La fragilità dell’individuo e l’etica del sacrificio

Mai come oggi nella situazione di quarantena che l’Italia sta vivendo per contenere l’emergenza del COVID-19, abbiamo capito l’importanza della libertà intesa come libertà di movimento. Finché non si è confinati, reclusi o immobilizzati da forze esterne, non si può comprendere fino in fondo la bellezza e l’importanza del potersi muovere. Il filosofo liberale inglese Isaiah Berlin la chiamava “libertà negativa”, nel senso di assenza di interferenza altrui, ovvero quello che Thomas Hobbes definiva assenza di impedimenti esterni al movimento (Leviatano, cap. 21). Invece oggi ci ritroviamo tutti affacciati alle finestre e ai balconi di casa, impauriti e smarriti, impossibilitati a lasciare il nostro domicilio se non per ragioni di estrema necessità (lavorativa, di salute o per l’acquisto di cibo e medicinali).

Due condizioni esemplificano la privazione di libertà di movimento nella nostra società e in questo momento particolare un pensiero di solidarietà ed empatia dovrebbe essere rivolto a loro. La condizione dei carcerati simboleggia per eccellenza la reclusione. Forse sono proprio l’angoscia e lo smarrimento di questo contesto ansiogeno ad averli spinti a quei gesti estremi di rivolta l’8 marzo in Italia. Dal provvedimento che per ragioni di precauzione sanitaria sospendeva le visite dei familiari, sono infatti sorte molte proteste in numerose prigioni che sono sfociate in episodi di violenza con le guardie penitenziarie e che hanno portato alla morte di tredici detenuti, un’evasione di massa a Foggia, incendi e distruzioni di molti siti. Scene di violenza inaudita che rivelano un clima pesante, in cui l’inquietudine e la rabbia si sommano alle già condizioni precarie di carceri in sovraffollamento. La seconda situazione è quella dei migranti e dei rifugiati che privi del diritto di mobilità internazionale a causa di un passaporto “sbagliato”, sono pronti a conquistarlo anche al prezzo della vita stessa, in una prigione libica, nel Mediterraneo, al confine greco-turco o tra Stati Uniti e Messico.

Del resto la chiusura delle frontiere dettata dal panico della pandemia oppure da pregiudizi geopolitici come quella americana riguardo tutti i voli in provenienza dall’Unione Europea rimette in discussione l’idea di una globalizzazione aperta basata sull’idea della libera circolazione delle persone. Molti Paesi europei con la sospensione di Schengen si illudono di poter fermare un virus che in realtà non conosce posti di blocco o identità nazionali. Ne consegue che numerosi cittadini si trovano a far fronte ad una situazione schizofrenica rimanendo bloccati in Paesi dove erano in transito o residenti per ragioni di studio, lavoro o turismo.

 

Vicini o nemici?

Negli eventi attuali è soprattutto emersa la dimensione biopolitica della nostra esistenza. Nelle democrazie liberali siamo cresciuti con la convinzione di essere dei soggetti dotati di diritti inalienabili, non ci siamo mai immaginati come semplici mezzi. Quando incontriamo gli ormai rari passanti nelle sporadiche uscite di prima necessità non li vediamo come persone ma come potenziali mezzi di trasporto del virus. E qui il freddo mi avvolge: mi rendo conto che abbiamo perso la nostra idea di umanità nel senso kantiano, quella secondo cui bisogna vedere ogni uomo come fine in sé e mai come un mezzo. Ridurre l’uomo da Leib, nel senso di essere senziente a Körper, corpo nel senso di carne, come avrebbe detto il filosofo tedesco Edmund Husserl. Peggio ancora, abbiamo ridotto l’idea di essere umano a semplice mezzo di trasmissione virale, eventuale portatore di pericolo.

In questa fase è il virus ad aver vinto la sua battaglia sulla nostra umanità, sulla nostra identità e sul nostro vivere insieme. Il virus ha semplicemente mostrato tutta la fragilità della nozione di individuo, pilastro della società liberale occidentale e moderna. In tale processo di “de-umanizzazione”, l’uomo non è più considerato come un individuo finito, ma come un essere fragile e vulnerabile da proteggere, oppure un substrato biologico da identificare, tracciare e controllare. Il filosofo francese Frédéric Gros denomina questa condizione con la nozione di “biosicurezza” intesa come quelle tecniche di identificazione, totale tracciabilità e controllo (The Security Principle).

