Afghanistan, le sfide del 2014. Una ricerca dà voce alla società civile

Da Reset-Dialogues on Civilizations

“La realtà afghana è complicata. Qui è come se si giocasse una partita a scacchi dalle regole particolari. Negli scacchi un giocatore muove i pezzi bianchi e uno muove i neri. Qui invece lo stesso li muove entrambi. Non siamo che piccoli attori in un gioco politico internazionale molto grande. È come se fossimo parte di una formula matematica di cui nessuno conosce più il significato e la soluzione, per questo è difficile fermare il gioco che è in corso”.

Il pensiero di Khalilullah Hekmati, direttore del Bao, Better Afghanistan Organization di Mazar-e-Sharif, delinea passato e presente, e timori per il futuro, di un paese strategico a livello internazionale e tremendamente fragile sul piano interno.

La sua analisi è una delle 120 raccolte nella ricerca di Giuliano BattistonAspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione”, realizzata nelle sette province del paese in collaborazione con Arcs, Arci Cultura e Sviluppo e Afghana, network della società civile italiana costituito da Ong e associazioni per i diritti umani, sindacati e singoli cittadini. L’obiettivo del lavoro, che fa seguito al rapporto “La società civile afghana: uno sguardo dall’interno”, è stato quello di raccogliere opinioni e percezioni sulle cause del conflitto, la compatibilità fra le richieste di pace e giustizia per i crimini del passato e le aspettative sulla transizione che nel 2014 dovrebbe giungere a completamento.

La ricerca sul campo è stata realizzata tra Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar in quasi cinque mesi, con interviste strutturate nelle quali sono stati considerati gli ultimi dodici anni come periodo di riferimento. A partire dalla fine del regime talebano e dall’avvio dell’intervento militare internazionale fino ad oggi, con la prospettiva sempre più vicina di un cambiamento dai risvolti incerti.

Il nuovo anno rappresenta per l’Afghanistan e i paesi Nato impegnati nell’area il compimento di una fase annunciata nel 2010 durante la Conferenza di Lisbona: il progressivo ritiro delle forze straniere e il conseguente passaggio di consegne nelle mani di quelle afghane. Si tratta di un processo che va ben oltre l’aspetto militare e della sicurezza in senso stretto, poiché interessa tutti i settori della gestione pubblica, dalle amministrazioni alla politica.

Non a caso lo studio è stato organizzato per aree tematiche, con domande specifiche sui fattori che secondo gli intervistati alimentano il conflitto e la mobilitazione antigovernativa, sul percorso di pace e sul ruolo della giustizia nell’eredità dei conflitti del passato, e sulle prospettive post 2014.

In tutte le province prese in esame è forte la convinzione che la situazione attuale dipenda da fattori interni ed esterni: una fragilità sostanziale dell’Afghanistan piegato da decenni di guerra e una serie di responsabilità ed interessi internazionali che sul territorio del paese combattono battaglie ben più ampie. In particolare il Pakistan e l’Iran sono accusati di sostenere finanziariamente e militarmente le opposizioni al governo ufficiale allo scopo di creare instabilità. Una parte degli intervistati sospetta anche degli Stati Uniti e di tutti i paesi coinvolti militarmente, perché teme che il vero obiettivo sia quello di esercitare un’egemonia politico-militare nell’area e non di stabilizzare il paese. Tesi avvalorata dal fatto che l’intervento militare abbia dimostrato, nella percezione della società civile, una parziale inefficacia.

Per quanto riguarda il processo di pace prevale l’idea che si debba seguire la via del dialogo politico e della riconciliazione nazionale. Il problema principale messo in evidenza è la scarsa trasparenza di un processo di pace avviato dal governo e dalla comunità internazionale che rimane sconosciuto ai più. Le aspettative sulla possibilità di trovare un accordo con i talebani e gli altri gruppi antigovernativi sono basse, anche perché è opinione comune che manchi un interlocutore al di sopra delle parti. Lo stesso organismo istituito da Karzai nel 2010, l’Alto Consiglio di Pace per favorire il dialogo, è considerato del tutto inadatto. Vi è la percezione diffusa non solo dell’inaffidabilità dei talebani, ma anche degli ostacoli che i paesi confinanti pongono alle trattative negoziali. I rappresentanti della società civile coinvolti nella ricerca non escludono in futuro l’ipotesi di un governo di ampia coalizione, anche con i gruppi antigovernativi attuali, nella speranza di porre fine al conflitto. Sui talebani in particolare, si tende a distinguere fra afghani e stranieri, con la convinzione che a questi ultimi dovrebbe essere negato qualsiasi ruolo politico.

Ma il vero problema è che anche l’attuale governo “legittimo” gode si una scarsa autorevolezza perché considerato eterodiretto. In un panorama di questo tipo diventa difficile pensare agli errori e ai crimini del passato che ancora non sono stati sanati e giudicati. Dunque una delle preoccupazioni per il post transizione è proprio la creazione di un sistema giudiziario. Tanta gente che in passato ha commesso crimini anche gravi oggi ricopre incarichi di potere così forti da non poter essere giudicato. Il governo è troppo debole, e la giustizia è subordinata alla politica. Eppure secondo gli intervistati, con la caduta del regime talebano, si sarebbe potuto avviare un percorso di transitional justice per accertare responsabilità penali e morali del passato. Ma la ricerca di una stabilità “veloce” da parte della comunità internazionale ne avrebbe impedito l’avviamento. Una parte minoritaria degli intervistati ritiene invece che la soluzione per chiudere simbolicamente con il passato potrebbe essere l’amnistia, mentre la maggioranza giudica sbagliata la scelta del governo di prolungarla, perché si contraddice la richiesta di accertamento dei fatti e si priva la popolazione del diritto alla verità. Qualcuno ha avanzato anche l’idea di un referendum popolare che possa raccogliere le diverse opinioni in merito.

Il sentimento che prevale per il futuro è l’incertezza assoluta. Il trasferimento di sovranità alle forze afghane è percepito come complicato e rischioso, e nessuno si aspetta grossi stravolgimenti rispetto alla situazione attuale in cui gli attori internazionali sembrano interferire nelle questioni interne.

D’altro canto però c’è anche il timore che un “abbandono” delle forze Nato potrebbe far piombare il paese in una crisi ancora peggiore. L’auspicio è che il completamento della transizione porti a un impegno diverso, che tenga più conto delle esigenze della popolazione locale e si attivi per una stabilità di lungo periodo, senza continuare ad attribuire priorità alla sicurezza militare a scapito di quella umana.

Secondo un’altra interpretazione che emerge da alcune interviste, in questi dodici anni i signori della guerra avrebbero ottenuto potere politico e maturato nuovi interessi economici, e non vorrebbero assistere ad un nuovo conflitto che potrebbe variare gli equilibri attuali.

Tutti poi concordano sulla pericolosità dell’“elemento esterno” e sulla centralità delle elezioni presidenziali del 2014. Vi è il timore che il disimpegno internazionale possa favorire un’ulteriore interferenza dei paesi vicini. Dalle risposte emerge anche la consapevolezza che le forze afghane non siano ancora in grado di assumere il pieno controllo della sicurezza, senza contare il fatto che mettere un punto alla missione Isaf significherebbe mettere fine ad un indotto che potrebbe far precipitare il paese in una crisi economica peggiore di quella attuale.

Gli intervistati temono anche le negoziazioni tra l’amministrazione Obama e il governo Karzai sull’accordo bilaterale di sicurezza e sull’eventuale presenza di basi militari americane sul suolo afghano, possano diventare ulteriore fonte di instabilità più che di protezione.

In tutte le province, Farah in particolare, si percepisce una sfiducia generale nei confronti dei paesi stranieri, che potrebbero avere interesse a mantenere una situazione di instabilità per continuare a consolidare la propria presenza in Asia Centrale: da ciò sarebbe derivato finora, e potrebbe essere così anche in futuro, un atteggiamento ambivalente volto a sostenere il governo afghano e parallelamente foraggiare alcuni gruppi antigovernativi. Gli Usa in particolare, avrebbero tutto l’interesse a presidiare l’area per tenere a bada la Cina, e di conseguenza la Russia, oltre a monitorare il Pakistan e l’Iran da “vicino”. Proprio questi ultimi sono ritenuti i maggiori responsabili del conflitto attuale, e vengono accusati anche di aver addestrato i gruppi ribelli. La comunità internazionale, in questo gioco geopolitico, avrebbe chiuso gli occhi senza riconoscere le responsabilità, in particolare pakistane, nella formazione di cellule terroristiche, favorendo la diffusione di una concezione di Islam radicale e fondamentalista, totalmente estranea all’idea di Afghanistan tollerante e aperta.

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Foto: una strada di Kandahar (cc, di wil)

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