Era il sette marzo 2013, di lì a pochi mesi padre Paolo Dall’Oglio sarebbe stato sequestrato dall’Isis a Raqqa, all’inizio della sua missione finalizzata a salvare alcuni sequestrati in Siria. Dando conto di una sua conferenza, tenuta il giorno precedente a Beirut, il principale giornale cristiano del Libano, L’Orient Le Jour, lo citava così: “Se i cristiani sostengono il regime (di Assad) perché hanno paura dell’islamismo lasceranno in massa il paese. È quello che è successo in Iraq, è quello che accadrà in Siria e se non si trova una soluzione è quello che si verificherà anche in Libano. I cristiani del Medio Oriente non sanno più perché Dio li abbia mandati a vivere con i musulmani. Quando uno non trova più una risposta a questo, allora uno parte, lascia il paese. La loro deve essere una risposta spirituale, non soltanto sociale o economica.”
Purtroppo, il gesuita romano, rapito il 29 luglio di quell’anno a Raqqa, era ancora una volta profetico. I cristiani in Siria erano già diminuiti prima del 2011 per la durezza della vita, sociale ed economica, riducendosi al 10% della popolazione. Ora la loro presenza ammonta al 2% del totale, nonostante la sconfitta degli insorti armati. Neanche ad Aleppo, città dalla quale sono stati deportati quasi tutti i sunniti, si parla di ritorno. E così “deportazione” è divenuta la parola-chiave per capire la nuova Siria, dal momento che più di undici milioni di persone su un totale di 22 milioni di siriani oggi sono rifugiati, in patria o all’estero. Un numero che proprio nei prossimi giorni aumenterà, visto che è cominciata l’operazione di “pulizia” di Daraa, nel sud nel Paese, e questo fa temere che presto sarà il turno di Idlib.
Ovviamente una legge, la numero dieci, varata circa due mesi fa, impone a tutti i siriani di presentarsi rapidamente con il titolo catastale per avere riconosciuta la loro proprietà. Altrimenti scatterà la confisca. Davanti a pressioni internazionali il ministro degli Muhallem, che non è competente al riguardo, ha assicurato che i tempi sarebbero stati allungati. Ma nessun atto ufficiale è stato esibito in tal senso. Ma al di là di quanti siano i giorni a disposizione per presentarsi, i rifugiati all’estero, che vivono in condizioni disperate, potranno rientrare? Loro, come altri spostatisi in altri regioni, riterranno sicuro tornare sotto Assad? Possibile che questo aspetto della tragedia, che riguarda direttamente anche milioni di aleppini, non interroghi quanti sono rimasti, compresi molti cristiani? Che tipo di narrativa offre Aleppo di questo terribile conflitto? Come si spiega che l’ultima deportazione, quella dalla regione della Ghouta, limitrofa a Damasco, abbia visto il silenzio dei vertici locali delle Chiese, stridente con le fortissime parole di Papa Francesco, silenzio rotto solo da un comunicato congiunto dei loro capi quando gli americani hanno dimostrativamente colpito luoghi di stoccaggio di materiale chimico, attacco definito da quel comunicato “ingiustificato” a differenza di quella pioggia di fuoco, per quasi tutti anche chimica, che per mesi ha colpito la Ghouta? È questo il punto che da tempo affronto con un amico aleppino, Roger Asfar. Aleppo ha avuto un significato speciale nella storia del Levante, per il valore storico della città, per il suo peso culturale e perché proprio Aleppo è stata epicentro della fuga degli armeni dopo il genocidio. La tardiva adesione di molti aleppini alla protesta conferma che quella siriana è partita come lotta di classe, nata nelle campagne impoverite dalla siccità e dai piccoli centri rurali, messi sul lastrico dal neo-liberismo familiare del regime di Bashar al-Assad. Questa politica che ha strangolato i ceti rurali è riassunta in un dato: quella dozzina di banche private, tutte partecipate da un parente stretto del presidente, Rami Makhlouf, uomo d’affari siriano più ricco del ben più noto magnate saudita Walid bin Talal. Che narrativa offre Aleppo della bancarotta politica araba? Non è questo il vero problema?
