Dopo la guerra, l’indipendenza
Il sogno dei curdi iracheni tra crisi e IS

Da Reset-Dialogues on Civilizations

In fondo a Nohra street si alza una colonna di fumo denso. È il 17 aprile 2015, sono quasi le 18. Ankawa è il sobborgo a nord di Erbil a maggioranza cristiana, ed è qui che si sono concentrati la maggior parte degli sfollati interni, fra campi improvvisati nei cortili delle chiese, e all’interno degli scheletri di palazzi in costruzione mai terminati.

La colonna di fumo si allarga percorrendo la strada in direzione della città, verso la cattedrale di Mar Yousif, Saint Joseph. Si sentono i primi spari, sempre più nitidi. Un pick up con un ferito a bordo si fa strada nel traffico sparando in aria raffiche di kalashnikov. Davanti alla chiesa si sono radunate decine di persone, che restano in silenzio sul marciapiede, a guardare dalle strette traverse la via parallela già chiusa al traffico. “Deve essere stata un’autobomba – dice un uomo che vive nel quartiere – sicuramente era diretta al consolato americano. Dove ci sono loro prima o poi arrivano i problemi; non siamo più sicuri nemmeno qui in città”.

“Stavo facendo footing – racconta una ragazza straniera trafelata – e ho sentito uno scoppio fortissimo. Ma non sono riuscita a vedere nulla, solo questo fumo”. Quattro macchine sono state imbottite di esplosivo e fatte saltare in aria di fronte al muro di cemento che circonda il consolato. Hanno devastato per un centinaio di metri tutto quello che è stato investito dalla deflagrazione. Una delle macchine sarebbe arrivata il più vicino possibile all’ingresso per attirare l’attenzione, come confermerebbe anche la sparatoria, le altre sono state parcheggiate a poca distanza l’una dall’altra; davanti ai caffè con i tavolini all’aperto, un negozio di lampadari, una tabaccheria, un salone da parrucchiere.

In pochi minuti sono arrivati poliziotti, militari, vigili del fuoco, medici, giornalisti e fotografi locali e internazionali. La versione ufficiale, finale, sarà di tre vittime e cinque feriti, anche se fra alcuni peshmerga si parla di più morti. “Perché non viene detto? Perché è meglio minimizzare l’impatto di un attentato, per scoraggiarne altri – dice uno di loro – più il danno viene enfatizzato e più si sta ammettendo implicitamente la vittoria dei terroristi”.

La strada del consolato è una delle arterie principali che collegano Ankawa con la 100 road, il terzo, concentrico e più esterno anello viario di Erbil. A poca distanza dall’esplosione c’è un hotel, il Classy, dove spesso si concentrano molti degli stranieri che arrivano in città. Ora è chiusa al traffico, e i tassisti imprecano perché sono costretti a fare un giro più lungo e dunque più lento.

Una giovane coppia viene scortata a piedi fino alla via parallela. Avranno trent’anni e sono entrambi sconvolti. Scavalcano un paio di jeans e una maglietta chiara che sembrano essere stati lasciati sull’asfalto da un fantasma, come se il corpo che li indossava fino a pochi minuti prima fosse sparito all’improvviso. La ragazza, capelli biondi raccolti, riesce soltanto a dire che ha appena visto morire una persona. Uno scoppio ed è saltata in aria davanti ai suoi occhi, a pochi metri. Il ragazzo piange e si siede sul gradino d’ingresso di una casa. Sono illesi entrambi, lui ha ancora gli occhiali, impolverati ma interi.

Nel frattempo i vigili del fuoco hanno spento l’incendio. Le carcasse delle auto vengono portare via sui carri attrezzi. Un caffè è stato completamente sventrato. La gente era fuori, seduta ai tavolini. Di fianco il salone da parrucchiere ha subito la stessa sorte. Il palazzo di fronte ha i vetri in frantumi fino all’ultimo piano. E anche quello all’angolo, più basso, non ha più finestre intatte. I locali meno danneggiati hanno comunque gli ingressi divelti, le sedie di plastica sciolte dal calore come le fioriere, vetrine in frantumi. Nel bar c’è uno scheletro di ferro semicircolare che prima era un bancone con la cassa. Di fianco le poltrone da coiffeur sono coperte di macerie, che inspiegabilmente non hanno toccato il ripiano dei prodotti per capelli, come pure una pianta in fondo alla parete, rimasta in piedi e con le foglie ancora lucide. Per terra c’è sangue fino alla porta del bagno, in fondo al locale.

Nel bar si continua scavare fino a tarda sera fra le macerie. La coppia è tornata lì, e il giovane dà una mano ai vigili del fuoco e alla polizia. Sta cercando di capire se qualcosa del loro locale si può ancora recuperare, in quel tappeto di cenere, detriti e resti umani. Trova quello che sembra un registro, o un’agenda, mentre la ragazza illumina le sue mani con il cellulare.

La mattina dopo quel 17 aprile arriva sul luogo dell’attentato il titolare dell’unico negozio che al momento dell’esplosione era chiuso. “Oggi sono vivo perché ieri non ho aperto”, continua a ripetere il proprietario della tabaccheria: le vetrate sono crollate e hanno investito metà della stanza, facendo cadere una lampada, un tavolino e alcuni prodotti esposti. Subito più indietro tutto è rimasto in ordine. La scrivania di legno, il tappeto, le stampe alle pareti, i sigari sugli scaffali. La vita intorno è già ripresa esattamente come poche ore prima dell’esplosione. Apparentemente.

