«La musica ha bisogno di competenze, la società di artisti impegnati»

Intervista a Paolo Petrocelli nel giorno della mobilitazione #senzamusica

21 Giugno 1982

Chissà cosa avrà pensato Jack Lang, Ministro della Cultura dell’epoca in Francia, quando invitava per la prima volta tutti i musicisti, professionisti ed amatori del suo Paese a suonare per le strade delle città.

Chissà cosa direbbe oggi, 38 anni dopo, in un momento storico in cui la festa della musica è diventata una consolidata festa europea, che dal 1995 ha dato luce ad una associazione dedicata partendo da città come Atene, Barcellona, Berlino, Budapest, Bruxelles, Lisbona, Liverpool, Losanna, Madrid, Milano, Napoli, Parigi, Praga, Roma, Senigallia e Lanuvio e poi diffusasi a macchia d’olio.

E cosa direbbe soprattutto di una festa #senzamusica? Perché in Italia, oggi, 21 Giugno 2020, celebrare la musica e l’inizio dell’estate non sarà la stessa cosa: da un lato per le problematiche di sicurezza e salute legate al Covid, dall’altro perché la comunità di artisti e addetti ai lavori del settore musica ha lanciato una campagna nazionale di sensibilizzazione rivolta alle istituzioni ed in particolare al Governo per chiedere di fare di più per gli addetti ai lavori, che non sono stati tutelati come altre categorie protette di lavoratori durante la quarantena e che oggi non sanno se il famoso decreto di rilancio o gli Stati Generali dell’economia li porteranno ad essere più felici o più tristi, con il rischio di passare completamente ignorati visto la miriade di temi che il Governo è chiamato ad affrontare in un momento difficile e straordinario come questo.

Eppure è indispensabile portare la discussione su un piano più alto, che non si fermi alla polemica ma ci aiuti a capire, a grandi linee, quali sono i problemi strutturali di un settore che, come molti altri, ha visto in questa Pandemia l’acuirsi di fragilità che nulla hanno a che fare con l’emergenza e tanto hanno a che fare con la competenza e la visione.

Per questo abbiamo chiesto qualche considerazione a Paolo Petrocelli, prolifico manager culturale e musicista, oggi anche Coordinatore per l’Italia di Sound Diplomacy (http://www.sounddiplomacy.com), che da anni è impegnato in prima persona non solo a migliorare il sistema ma ad esportare l’eccellenza italiana nel mondo. Questo è il frutto della nostra chiacchierata.

Buona lettura e buon approfondimento.

Oggi 21 giugno è il giorno #senzamusica, quello della protesta di artisti e lavoratori del settore contro l’amnesia della musica – dell’arte più in generale – da parte della politica. Da “insider”, in primis, l’arte e la musica sono state davvero trascurate nella ridda di provvedimenti presi e in arrivo?

Innanzitutto va detto che nessuno poteva essere preparato per affrontare una sfida di questo tipo. Mi sembra fuori luogo questa diatriba continua tra istituzioni e professionisti della musica: il tema è preparare il terreno ad affrontare queste situazioni, che sono al di fuori del normale, ma anche tante altre situazioni di emergenza che il sistema culturale e il sistema musicale italiano affrontano da anni; prepararle con un approccio professionale. Ora non possiamo pretendere che un ministero, un Comune o una regione abbiano le competenze e l’expertise per affrontare una sfida così complessa e farlo in un periodo strettissimo. Ciò che dimostra questa situazione è che abbiamo bisogno di innestare all’interno delle istituzioni più competenze e professionalità specializzate, che attualmente mancano. In frangenti come questo vengono consultate in maniera molto rapida ed estemporanea un gran numero di professionisti e associazioni di categoria, che chiaramente scaraventano sulle istituzioni una quantità di idee più disparate che si fa molta fatica a tradurre in decreti legge operativi e in impatto positivo. Credo che si debba assolutamente sgombrare il terreno dalle polemiche ed una volta per tutte cercare – da una parte il sistema culturale-musicale italiano, dall’altra le istituzioni – di organizzarsi in maniera sinergica: non c’è un “noi” e un “loro”, stiamo tutti dalla stessa parte della barricata. Adesso siamo di fronte all’emergenza delle emergenze, dove salgono a galla tutte le fragilità del nostro sistema e il fatto è che non siamo preparati non al Covid bensì a proiettare nel futuro il sistema culturale del nostro Paese.