Per Roger il 2013 è stato un anno decisivo, visto che in quell’anno si è trasferito da Aleppo in Libano: ci siamo conosciuti all’inizio del 2014 e lui era ancora un novizio. Per numerose ragioni cui in seguito faremo cenno, dopo un periodo non lungo ha voluto, o forse dovuto, lasciare anche il convento e andare a vivere in un campo profughi, fin quando non ha trovato lavoro come ricercatore su società civile e diritti. Facile immaginare che non siano stati momenti facili, mesi sereni. Ma Roger ha studiato, anche le lingue, e lo ha fatto vivendo da rifugiato: con la paura, la mancanza di ogni comfort, ma c’è riuscito. Ciò nonostante la sua priorità, la sua attenzione, è rimasta sempre su Aleppo, sui suoi correligionari che in quella città hanno segnato la sua formazione e sulla capacità della sua fede, che tanto ama, di fare cultura. Segue, si tiene informato da anni, non lascia la presa, ma di tornare non se ne parla: “ho la sensazione di qualcosa di lezioso quando si parla del tema importantissimo delle origini. Contano per tutti, ma non sono sapori, melodie, odori, bensì ambienti, strade, quartieri, fatti da persone. Lì ci sono i miei genitori, certo, ma i miei amici non ci sono più: cosa tornerei a fare? Per parlare con chi? No, io non intendo tornare ad Aleppo.”
Parlando con lui della sua città e dei cristiani di lì non ho potuto che partire da quel che avevo sentito dire. I quartieri confessionali, come quello più famoso di tutti, Azizia, erano davvero tali e così un cristiano poteva vivere e morire senza aver avuto un amico musulmano, e viceversa. Alcuni amici aleppini mi hanno parlato sovente di questo e a chi conosce Beirut appare così strano. L’atto di nascita della Beirut moderna è una petizione al sultano firmata da leader religiosi e notabili di tutte le comunità per fare di Beirut una capitale provinciale nell’impero delle riforme. La guerra che già aveva contrapposto nella vicina montagna cristiani e drusi, o altrove altre comunità, sembra svanire nella storia di Beirut, e questo ha contribuito in modo decisivo a formarla come città araba, mediterranea, moderna, europeizzata. Ad Aleppo non è andata così, è evidente. La stessa guerra, gli stessi fatti di sangue interconfessionali si sono riverberati con potenza sul vivere insieme aleppino. E infatti, affrontando il discorso, Roger lo vuole contestualizzare nel passato più importante, quello che incrocia la fine del XVIII secolo e il XIX secolo, partendo quindi dalle gravi persecuzioni patite dai cristiani: “Sono state davvero tali e negarlo in nome di una ideologia del dialogo o del reciproco rispetto sarebbe da irresponsabili, o forse da suicidi, perché nulla di buono può essere costruito sulla negazione della verità fattuale, storica. Ovviamente il problema della narrazione riguarda tutti. Per il tuo lavoro sarebbe importante un sunnita aleppino che ti parli della loro narrazione, e uno sciita, o una alawita, che faccia altrettanto. Io posso parlare per me, della narrazione cristiana. Partendo dai gravissimi scontri confessionali del Monte Libano della seconda metà dell’Ottocento, in particolare quelli del 1860, la persecuzione dei cristiani ad Aleppo può essere definitiva una un’avvisaglia dell’imminente futuro. Infatti ad Aleppo il tremendo massacro del 1850 vide l’incendio di chiese, di sedi diocesane e di case di cristiani. Ma come è inammissibile negare che questa sia stata una persecuzione, è anche sbagliato vederla fuori dal contesto: quei tragici fatti non dovrebbero cancellare dalla nostra narrativa il periodo di buon governo di Ibrahim Pasha, soprattutto nei nostri confronti, come anche gli importanti episodi di solidarietà e amicizia proprio in quei tragici giorni da parte di musulmani. Nella nostra narrativa non ci sono riferimenti a nomi, gruppi, famiglie che hanno offerto difesa, aiuto, ospitalità ai perseguitati, e si può dire che quella difesa sia stata eroica, visto che di mezzo c’erano vite umane e pericoli. Se non si ricorda anche questo si arriva a quella che io chiamo una memoria selettiva, che coinvolge anche un altro episodio molto importante nella storia aleppina, la Domenica Nera del 1936: fu un trauma, anche perché la memoria del 1850 era viva nella comunità, ma successivamente si appurò che la battaglia del mercato di quella domenica fu avviata da una nostra milizia armata di ispirazione fascista, nota come Emblema Bianco. Quando quella milizia venne disciolta si appurò che aveva rapporti con diversi servizi segreti, in particolare francesi, e il mandato francese al tempo avrà fatto i suoi calcoli.”
