La sospensione dei fondi Ue può riavvicinare Polonia e Ungheria?

L’Europa alza il tiro nei confronti dell’Ungheria di Viktor Orbán, nel tentativo di riportarla entro i ranghi dello stato di diritto. A distanza di pochi giorni, due iniziative di stampo diverso tra loro tracciano la strada che Bruxelles intende perseguire da qui ai prossimi mesi.

La prima ha il sapore della presa di coscienza di qualcosa che da tempo si sapeva ma non si aveva il coraggio di dire: l’Ungheria non è più una democrazia.

Lo afferma il testo di un rapporto presentato dall’eurodeputata dei Verdi Gwendoline Delbos-Corfield, e fatto proprio dal Parlamento europeo ad amplissima maggioranza: 433 voti a favore, 123 contrari, 28 astenuti. Il documento identifica il Paese magiaro come un’autocrazia elettorale e lo ritiene una minaccia sistemica per i valori fondanti dell’Unione europea. A pesare sull’analisi, i problemi legati alla corruzione, al mancato rispetto dei diritti civili nei confronti delle minoranze, allo stato della giustizia e della libertà di espressione, nonché al sistema elettorale. A finire nel mirino è dunque l’intero sistema Orbán, e l’immagine di un Paese plasmato a sua immagine e somiglianza. D’altra parte era stato lui stesso a dichiarare nel 2014 l’intenzione di costruire uno “Stato illiberale”.

Il rapporto Delbos-Corfield evidenzia come le tendenze autocratiche ungheresi siano peggiorate dopo l’attivazione dell’articolo 7 dei trattati europei e a tal proposito deplora l’incapacità del Consiglio di compiere dei progressi sulla procedura, arenatasi dopo il veto posto dalla Polonia.

La relazione esprime inoltre precise richieste alla Commissione. In primis chiede di congelare l’approvazione del PNRR ungherese finché Budapest non si sarà conformata alle raccomandazioni del semestre europeo e alle sentenze formulate dalla Corte di Giustizia Ue e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Richiede poi di escludere dal finanziamento europeo i programmi di coesione che contribuiscono all’uso improprio dei fondi comunitari o alla violazione dello stato di diritto. Esige inoltre l’applicazione rigorosa del regolamento sulle disposizioni comuni e sul regolamento finanziario.

 

Rabbia ungherese

Pur non trattandosi di un testo legislativo, i toni oltre che i concetti espressi dalla relazione sono stati di grande impatto e sembrano aver colpito nel segno. Un duro comunicato di Fidesz afferma che “è imperdonabile che mentre le persone stanno soffrendo gli effetti dovuti dell’inflazione causata dalla guerra e dal fallimento delle sanzioni, il Parlamento europeo attacchi ancora una volta l’Ungheria”. Secondo il partito di Orbán si tratterebbe di una punizione per aver vinto le elezioni di aprile e per essersi opposti a molte politiche europee. Fidesz se la prende in particolare con l’ala sinistra del Parlamento e con l’opposizione interna, rappresentata da Klára Dobrev, leader di Coalizione democratica e moglie dell’ex premier socialista Ferenc Gyurcsány, accusata di lavorare contro l’Ungheria.

Apparentemente più controllata la reazione di Orbán stesso, che da Belgrado, dove è stato insignito del Gran collare dell’ordine della repubblica di Serbia, ha commentato sprezzante: “È la seconda o terza volta che il Parlamento europeo adotta decisioni di condanna nei confronti dell’Ungheria. All’inizio pensavamo che avesse un significato, ma ora guardiamo a ciò come uno scherzo”.

 

Stop ai fondi di coesione

Ma che la Commissione europea abbia poca voglia di scherzare è apparso chiaro domenica mattina, quando il Commissario per la programmazione finanziaria e il bilancio Johannes Hahn ha espressamente richiesto al Consiglio europeo di sospendere un terzo dei fondi di coesione previsti per l’Ungheria nel bilancio 2021 – 2027, se Budapest non si adeguerà alle richieste sullo stato diritto. In totale ballano circa 7,5 miliardi di euro, che si aggiungerebbero ai 7,2 miliardi di euro già bloccati dal Recovery Fund. Il messaggio lanciato da Hahn è da leggersi nel quadro dei passaggi previsti dal meccanismo di condizionalità, ed è probabilmente l’ultima chiamata per Budapest.

La Commissione europea ha lasciato aperta una finestra di due mesi, fino al 19 novembre, prima di tornare a valutare la situazione. Un arco di tempo in cui il Parlamento ungherese è chiamato a mettere in atto tutta una serie di correttivi riguardanti il sistema di trasparenza degli appalti pubblici, la lotta alla corruzione e l’indipendenza della magistratura. Il Consiglio europeo dovrà quindi esprimersi e decidere, con una decisione a maggioranza qualificata, se procedere con la richiesta di congelamento dei fondi.