Se è così, però, non è anche per via di un certo deficit di consapevolezza dell’opinione pubblica e quindi poi della politica che le risponde del valore sociale ma anche economico del settore?

Assolutamente sì, e non prenderne atto è dimostrazione sicuramente di poca lungimiranza. Credo che ormai in Italia tutti diano per assodato, tranne i pochi che è superfluo menzionare, che l’industria culturale e l’industria musicale rappresentano un driver economico incredibile. Il tema non è quello di riconoscere la potenza economica del settore culturale e musicale. Il tema è di avere la capacità di renderlo scalabile da qui ai prossimi anni. Andare al di là della celebrazione del nostro patrimonio culturale, in altre parole, per chiederci: come da qui ai prossimi 20/30 anni questo patrimonio si può rinnovare e rigenerare proiettandosi nel futuro? Come possiamo rendere più attuale e contemporaneo tutto il nostro straordinario patrimonio culturale, che non deve essere solo uno straordinario insieme di cose belle da salvaguardare e da proteggere? Dobbiamo renderlo vivo, vibrante e significativo. Ovviamente la musica è quella che più di tutte, tra le arti, riesce a stimolare i cittadini, le persone. Lo abbiamo visto anche durante questa Pandemia: un modo per dire siamo vivi era quella di aprire il bancone, imbracciare una chitarra e fare musica. Detto questo credo che bisognerebbe cercare di abbattere le barriere tra le diverse categorie del sistema musicale. Ad esempio c’è una dimensione molto chiusa del mondo degli artisti, che fanno fatica a comunicare ed esporsi a livello sociale; c’è sempre più timore di prendere posizione, di prendere parte, l’artista quasi si pone in questa dimensione intermedia in cui “chiamatemi quando va tutto bene, io faccio musica”, non funziona proprio così.

L’engagement (all’inglese) ha sostituito l’engagement (alla francese), verrebbe da dire.

Prima l’artista era protagonista non solo sul palcoscenico, era anche protagonista nella società, nella sua comunità di riferimento, perché sapeva che il suo compito non finiva quando finiva una canzone o un brano musicale, aveva un ruolo importante nella società. Ora con tutto questo disorientamento, anche politico, gli artisti fanno fatica a sostenere delle idee, dei valori, lottare per delle buone cause, perché non si orientano più come prima nel contesto politico. Ma c’è anche una Politica con la P maiuscola che dovrebbe essere sostenuta e promossa dalla comunità artistica. Questo deve avvenire anche attraverso nuove modalità di collaborazione tra sistema musica e istituzioni, a tutti i livelli, da quello locale a quello nazionale. Ad esempio in Europa e in molte città dell’America esistono dei veri e propri uffici musica all’interno delle municipalità, delle regioni che servono proprio a fare questo lavoro di mediazione tra il comparto e le istituzioni, perché bisogna lavorare a tanti livelli e a tante sfide. E invece avverto l’incapacità al momento degli artisti, di gran parte degli artisti, di giocare un ruolo positivo nel facilitare questa comunicazione tra professionisti della musica e istituzioni. L’atteggiamento che vedo anche di grandi artisti che muovono grandi interessi economici è un atteggiamento estremamente polemico, e non in forma costruttiva.

A livello pratico, stanti le limitazioni legate alla situazione sanitaria, quali soluzioni si potrebbero immaginare per tornare ad usufruire di questo “servizio per la collettività” a partire dall’estate?

Io sono uno di quelli che pensa che non bisogna forzare. Ancora una volta credo che questi mesi estivi debbano essere anche di stimolo per esplorare, sperimentare nuove formule, che però devono essere nuove formule autentiche. È ovvio che l’esperienza musicale è strettamente connessa al concetto di spettacolo dal vivo, e creare e sperimentare nuove formule di spettacolo dal vivo in tempi strettissimi è una sfida per tutti. Ma usciamo dall’idea che dobbiamo per forza fare un concerto. Si fa un concerto se ha senso fare un concerto, se c’è un pubblico che vuole seguire quel concerto, se c’è un artista che ha qualcosa da dire. Se no rischiamo di ridurre un’operazione culturale ad un semplice atto dimostrativo di capacità di fare qualcosa che solitamente viene fatto in un altro modo. È chiaro che c’è l’esigenza di un’intera categoria di dire “ci siamo, dobbiamo essere tutelati, dobbiamo essere messi in condizione di svolgere la nostra attività, che è un’attività professionale a tutto tondo”. Però auspicherei che la comunità artistica italiana si scrollasse di dosso questo senso di essere delle “vittime del sistema”, che deve essere sempre accompagnato per mano, che deve ricevere sempre finanziamenti. Tutto vero, ma in parte. Ci deve essere anche una capacità della comunità artistica italiana di organizzarsi, di portare avanti delle battaglie civili, costruttive, di senso e di buon senso, che mettano nelle condizioni le istituzioni di comprendere meglio le richieste del settore cultura.