Sono considerazioni importanti, che Roger non fa in nome di un buonismo ideologico, ma di una ricostruzione storica dei fatti che consenta di capirsi, di parlarsi e quindi di vivere insieme. Il dialogo per lui, come per molti, è tra persone in carne ed ossa, non tra capi di diverse comunità. Anche per questo Paolo Dall’Oglio ci teneva a definirlo dialogo religioso e non interreligioso. Il regime baathista invece ha sempre ritenuto che solo il dialogo tra capi dovesse essere lecito, plausibile, accettato. “Uno dei primi atti della Siria baathista, negli anni Sessanta, fu la presa del controllo di tutte le scuole cristiane. Una successiva sentenza della magistratura impose il rispetto dell’autonomia scolastica, ma il regime di Hafez al Assad bloccò tutto, sostenendo che se lo avesse fatto con i cattolici lo avrebbe dovuto fare anche nei confronti di istituzioni religiose ostili”. Così si comincia a capire perché a suo avviso i diritti riservati ai cristiani, per cui si può dire che siano sempre stati trattati bene dal regime, siano per Roger dei diritti che non dovrebbero essere negati a nessuno, e indichino che la protezione è stata il frutto del peggior trattamento riservato ai sunniti. È in questo modo che si è costruito un attrito per proteggere il regime. “Facciamo un esempio recente. Tutti sanno che tra i nostri si era venuto a temere che il regime volesse sequestrare una proprietà terriera ecclesiale. Le voci dicevano che volessero costruirci una scuola di partito. A quel punto sui social media sono apparsi due personaggi: Isidore Battikha, l’ex vescovo di Homs mandato a pregare in un convento venezuelano da Benedetto XVI, e Bassel Kas Nesrallah, consigliere cristiano del gran mufti di Damasco. Con dichiarazioni tonanti, da tantissimi lette sul web, hanno assicurato che avrebbero provveduto a intervenire presso Bashar al-Assad. I loro buoni rapporti con il palazzo hanno fatto sperare. Ma nessuno dei due ha fatto alcunché. Così due autorevoli esponenti dei nostri episcopati sono andati a parlare con Assad, quale Presidente della Repubblica e Presidente del Baath, ma lui ha risposto molto semplicemente: non posso sovvertire una decisione della magistratura, è impossibile. Il terreno però andava espropriato dallo stato, e visto che che c’era la zona boschiva ha operato il ministero dell’Agricoltura, che poi lo ha ceduto al Partito. La storia non è finita, non credo che la scuola di partito si farà, a quelli interessa altro…
Vedi, molti cristiani dicono che le nostre comunità non hanno sostenuto Assad all’inizio della rivolta, ma solo dopo, quando la rivoluzione non violenta è stata dirottata dai jihadisti. Beh, questo non è vero. La maggioranza di noi ha sostenuto Assad da subito, dall’inizio. Ricordo benissimo quando tutto cominciò. In sette, tutti col camice bianco, si recarono presso la municipalità per rivendicare libertà e diritti. Chi ha cancellato le invettive contro di loro dalla sua memoria? Li volevano morti, almeno a parole. Perché? Perché non si capisce la nostra vicenda se non si fa familiarità con il concetto di “protezione”. Solo questa parola spiega quello che è accaduto ancora recentemente. Dopo l’assassinio di un capo dei servizi di sicurezza che operava da tempo ad Aleppo molti cristiani su Facebook hanno scritto per lui frasi di altissimo apprezzamento, di elogio, di ammirazione. Eppure era un uomo terribile, e un nostro concittadino, cristiano, fuggito in Germania, lo ha scritto: quell’uomo mi ha torturato – ha scritto – e sapete che come me ha torturato altri di noi! Ma ci sono state risposte al veleno. Siamo gente feroce? No. Ovviamente c’è il grande peso di quanto sono stati capaci di fare i gruppi jihadisti, comportamenti che hanno pesato per tutti e che la nostra narrativa non dovrebbe certo relativizzare. Ma quanto avranno pesato i comportamenti dell’aviazione russa e dell’esercito siriano sugli altri? Il tessuto civile così si lacera e noi viviamo nella gloria della paura, questa è la verità. Perché nessuno torna ad Aleppo? I cristiani ad Aleppo oggi sono 6mila, o poco più, nulla rispetto agli oltre 160mia di pochi anni fa. Sarebbero il caso di dire perché.”
Roger si guarda attorno e io già penso alla nota presenza di gruppi di taglieggiatori, al servizio militare obbligatorio, alle rapine. “Ora ti parlerò di me. Ci siamo conosciuti che mi accingevo a concludere il mio noviziato e come sai non me la sono sentita di finirlo in Siria. Ho preferito venire qui in Libano perché pensavo di potermi esprimere liberamente, almeno in convento, ma un giorno mio padre venne convocato dai servizi segreti; in chiesa… Il parroco pensava di proteggerlo accettando che il colloquio si svolgesse lì da lui. Tu penserai che quel prete sia coinvolto con il regime, io invece penso che lui abbia pensato soltanto di fare il suo dovere, proteggere una famiglia cristiana. Per capire davvero devi partire da qui: come ha fatto uno dei servizi di sicurezza a contattarlo e convincerlo a chiamare mio padre per incontrarlo in chiesa e raccomandargli di dirmi di non criticare il regime se volevo bene ai miei genitori? È semplice, terribilmente semplice. Quando un vescovo si insedia alla guida di una diocesi tra le prime cose che scopre c’è la modalità di richiesta delle autorizzazioni, visto che qualsiasi lavoretto ha bisogno di essere autorizzato, come in tutto il mondo. Ma in Siria si deve procedere così: la richiesta di autorizzazione alle competenti autorità municipali è necessaria ma anche inutile, è quella ufficiosa ai servizi di sicurezza quella decisiva. O si ottiene il loro sì o tutto rimarrà bloccato nei secoli, si tratti di una ristrutturazione, di cambiamento di destinazione d’uso o di un ammodernamento. Ovvio che si arrivi in questo modo a determinare una contiguità nel nome della necessità e che si arrivi alla notorietà.