8 luglio 2015: Il responsabile delle relazioni estere del Kurdistan Democratic Party, Hemen Hawrani, ha parlato a Washington durante un incontro al Middle East Institute, rispetto al processo di indipendenza della regione autonoma dall’Iraq. “Stiamo cercando un divorzio amichevole da Baghdad – ha detto – che potrebbe contribuire alla stabilità della regione”. Poi ha annunciato la volontà di tenere un referendum entro i prossimi due anni per chiamare i cittadini del kurdistan iracheno a esprimersi sull’indipendenza.

La sicurezza, oltre alla crisi economica, è uno dei nodi chiave per Erbil. L’attentato dello scorso aprile, prontamente ridimensionato nei numeri ufficiali delle vittime e dei feriti, ha messo in luce, come già era accaduto con l’esplosione del novembre 2014, la vulnerabilità della zona più sicura dell’Iraq.

L’economia, fino al 2012 in piena espansione, ha subito una pesante battuta d’arresto. Le periferie sono un cantiere a cielo aperto, ma a parte i lavori stradali tutto il resto si è fermato. Costruttori in fallimento hanno lasciato centinaia di case e grattacieli incompiuti, perché sono mancati i soldi per andare avanti. L’insicurezza dettata dalla presenza dello Stato Islamico, la sensazione che il governo centrale non stia concretamente lavorando per contenere la minaccia, l’arrivo dei profughi siriani prima e degli sfollati iracheni poi, hanno solo acuito le controversie con Baghdad. Per la gestione del petrolio, dei fondi statali. Un mese fa il presidente della Regione Masoud Barzani ha minacciato nuovamente di vendere il greggio in autonomia se l’Iraq non rispetterà gli accordi presi nel dicembre scorso, che prevedono la cessione al Kurdistan del 17% del bilancio nazionale in cambio di 550 mila barili al giorno. Una media di produzione superiore a quella reale degli ultimi mesi, a causa del crollo dei prezzi, e dei proventi che non vengono corrisposti, con tutte le conseguenze del caso sul funzionamento della macchina regionale, compresi gli stipendi dei peshmerga al fronte.

Anche Hawrani è tornato su questo tema, denunciando dagli Usa che il governo di Baghdad dice di non avere fondi per i curdi, ma in realtà paga le PMU, le milizie sciite, 800 dollari ognuna. Ha ribadito l’urgenza di far girare l’economia in maniera indipendente, quindi di poter vendere il greggio liberamente, anche per far fronte all’assistenza ai rifugiati, un milione e 400 mila persone.

Per il Kurdistan si tratta della crisi finanziaria più grave dal 1991, considerato che l’intera regione si sostiene per oltre il 90% con le entrate del petrolio. La disputa con l’Iraq era cominciata nel 2012 quando Erbil aveva avviato la costruzione di un oleodotto per il trasporto diretto in Turchia, manifestando una concreta volontà di autonomia economica, oltre che politica. Lo sviluppo negli investimenti dell’ultimo decennio, da quando l’autonomia è stata riconosciuta nell’articolo 117 della Costituzione irachena, non si è poi tradotto nel consolidamento di un impianto bancario in grado di sostenere imprese e privati con un solido sistema creditizio. E secondo il KDP, nemmeno in un ruolo realmente rappresentativo per i curdi nel governo centrale. “Rappresentanza non vuol dire reale divisione del potere”, ha dichiarato Hawrani, che ha fatto l’esempio della gestione del Ministero della Difesa, sotto l’esclusivo controllo sciita.

Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, in due anni e mezzo la popolazione del Kurdistan iracheno è già cresciuta del 28%, in conseguenza dei flussi migratori dalla Siria e dalle altre aree del paese finite sotto il controllo dello Stato Islamico. E per risollevare l’economia, questione greggio a parte, avrebbe bisogno di 1,4 miliardi di dollari.

Il 26 maggio scorso il presidente Barzani ha incontrato il rappresentante delle Nazioni Unite per l’Iraq Jan Kubis, proprio per discutere di crisi economica, sicurezza dell’area e aiuti internazionali, anche in previsione di nuovi arrivi di Idp (Internally displaced people).

D’altra parte resta aperta anche la questione degli aiuti militari ai curdi nel contrasto allo Stato Islamico: secondo International Crisis Group, ICG, l’intervento di supporto ai peshmerga da parte della coalizione internazionale a guida americana – della quale fa parte anche l’Italia con una missione di addestramento – potrebbe acuire le frammentazioni nella politica interna alla regione autonoma. Armi e supporto sono stati forniti al KRG, Governo Regionale, e di conseguenza, secondo l’analisi di ICG, a beneficiarne è stato soprattutto il KDP, il Partito Democratico del Kurdistan, maggioritario nella capitale, cosa che spingerebbe il rivale PUK, Unione Patriottica del Kurdistan, partner nel governo di unità nazionale, direttamente verso l’Iran e altri aiuti, oltre che verso un’alleanza con il PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan attivo in Turchia. In un contesto dove lo stato centrale è fallito, un terzo del paese è nelle mani del califfato, e le fratture settarie appaiono ancora più evidenti ed esasperate dalle influenze esterne, iraniane in primis.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *