L’Emirato afghano visto da Ankara.
Pericolo o opportunità?

La Turchia è stata una delle nazioni maggiormente colte di sorpresa dalla travolgente presa di Kabul, proprio mentre era impegnata nella ricerca di un accordo con gli Usa per assumere la missione di protezione e gestione dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai, una volta che le forze della coalizione internazionale avessero completato il ritiro dall’Afghanistan.

L’aeroporto internazionale di Kabul è l’unica porta di accesso a questo paese. Lo scalo è incontrollato dal 31 agosto e non può essere ancora pienamente utilizzato per alcun trasporto. Ciò rende impossibile alle compagnie aeree commerciali riprendere i voli per Kabul, aumentando ulteriormente il suo isolamento.

I talebani hanno proposto ad Ankara e a Doha di fornire assistenza tecnica per la gestione dell’aeroporto e ad oggi sono ancora in corso colloqui per giungere ad un accordo su come riaprire lo scalo in modo sicuro e senza intoppi.

 

Scelte delicate

La Turchia, a differenza di molti paesi occidentali e della Nato, ha deciso di mantenere aperta la sua ambasciata a Kabul nel tentativo di non perdere i canali di comunicazione con i nuovi governanti, ma gestire l’aeroporto senza una solida struttura di sicurezza è tutta un’altra cosa.

Il presidente Recep Tayyip Erdoğan infatti ha chiarito in questi giorni che la gestione dell’aeroporto senza un’adeguata presenza militare turca sul campo non avverrebbe in condizioni di sicurezza. Ma i talebani non desiderano nemmeno un soldato turco sul proprio territorio e avrebbero posto tre condizioni: il riconoscimento del nuovo regime di Kabul, la gestione dell’aeroporto in un consorzio con Turchia e Qatar e che Ankara non schieri alcun soldato e che impieghi solo la sicurezza privata.

Ma il leader turco è molto prudente sulla questione, non si fida perché l’operazione presenta elevati rischi. Il suo personale tecnico, se non adeguatamente protetto, potrebbe essere preso di mira da estremisti jihadisti e per questo vorrebbe impiegare le sue forze militari o la sua polizia privata come la nota SADAT, già operante in Libia e Siria.

Oltretutto la richiesta della Turchia di un governo inclusivo resta una conditio sine qua non per una cooperazione a lungo termine con i talebani.

Nel 2015 Ankara, con i suoi circa 600 militari, aveva assunto il compito di garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul nell’ambito della missione Nato e avrebbe desiderato proseguirla per proteggere i suoi interessi politici e commerciali nella regione e per questo si è mostrata disponibile a riconoscere il regime talebano, auspicando che del nuovo governo facciano parte figure vicine al presidente turco come quella di Gulbuddin Hekmatyar, ex primo ministro afghano che si era mostrato favorevole a un governo provvisorio inclusivo.

I legami di Erdoğan con Hekmatyar risalgono agli anni Ottanta, quando quest’ultimo era un leader mujaheddin che combatteva contro l’occupazione sovietica. E in questi giorni è circolata molto sui social una foto che mostra un giovanissimo Erdoğan seduto accanto a Hekmatyar.

Un altro leader vicino al presidente turco è Salahuddin Rabbani, capo del partito Jamaat-e Islami, già ministro degli Esteri dell’Afghanistan e ambasciatore in Turchia, uno dei mediatori designati per la ripresa dei colloqui di pace che si sarebbero dovuti tenere a Istanbul.

 

Carpe diem

Molti si chiedono perché l’Afghanistan sia improvvisamente diventato uno dei dossier principali nell’agenda politica della Turchia, mentre fino a pochi mesi fa vi figurava a malapena. Si chiedono perché sia desiderosa di assumere un ruolo di alto profilo nel paese centro-asiatico nonostante gli evidenti rischi che ciò comporterebbe.

Le ragioni risiedono sia nell’attuale strategia della sua politica estera sia nella necessità per il presidente turco di garantire la sua sopravvivenza politica e quella del suo partito.

Ankara in questi ultimi anni ha gravemente danneggiato i suoi legami con gli Stati Uniti e con l’Unione europea e ora sembra desiderosa di sfruttare la crisi afghana e di rivendicare un ruolo di peacemaker, di mediatore tra i talebani e le potenze globali, per dimostrarsi preziosa agli occhi dell’Occidente e rafforzare la sua legittimità internazionale, riscuotendo prestigio anche in patria dove la leadership del presidente turco è sempre più appannata con i suoi consensi che diminuiscono costantemente.

Il leader turco utilizza dunque la carta afghana per consolidare la sua posizione nei negoziati su altre questioni spinose con i suoi storici alleati. Da una parte, con gli Stati Uniti, per impedire ulteriori sanzioni per l’acquisto del sistema antimissile russo S-400 e con l’Unione europea nella disputa con Grecia e Cipro sui confini marittimi, nel dossier sui rifugiati e sul deterioramento dello stato diritto e dei diritti umani fondamentali in Turchia.

L’altra ragione è di politica interna. Il leader turco perde sempre più consensi nei sondaggi e intende assecondare i circoli ultranazionalisti e panturanici che potrebbero abbandonarlo e che all’interno della sua alleanza di governo spingono per l’adozione di una dottrina eurasista che prevede che la Turchia si riorienti allontanandosi dall’Occidente, guardando alla Russia e alla Cina e all’entroterra dell’Asia centrale e orientale dove vi sarebbero le radici storiche e culturali della turchicità.

Senza dubbio alla base degli sforzi di Ankara per rafforzare il suo ruolo in Afghanistan vi sono anche ragioni economiche, in attesa dell’avvio di grandi progetti di costruzione e infrastrutture nel paese devastato dalla guerra.

 

Bucce di banana

Ma i calcoli di Erdoğan nella sua determinazione a riempire il vuoto lasciato dagli americani, così come stanno facendo Russia e Cina, potrebbero rivelarsi fatali sia per il suo potere interno sia nella regione sia nei teatri di crisi in cui è impegnato militarmente come in Siria e in Libia.

Il rischio maggiore di un possibile abbraccio con i talebani risiede innanzitutto nel fatto che la vittoria militare e politica dei ribelli fondamentalisti in Afghanistan potrebbe risvegliare e incoraggiare le reti estremiste salafite e jihadiste nel nord della Siria, dove larga parte di quel territorio è sotto il controllo turco.

Inoltre, tra gli estremisti che i talebani hanno liberato dalle carceri afghane, via via che prendevano il controllo del paese, vi sono diversi combattenti jihadisti turchi e persone che hanno legami con Ankara.

Molto probabilmente costoro preferirebbero tornare in Turchia o dirigersi nel nord della Siria. Nonostante vi siano forti divisioni ideologiche ed etniche tra talebani ed estremisti jihadisti salafiti nella Siria settentrionale, il ritorno al potere dei fondamentalisti suscita lo spettro di una nuova autostrada jihadista che si snoderebbe tra Afghanistan, Siria, Iraq e Turchia.

Erdoğan sa dunque che vi sono molte controindicazioni nel suo intento di stringere accordi con i talebani.

Sa bene che l’Afghanistan per la Turchia evoca i ricordi di un passato ottomano che in realtà la maggioranza dei turchi ripudia, non solo nella sua componente laica, ma anche in quella religiosa.

Se si dà una occhiata ai social, si nota che non sono pochi i turchi di varia estrazione sociale e politica che affermano che i talebani hanno una concezione religiosa molto lontana da quella turca e ciò è confermato anche da numerosi sondaggi che registrano la contrarietà dei turchi ad un qualsiasi accordo con i talebani.

Inoltre nel paese vi è una diffusa intolleranza per l’immigrazione, soprattutto quella proveniente dal Medio Oriente. La Turchia ospita già circa 3 milioni e 700 mila siriani e oltre 300 mila rifugiati afghani registrati e si sostiene che con i clandestini si arriverebbe a 500 mila e questa presenza afghana è avvertita dalla popolazione in maniera trasversale come una minaccia.

La notevole perdita di consensi per il leader turco nel mese di agosto è sì dovuta prevalentemente alla cattiva gestione dell’emergenza incendi che hanno devastato vaste aeree verdi del paese, ma ha anche a che fare con la questione immigrazione, anche se al momento non vi è stata una ondata massiccia di immigrati; vi è solo una diffusa preoccupazione.

 

Buon viso a cattivo gioco

Erdoğan, comunque, vuole apparire indispensabile per la Nato, vuole mostrarsi un alleato vitale, capace di feeling building con i paesi musulmani e di svolgere dunque un efficace ruolo di mediatore nelle relazioni con i paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale. E vede nella finestra afghana una opportunità per riconquistare un ruolo centrale nei rapporti con Usa e Ue, ruolo che in questi ultimi mesi ha indubbiamente perso. Non è un caso che Erdoğan e Biden, ad oggi, si siano incontrati solo grazie all’Afghanistan, se non ci fosse stata la crisi afghana probabilmente Biden avrebbe ignorato la Turchia ancora per diversi mesi.

E lo stesso vale per la Germania. Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas è venuto in Turchia per parlare di Afghanistan, altrimenti non si sarebbe fatto vedere.

Ankara sembra ora rientrare nell’agenda delle potenze occidentali solo grazie all’Afghanistan e alla conseguente minaccia di una nuova ondata migratoria e dunque il presidente turco vuole sfruttare questa opportunità, anche se Kabul non sarebbe, di per sé, particolarmente importante per la sua strategia.

 

Quest’articolo è parte del Dossier di Reset DOC dedicato ai nuovi equilibri di potere globali dopo il ritiro americano dall’Afghanistan, a vent’anni dall’11 settembre.

 

Foto: Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu in una recente conferenza stampa sulle conseguenze della svolta a Kabul – Amman, 17 agosto 2021 (AFP).

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