Quanto più l’interlocutore del vescovo diventerà potente nei servizi tanto più il vescovo potrà rispondere alle tante esigenze che i parrocchiani gli faranno presente, le tante suppliche che quotidianamente riceverà. È questo meccanismo che spiega perché il regime – a me lo ha confermato anche un ecclesiastico recentemente- ha segretamente deciso di sequestrare i due vescovi aleppini, scomparsi cinque anni fa: chi può crescere in ruolo e notorietà, entro certi limiti, sono i funzionari dei servizi, i mediatori che facilitano lo stabilirsi della relazione, non i vescovi. E Johanna Ibrahim, uno dei due vescovi sequestrati, era diventato troppo autorevole, aveva buoni rapporti in patria e fuori, era ormai un nome autorevole, quindi temibile. Proprio questo ci dice che non bisogna essere manichei: nessun mondo è fatto solo da grandi personalità, come Johanna Ibrahim e quindi ci sarà chi si lascia compromettere dal regime per debolezza e chi invece cercherà di compromettere il regime con i bisogni della popolazione, ci sarà chi subisce in silenzio per offrire aiuti e chi lo farà per altri motivi. Quello che è grave è il contesto. Confessionalismo, tribalismo e stile mafioso non hanno idea di cosa voglia dire “cittadinanza”, mentre sanno benissimo cosa significhi “protezione”. La riprova ce l’hai con il fatto che quando io ho detto a mio padre che non potevo scendere a compromessi con l’esigenza di dire la verità, la mia verità, pochi giorni dopo lui è stato convocato nuovamente, ma nella sede dei servizi. Ma cosa dicevo? Facevo del male a qualcuno definendo non etico difendere un regime come questo? Io so che un commerciante, dopo la fine della tragica battaglia di Aleppo, ha esposto un enorme striscione in piazza: sopra le fotografie di Khamenei, Putin, Assad e Nasrallah (il leader di Hezbollah, ndr) c’era scritto “grazie ai liberatori”. Ma veniamo a un esempio ancora peggiore, che ci riguarda tutti, anche voi occidentali: chi solleva il problema dei figli dell’Isis? Sono bambini che hanno pochi anni di vita. Gran parte di loro sono orfani, ma nessuno al mondo li vuole. Non il paese da cui venivano i jihadisti o le loro donne, non la Siria, non l’Iraq. Dove sono, cosa fanno? Chi diventeranno?”
Da quando la guerra ad Aleppo è finita nelle strade delle città si aggirano quelli che tanti ormai chiamano “i bambini randagi”, contati solo in città sono circa 6mila e ritenuti dalla popolazione pericolosi perché figli di terroristi. Colpa loro? Ma intanto il loro destino, come quello di altri in altre città, si unisce a quello dei bambini messi al mondo dai terroristi dell’Isis. Solo questi ultimi, tra Siria e Iraq, sarebbero più di 3mila. Esistono? Certamente nessuno li ha registrati. E per loro nessuna porta del mondo si aprirà. Quale sarà il loro destino?
Roger Asfar non è soltanto un cristiano, è anche un cristiano coraggioso, soprattutto per amore della sua Chiesa, nella quale sono certo che vorrebbe un giorno tornare a vivere la sua vocazione. “Voglio dire che noi dobbiamo parlare con onestà e trasparenza. Io ho scritto a tutti quelli cui dovevo scrivere denunciando che sono stato molestato in convento. I tentativi sono sempre molestie. Purtroppo è finita che nessuno mi ha risposto.” Spero proprio che Roger Asfar un giorno possa tornare alla sua vocazione. Lo spero davvero. I siriani sul tema della narrazione e dei criteri indispensabili per il vivere insieme hanno bisogno di nuove priorità. E conoscendo lui ho pensato che sarebbero in tanti a potercela fare. Se gli verrà consentito.
Credit: Delil souleiman / AFP