In questo caso la reazione ungherese è stata assai più conciliante. Gergely Gulyás, capo di gabinetto del primo ministro, ha affermato come l’Ungheria abbia intenzione di chiudere tutte le vertenze aperte con Bruxelles entro novembre, mentre il ministro per lo Sviluppo regionale Tibor Navracsics, ha sottolineato come l’Ungheria non abbia nessuna intenzione di non rispettare gli accordi con Bruxelles. Budapest ha promosso 17 riforme, il cui iter legislativo è iniziato questa settimana. Da parte ungherese si ostenta ottimismo, ma l’impressione è che la strada da fare sia ancora lunga.

 

Il caso polacco

Quello che è certo è che la Commissione europea non vuole ritrovarsi a dover gestire un nuovo caso polacco. A inizio giugno Ursula Von der Leyen era volata a Varsavia per firmare l’approvazione del Recovery Plan. L’accordo era giunto al termine di una lunga trattativa e poggiava le basi su una serie di garanzie che Varsavia avrebbe dovuto soddisfare prima di ricevere i 35,6 mld di euro di Recovery Fund che le spettano.

Il pomo della discordia, ormai da anni, è il sistema giudiziario polacco, che Bruxelles ritiene svuotato della propria indipendenza a seguito della riforma della magistratura introdotta nel 2017 dal governo di Diritto e Giustizia (PiS). La promessa di Varsavia era di introdurre delle misure che risolvessero questa situazione.

La firma dell’accordo era stata a dire il vero piuttosto criticata da buona parte dell’Europarlamento, in quanto giudicata troppo affrettata. In quei giorni al Parlamento polacco era in fase di approvazione un disegno di legge presentato dal Presidente della repubblica Andrzej Duda che mirava a risolvere uno dei punti ritenuti essenziali dalla Commissione: l’abolizione della Camera di disciplina della Corte suprema, un organo di controllo dei giudici, ritenuto dipendente dall’esecutivo. Il disegno di legge, tutt’altro che perfetto, venne inteso come un segno di buona volontà da parte del governo polacco.

La Camera di disciplina è stata in effetti liquidata; tuttavia l’organo che l’ha sostituita, la Camera di responsabilità professionale, non appare veramente indipendente. Inoltre, i giudici sospesi dalla vecchia Camera non sono stati ancora reinsediati, né è stata intrapresa una riforma della magistratura, altre due condizioni essenziali poste da Bruxelles.

Si è tornati dunque a una situazione di stallo, e di conseguenza i soldi sono tuttora bloccati. Il governo polacco incolpa la Commissione di non aver mantenuto le proprie promesse e già ad agosto il leader di Diritto e Giustizia (PiS) Jarosław Kaczyński aveva minacciato: “Dal momento che la Commissione non sta adempiendo ai suoi obblighi nei confronti della Polonia, non abbiamo motivi di adempiere ai nostri nei confronti dell’Unione europea”. Il riferimento è alla possibilità di porre il veto su importanti questioni europee, così come esplicitato poi qualche giorno più tardi dal segretario di partito Krzysztof Sobolewski.

Kaczyński si era detto sicuro che il blocco del Recovery Fund fosse un modo per costringere la Polonia a piegarsi alla Germania. Questa affermazione ha avuto un ideale seguito in quanto accaduto il primo settembre, in occasione dell’83esimo anniversario dell’inizio dell’invasione della Polonia da parte della Germania nazista. In quell’occasione il governo polacco ha ufficialmente presentato al pubblico le stime dei danni che Berlino dovrebbe pagare come riparazione per i danni arrecati durante il secondo conflitto mondiale: 1.320 miliardi di euro. Una cifra colossale, che verrebbe ripagata nell’arco di decenni, secondo Varsavia. La questione, già liquidata in modo abbastanza secco da Berlino, si presenta come il primo atto di una campagna elettorale che si preannuncia lunghissima. Le elezioni per il nuovo parlamento si terranno tra 12 mesi, e Kaczyński ha necessità di ritrovare slancio di fronte ai propri elettori superando diversi problemi di natura interna, uno su tutti il caro energia e l’inflazione che ha toccato il 16% su base annua. Facile ipotizzare che in questo scenario le vicende europee ricopriranno un ruolo da protagonista.

Le divergenze con Bruxelles sembrano infine aver riallineato i binari di Varsavia e Budapest, che allo scoppiare della guerra in Ucraina avevano preso percorsi divergenti. Tuttavia è difficile dire quanto quest’alleanza poggi su solide fondamenta o su una temporanea convergenza di interessi. Ancora a fine luglio il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki  dichiarava che le strade dei due Paesi si erano divise. Un mese più tardi lo stesso Morawiecki ha affermato che pur nel rispetto dei colleghi ucraini si rende necessario ripristinare le relazioni sulle restanti questioni. Non sarà semplice, soprattutto se Orbán continuerà a remare in maniera contraria sull’approccio da adottare nei confronti della Russia. La sua richiesta di revocare tutte le sanzioni entro fine anno non va di certo nella direzione sperata dall’esecutivo polacco. Da parte europea la speranza è invece quella di riuscire a risolvere le questioni pendenti con i due Paesi il più presto possibile. Le elezioni italiane sono alle porte, e il rischio di un nuovo fattore di instabilità è dietro l’angolo.

 

Foto: I primi ministri polacco Mateusz Morawiecki e ungherese Viktor Orban in una foto d’archivio (Mateusz Wlodarczyk / NurPhoto via AFP).

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