La democrazia cristiana illiberale di Orban, nuova frontiera del populismo

Băile Tuşnad, Tusnádfürdő in ungherese, è un villaggio romeno di duemila abitanti: tutti esponenti della minoranza magiara. Si trova nella Transilvania e Fidesz, partito del primo ministro ungherese Viktor Orban, vi organizza ogni anno, a fine luglio, una “università aperta” – così viene definita – con discussioni, confronti e dibattiti su vari temi politici e culturali. Dal 2010, l’anno del ritorno al potere, Orban usa questa cornice per fare discorsi programmatici. Qui, nel 2014, parlò per la prima volta di “democrazia illiberale”, annunciando l’ennesima metamorfosi della sua carriera politica.

Nel 1989, l’anno del crollo del comunismo, Orban era un giovane liberale radicale. Poi, durante il suo primo premierato (1998-2002), indossò l’abito del democristiano. Nel 2010 rientrò a palazzo con un’agenda politica incentrata sulla lotta al Fondo monetario internazionale. Fu l’inizio dell’avventura anti-globalista e sovranista. Il resto è cosa nota: attacco frontale alla democrazia liberale, muri contro l’immigrazione e denunce quotidiane dei presunti piani con cui George Soros vorrebbe fare dell’Europa cristiana una terra culturalmente ibrida.

Nel discorso pronunciato a Tusnádfürdő quest’anno, per l’esattezza il 28 luglio, Orban ha toccato ancora questi temi, come prevedibile, spostando però ancora più in alto l’asticella della tensione ideologica. Orban ha introdotto la democrazia cristiana illiberale come modello cui tendere per superare la democrazia liberale. Per illustrare il concetto, si è soffermato inizialmente sulle caratteristiche cristiane, conservatrici ma non bigotte, della sua idea di democrazia. Così ha sostenuto:

Democrazia cristiana non significa difendere i canoni della fede – in questo caso quelli della fede cristiana. Né gli Stati né i governi hanno competenza sulle questioni relative alla dannazione o alla salvezza. La politica democratica cristiana significa che i principi della vita originati dalla cultura cristiana vanno protetti. Il nostro dovere non è difendere i canoni, ma le caratteristiche della vita, per come si sono da essi originate. Queste includono la dignità umana, la famiglia e la nazione – perché il cristianesimo non cerca di raggiungere l’universalità attraverso l’abolizione delle nazioni, ma per mezzo della conservazione delle nazioni.  

Per Orban questa democrazia cristiana «è per definizione non liberale, o se si vuole, illiberale». Per illiberale, l’uomo forte di Budapest non intende il rifiuto della rappresentatività o di altri cardini di un sistema democratico, anche se certi aspetti della sua Ungheria alimentano dubbi, è il caso dell’erosione dell’indipendenza della magistratura o della “tattica del salame” usata con la stampa: una alla volta, le testate non allineate sono state comprate da oligarchi filo-governativi e portare nell’orbita del governo. Nella mente di Orban, illiberale è prima di tutto un processo di affrancamento dai pilastri ideologici del liberalismo. Nel suo discorso ha fatto due esempi specifici:

La democrazia liberale è pro-immigrazione, mentre quella cristiana è contro. Questo è un concetto genuinamente illiberale. La democrazia liberale sostiene modelli adattabili di famiglia, mentre quella cristiana poggia sulle fondamenta del modello cristiano di famiglia. Ancora una volta, questo è un concetto illiberale.

Il discorso tenuto da Orban il 28 luglio non rappresenta solo un salto di qualità sul piano ideologico. Un tratteggiare in modo più chiaro e compiuto il cambio di paradigma che si vuole perseguire. Il primo ministro ungherese ha anche indicato il terreno dove si combatterà la battaglia cruciale tra democrazia liberale e democrazia cristiana illiberale: le elezioni europee del maggio del 2019.

Orban sembra avere le idee chiare. Per lui, la campagna per il voto di maggio dovrà essere focalizzata su un unico aspetto: l’immigrazione. Se le elezioni coincideranno con una sorta di referendum su questo tema, allora, nella logica del primo ministro magiaro, sarà anche un pro o contro l’attuale élite che comanda a Bruxelles, il cui obiettivo è evidente: attuare il piano Soros, ovvero «trasformare l’Europa portandola in un’era post-cristiana e post-nazionale».

E qui torna la tesi, brandita da Orban in modo martellante, ossessivo, secondo cui il miliardario americano, di natali ungheresi e origine ebraiche, avrebbe intenzione di importare dosi massicce di immigrati nel vecchio continente e di rottamare le frontiere per far nascere un grottesco e pericoloso meticciato. È la narrazione con cui Orban si rivolge alla sua base, traendone consenso, e al tempo stesso al plotone sovranista europeo, di cui ancora una volta vuole prendere la testa, e all’interno del quale cresce in effetti la convinzione che le elezioni del maggio 2019 sanciranno lo scontro finale tra vecchia e nuova Europa, tra tecnocrazia e cuore, tra federalismo e nazione, tra meticciati e popoli.

A questo orizzonte guardano tutti i sovranisti, non solo quelli europei. Steve Bannon, ex consigliere di Trump, è in procinto di aprire un ufficio a Bruxelles per portare acqua al mulino sovranista. Scelta apprezzata da Orban. Di recente, ospite di Radio Kossuth, ha spiegato che se da anni Soros, un americano, sostiene un’agenda liberale per l’Europa, non c’è nulla di male se un altro americano, Bannon, scende in campo per diffondere i valori dell’America conservatrice in Europa. «Gli auguro un grande successo», ha detto l’uomo forte di Budapest.

Credit: Ferenc Isza / AFP

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