Per quanto riguarda nello specifico l’estate ci sono tantissime organizzazioni che si stanno organizzando e credo che ne vedremo delle belle, perché il nostro è un sistema fatto di molti professionisti creativi che hanno la capacità di inventare nuove modalità, nuove forme di comunicazione e di linguaggio. E spero sarà anche l’opportunità per dare il giusto spazio a professionisti giovani che hanno forse una migliore comprensione delle grandi sfide che ci attendono, perché sono inevitabilmente più immersi nel presente e più proiettati al futuro. Sin qui non si è fatto un lavoro adeguato di preparazione di veri manager della musica e della cultura. E non è un caso che la stragrande maggioranza dei teatri, delle orchestre, dei festival, delle case discografiche siano diretti da over 50 o over 60: nulla contro quella generazione, naturalmente, ma capiamo bene che c’è un problema.

Vuoi dire insomma che questa crisi farà da “selezionatore”, nel senso che molte piccole realtà purtroppo non ce la faranno, ma perché allo stesso tempo sarà uno stimolo a rinnovarsi e a porsi in maniera diversa nella società?

Assolutamente sì. Io credo che in primis noi professionisti della musica e della cultura dobbiamo ammettere che c’è un’intera comunità di appassionati, di musicisti, artisti che certamente contribuiscono alla vita culturale del nostro Paese ma lo fanno in una modalità semi-professionale. Di questo bisogna prenderne atto. Questo non significa che non hanno diritto di fare musica, di fare concerti, di fare progetti. Ma certamente non possono essere sostenuti e supportati ad oltranza per qualsiasi tipo di iniziativa che fanno, per il semplice fatto che non possiamo permetterci di sostenere tutto e tutti. Non funziona dal punto di vista organizzativo, economico, purtroppo, e non funziona neanche dal punto di vista di pubblico, non c’è così tanta richiesta. Per cui bisogna cercare di riorganizzare meglio le cose: indirizzare tanti semi professionisti e appassionati a poter sviluppare le loro iniziative in una dinamica diversa, più locale, che possa contribuire alla vita culturale di un quartiere, di un municipio, di un piccolo borgo. E sul livello di chi fa musica professionale, e quindi con un livello di eccellenza alto, certamente dobbiamo cominciare ad innovare. Come si è innovato nel mondo delle aziende, del privato, anche il sistema culturale si deve porre delle sfide di innovare a tutti i livelli. Innovare a tutti i livelli significa uscire quindi dal semplice paradigma “io faccio musica, io creo bellezza, punto”. Se  invece vogliamo che la nostra professionalità artistica venga riconosciuta nel mondo reale, dobbiamo affrontare con grande convinzione e grande serietà tutta una serie di temi: lo sviluppo del pubblico, i finanziamenti pubblico-privati, il tema dell’innovazione tecnologica, la capacità di offrire un’offerta culturale di altissimo livello, perché ormai abbiamo una competizione incredibile – online e offline c’è di tutto e di più – per cui quello che andiamo a presentare deve essere oggettivamente un’offerta culturale di altissimo valore. Io penso che l’Italia sia uno dei Paesi che abbiano più possibilità di rilanciare al meglio e di giocare sempre di più un ruolo internazionale in questo ulteriore rinascimento culturale, che però deve essere fondato su elementi di concretezza, di serietà, di professionalità, che vanno al di là della politica.

Il 21 Giugno è una festa della musica principalmente europea, visto che è nata in Francia e poi si è diffusa in tutta Europa. Credi che l’Italia debba diventare un po’ più europea anche nel fare musica?

Senz’altro, uno dei temi è porsi delle sfide non più in un’ottica locale, nazionale ma quanto meno in un’ottica europea, proprio nel tentativo di raggiungere un meccanismo di risoluzione dei problemi che sia professionale, perché c’è purtroppo grande confusione nel mischiare e diluire le realtà semi-professionale e amatoriali con quelli professionali ai massimi livelli. Altri Paesi europei ci insegnano che più tu ti specializzi e diventi un professionista competente del management o della produzione e più sarai in grado di strutturare un approccio più industriale alla musica: il che non significa ovviamente perdere l’approccio più autentico e artistico, quello è nel DNA, ma completarlo con expertise e competenze che in Italia, e lo dico con rammarico, sono scarsissime. Paradossalmente c’è stata in questi ultimi anni una proliferazione di master di management musicale, culturale e simili, che in teoria hanno posto le basi per una carriera nel settore a centinaia di giovani: che però, ahimè, non riescono assolutamente a trovare un inserimento nelle istituzioni culturali. Questo perché c’è uno scollamento tra il mondo accademico e quello delle istituzioni e organizzazioni culturali. Mi auguro che, anche vista questa nuova emergenza, sia chiaro che abbiamo assoluto bisogno di persone competenti e non improvvisate. Vale per i politici e vale per i musicisti, i manager e i tecnici.

Per concludere, uno tra i tanti artisti che hanno aderito alla campagna, il musicista torinese Davide Di Leo (Boosta dei Subsonica), che conosci bene, questa settimana ha fatto un concerto a sostegno della campagna #senzamusica e sul suo profilo social ha pubblicato il seguente post: “Noi siamo una goccia nel mare. Eppure. Di fronte ad una classe dirigente così inadeguata, ci sono rimasti i cartelli scritti a penna. È mortificante dover richiamare l’attenzione in questo modo. Lo è per noi, come lo è per tutti quelli che credono al valore della cultura e delle arti come ultima, scricchiolante scala mobile sociale #senzamusica #iolavoroconlamusica“. Che cosa gli risponderesti?

Davide è un artista poliedrico ed una persona che si impegna molto, non solo nel suo lavoro ma anche a dialogare con le istituzioni e con i giovani, con la capacità non solo di ascoltare ma anche di esporsi, e questo è quello che forse dovrebbero fare molti più artisti. Non solo però quando si lancia una campagna significativa, ma in maniera più continuativa: avere la capacità e il tempo e le energie per ascoltare, farsi un’idea delle sfide che affrontano sia le istituzioni che i politici. È chiaro: molte istituzioni non si fanno affiancare, e c’è un problema di incompetenza nei palazzi. Dato per scontato che dobbiamo interloquire con chi c’è, però, io mi impegnerei a cercare di consigliarli, stimolarli e seguirli. Questo Davide e tanti artisti italiani cercano di farlo. Queste campagne che si stanno lanciando sono fondamentali e importanti; io però al di là della campagna cercherei di innescare un meccanismo di condivisione e partecipazione, e al di là di metterci la faccia su Instagram rivendicando “sono un musicista e ho il diritto a fare la musica”, dire: “ragazzi, stiamo lavorando su 1,2,3 proposte, cosa ne pensate?”

Molti musicisti e lavoratori dello spettacolo e della musica hanno accolto la sfida ed ecco quindi per tutti gli interessati e le interessate un po’ di proposte su cui ragionare, confrontarsi ed iniziare un lavoro che non è solo propedeutico a tamponare una situazione di emergenza bensì ad affrontare problemi strutturali per i quali l’orizzonte elettorale della classe politica non ci deve ingannare. Qui si tratta di avere una visione del futuro e questa visione è tutta da creare e richiede la partecipazione attiva di tutti gli interessati, lasciando magari questa domenica di inizio estate alla musica e prendendosi tutti gli altri giorni dell’anno per migliorare un sistema, che può migliorare ognuno di noi, come individui e come parte di una comunità.

https://www.lamusicachegira.it/documento-programmatico-la-musica-che-gira/

Buona lettura e buona festa della musica a tutti noi.

  

Luigi Cavallito è un musicista, cantante e manager torinese, che vive a Beirut e collabora con diverse realtà pubbliche e private nella definizione di politiche culturali e giovanili. Fondatore dell’associazione culturale Alivefestival e del progetto artistico Stereoteller, è membro della Young Ambassadors Society e della comunità dei Global Shapers del World Economic Forum.

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