 

I dilemmi dell’emergenza

Come rispondere allora al virus? Secondo il parere dei medici e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), negando la nostra socialità, stravolgendo le nostre abitudini e tradizioni, i nostri gesti quotidiani. Niente più strette di mano, abbracci, visite ai nostri amici o parenti, divieto per i nostri figli di giocare a palla con i loro amichetti. Tutto dev’essere mediato da uno schermo di protezione, nella maggior parte dei casi usiamo come surrogato di affetto gli schermi e ricostruiamo le nostre relazioni grazie a strumenti digitali.

Si pone il problema dell’implementazione delle suddette norme e raccomandazioni. Quali valori far prevalere in questa lotta affannata contro il tempo? E soprattutto quali modelli politici preferire, autoritario o democratico? Come stabilire la soglia fra cieca sottomissione a un potere dispotico e il senso di responsabilità individuale dei cittadini? Il caso cinese ha mostrato l’efficacia e l’efficienza di un modello verticale di sorveglianza biopolitica in cui l’individuo è davvero trasformato a supporto di comportamenti tracciabili, localizzabili, e prevedibili del virus, niente di più. Grazie all’utilizzo dei Big Data e dell’intelligenza artificiale il governo cinese ha potuto riconoscere, controllare e prevenire la diffusione del contagio attraverso una mappatura del virus, rilevazioni della temperatura corporea a distanza, riconoscimento facciale anche con uso di mascherine, e ha conseguentemente stabilito divieti, multe e controlli. Il potere si è materializzato nel controllo totale e totalizzante degli spostamenti, senza nessuna garanzia del rispetto della privacy, dell’uso di dati sensibili e privati appartenenti al soggetto di diritto. Se la sicurezza sanitaria dev’essere garantita e rispettata, allo stesso tempo non bisogna negoziare in alcun modo la libertà individuale. Come ricorda il sociologo francese Didier Bigo, libertà e sicurezza non sono infatti due opposti, la sicurezza dev’essere considerata come uno strumento per gioire della propria libertà, e non viceversa.

Due principi distinguono questi due modelli politici: in primo luogo la pubblicità delle informazioni e la trasparenza delle scelte di governo. L’economista e premio Nobel indiano Amartya Sen ricorda l’importanza della pubblica discussione e della pubblicità delle informazioni per prevenire e risolvere problemi di sicurezza umana come disastri ecologici o carestie (The Idea of Justice). In Cina, all’inizio dell’epidemia, proprio la mancanza di informazioni e la censura sia a livello locale che nazionale hanno comportato un ritardo forse irrimediabile nella risoluzione del problema. Secondariamente, si tratta dell’accountability dei governanti. Se i cittadini non saranno soddisfatti delle misure prese, siano esse delle scelte drastiche di confinamento o delle attese passive di laissez faire, potranno sanzionare con il voto nelle successive elezioni la condotta dei governanti. Questi sono valori fondanti delle democrazie liberali e non possono essere barattati per nessun motivo. In Italia e negli altri Paesi europei l’irrigidimento normativo deve andare quindi di pari passo con il rispetto dello stato di diritto, implementando un processo di responsabilizzazione degli individui, nell’ambito di uno sforzo etico comune.

Il confinamento che stiamo vivendo per la prima volta in Italia, e che di recente hanno adottato anche Francia, Spagna e altri Paesi europei, è un gesto di responsabilità individuale e civica, che si traduce in un forte senso di comunità. Certamente è un sacrificio difficile fatto in virtù della protezione dei più fragili e solidale con il lavoro straordinario di medici, infermieri e personale sanitario. Negando la nostra natura di animali sociali, azzerando temporaneamente i nostri contatti fisici, adottiamo un’etica del sacrificio per proteggere i più svantaggiati. Proprio perché ogni uomo, fosse anche il più anziano e fragile, è un fine in sé e non un mezzo che si può abbandonare per il bene collettivo, come ha freddamente calcolato il premier britannico Boris Johnson con la sua cinica strategia dell’immunità del gregge, dobbiamo temporaneamente adottare un’etica del sacrificio per ricostruire un senso di umanità più comprensivo e un nuovo modo di fare comunità.

 

Camilla Pagani, PhD, insegna Teoria Politica alla MGIMO University di Mosca ed è membro del Direttivo di Sciences Po Alumni 

  1. Sarei molto interessata a sapere se l autrice del contributo abbia eventualmente lavorato anche in precedenza sulla dimensione biopolitica della esistenza e più in generale sul nuovo umanesimo. e se cosi fosse dove posso rintracciare gli eventuali contributi.Mi scuso per gli errori ma ho una tastiera che scrive in tedesco…….. e non la so maneggiare bene. Grazie

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