eldin Hassan poche ore dopo aver appreso quanti anni di prigione gli spetterebbe qualora decidesse di tornare in Patria, anche solo per qualche giorno. Poche parole che non entrano nel merito dell’assurda sentenza del caso 5370 del 2020 contro di lui, ma che commentano piuttosto l’ancora più assurda fusione e sovrapposizione dei poteri in un Egitto che ormai dieci anni dopo la rivoluzione di piazza Tahrir fa spallucce alla divisione tra legislativo, esecutivo e giudiziario e nuovamente nelle mani dei militari deve accontentarsi di una Magistratura manovrata – come in passato – dal potere esecutivo. Quel potere in mano ai militari che domina su tutti gli altri. La condanna arriva infatti da una corte che si occupa di questioni legate al terrorismo, quello reale e quello cibernetico. In base alla recente legge proprio su quest’ultimo crimine[1] – una  norma che si aggiunge a una più vasta legge draconiana sui media – Bahey Eldin Hassan è stato infatti accusato di aver insultato il sistema giudiziario e diffuso false notizie, soprattutto via social, ma anche partecipando a conferenze internazionali, alcune delle quali tenute anche recentemente in Italia, dove un anno fa un’intervista rilasciata a Il Manifesto aveva scatenato la rabbia dei media egiziani.

Un’accusa che diverse organizzazioni internazionali – prima fra tutte Amnesty International – hanno descritto come ingiusta e parte di un più vasto e preoccupante giro di vite contro i difensori dei diritti umani portato avanti dal regime, cavalcando slogan in voga come quelli della lotta alle fake news e al terrorismo. Termine, quest’ultimo, che in Egitto si usa non solo per descrivere le milizie sempre più pericolose nel Sinai e al confine con la Libia, ma anche per indicare gli oppositori dei militari.

Secondo la Ong guidata da Bahey Eldin Hassan, il Cairo Institute for Human Rights Studies, la sentenza del caso 5370 si inserisce nel contesto di una più ampia campagna per la “sicurezza dello Stato” in corso almeno da sei anni sulla quale Bahey Eldin Hassan si era espresso in modo critico anche sulle pagine del New York Times già tre anni fa. Una campagna – denuncia la Ong – che viene portata avanti attraverso “intimidazioni e ritorsioni contro i difensori dei diritti umani dentro e fuori dal Paese” al fine di dissuaderli dal denunciare i gravi crimini commessi dal regime contro i diritti umani. La biografia stessa di Bahey è puntellata di minacce ed azioni di ritorsione contro di lui. Lo mostra anche un’altra recente condanna, anch’essa in contumacia, a tre anni di carcere e una multa di 20 mila lire egiziane (circa duemila euro) per aver diffamato la Magistratura con un tweet (caso 5530 del 2019). Accuse simili a quelle della più severa condanna di questi giorni, frutto di indagini portate avanti dallo stesso Procuratore che aveva deciso di sospendere le inchieste relative alla denuncia depositata da Bahey nei confronti del presentatore televisivo che aveva incitato alla sua uccisione.

 

Faro per i diritti 

Colpire l’anziano Bahey, vuol dire colpire un pilastro della diffusione della cultura dei diritti umani in tutta la regione, visto che Eldin Hassan può essere a tutti gli effetti considerato uno dei padri degli attivisti e dei difensori dei diritti umani egiziani, molti dei quali hanno infatti partecipato ai corsi da lui organizzati presso il Cairo Institute già diversi anni prima della rivoluzione di piazza Tahrir. Bahey – che alla passione per i diritti umani unisce quella altrettanto sfrenata per l’arte e la cultura – scende in campo già alla fine degli anni Ottanta, quando diventa membro della commissione sulla libertà di stampa all’interno del sindacato dei giornalisti. Pochi anni dopo aderisce a organizzazioni panarabe devote alla difesa dei diritti umani per arrivare poi a creare il Cairo Institute, un faro della difesa dei diritti umani in Egitto, il cui mandato va ben oltre il Paese del Nilo.

Già negli anni Novanta capisce che la sua attività è invisa al regime. I membri del consiglio di quest’organizzazione vengono infatti arrestati e torturati. Sin dalla creazione del suo istituto, Bahey deve quindi combattere non solo per la sopravvivenza della Ong, ma anche per la propria incolumità. Me lo racconta lui stesso, mentre nel 2014 appunto le vicissitudini della sua fuga che si trasforma nel giro di poco in un autoesilio oggi difficilmente reversibile. «La fase peggiore è stata per me la più recente, quella successiva al ritorno dell’esercito. Da quando i militari sono tornati al potere, tutto è diventato estremamente più complesso e più pericoloso», mi spiega quando decide di mettersi al sicuro, trasferendosi in una località a migliaia di chilometri di distanza dal Cairo.

È uno dei più anziani difensori dei diritti umani a optare per l’esilio. Come lui centinaia di giovani e meno giovani, laici e islamisti, intellettuali e dottori, professori, sindacalisti, artisti e giornalisti scelgono alla fine di allontanarsi dal Nilo per sfuggire alla repressione che torna a costruire una morsa attorno al Paese. Una nuova diaspora che ha diverse capitali, quante sono le correnti politiche che vi afferiscono, diverse facce e in alcuni casi anche diverse agende politiche. Un nuovo fenomeno che personalmente attrae la mia attenzione già nel 2014, quando inizio a seguire una serie di storie di viaggi tanto veloci quanto dolorosi che si fondono in quella che davanti ai miei occhi si presenta come una nuova “Fuga dall’Egitto” (Infinito Edizioni), titolo del libro – che contiene anche la storia di Bahey – e che alla fine diventa un’inchiesta sulla diaspora del dopo golpe. Un tema che negli anni cattura l’attenzione anche di accademici e ricercatori, come mostra il saggio pubblicato nel 2019 dall’istituto Carnegie a firma di Michelle Dunne e Amr Hamzawy, lui stesso fuggito dal Cairo per una vicenda simile a quella di Bahey Eldin Hassan che nei fatti lo ha costretto ad allontanarsi da una delle sue cattedre universitarie. Egypt’s political exiles: going anywhere but home è il primo riscontro accademico su un tema che incuriosisce molti giovani ricercatori, come mostra anche la tesi di Mostafa Elsayed Hussin presso l’università norvegese di Munin, un lavoro empirico ed etnografico che analizza due tra le comunità europee più ricche di esuli egiziani, Parigi e Berlino, per raccontare come queste particolari comunità diasporiche cercano di dare un senso alla loro vita quotidiana, in molti casi senza rinunciare a quella resistenza che li ha costretti a fuggire da casa. Uno studio dal quale emerge quello che da anni già in tanti raccontavano, ovvero che anche il semplice rinnovo del passaporto è ormai diventata una missione complessa per chi – lontano dal Cairo – continua ad avere una voce stonata. Un fenomeno, quello di questa nuova diaspora, che solo da un anno e solo in minima parte ha toccato anche l’Italia.

 

[1] Sulla legge sui reati cibernetici, Cfr. TIMEP, Cybercrime law, 19 dicembre 2018, https://timep.org/reports-briefings/cybercrime-law-brief/.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *