C’è un perché se i dazi sono diventati popolari

Quando sul finire degli anni Settanta il comunismo controllava la maggioranza della popolazione mondiale, l’Occidente iniziava a domandarsi se la democrazia rappresentasse un’alternativa possibile alle dittature. Tutto ciò che ruotava intorno all’URSS aveva la curiosa capacità di essere in crescita economica, di avere economie stabili, di non soffrire di crisi cicliche e di non essere teatro di attacchi terroristici di varia sorta.

Non è insomma la prima volta che le democrazie liberali coltivano qualche complesso assimilabile a una crisi di mezza età. Mi riferisco qui alle nuove insicurezze che sorgono nel confronto con le democrazie illiberali – anche dette “presidenzialismi autoritari”. Si tratta di quei sistemi statali in cui il governo, formalmente democratico, è in realtà un sistema chiuso in cui la politica controlla gran parte dell’economia, e al contempo ha una tendenza marcata verso la limitazione delle libertà civili.

 

La polarizzazione economica

 

A una persona di mezz’età bastano normalmente qualche seduta dallo psicologo e una macchina nuova per risolvere i problemi. Nel caso delle democrazie, purtroppo, la situazione non si lascia risolvere acquistando una cabrio di seconda mano. Il fatto è che, innegabilmente, la mezz’età democratica è arrivata, e non è sufficiente convincere i sistemi politici di essere ancora in gran forma per tirarli su. Le democrazie occidentali non sono in forma per niente.

Il problema essenziale è la polarizzazione economica. La crescita negli ultimi vent’anni non è mancata, perlomeno in nord Europa e negli USA, ma la questione è la distribuzione del reddito. Se dalla crescita del mondo sviluppato togliamo la quota destinata alle élite, il risultato è che le economie si trovano in uno stato di semi-stagnazione prolungato.

Ciò è vero per gli Stati Uniti, dove i livelli di polarizzazione della ricchezza hanno toccato quelli della Belle Époque. Vale anche per la Germania, che per perseguire una politica orientata alle esportazioni ha praticamente bloccato gli aumenti salariali dal 2004. Oltre a ciò, ha continuato una politica di tasse basse per chi guadagna di più. Il sud dell’Europa è stato relegato a un disegno deflattivo teso a creare bacini di manovalanza a basso costo per servire l’industria del settentrione del continente.

Da qui, il nodo della crisi è chiaro: nel mondo libero non esiste più una forma d’identificazione chiara tra le élite e i sistemi politici. In altre parole, le democrazie hanno abdicato per necessità al proprio ruolo di organizzazione politica dei paesi, principalmente perché i punti di riferimento che regolano la vita sociale si sono spostati all’esterno dei paesi.

Si deve osservare cioè in che modo la polarizzazione è stata realizzata. L’accumulo del risparmio (e quindi del capitale, ma ho preferito scrivere “risparmio” per non essere tacciato di marxismo) è andato a beneficio di quei soggetti che, più e prima degli altri, sono stati in grado di legarsi ai fenomeni d’internazionalizzazione dei commerci e delle finanze.

Non ci troviamo più in presenza di élite industriali interessate al primato nazionale come presupposto del proprio successo: il nuovo scopo è l’internazionalizzazione sempre più marcata dei sistemi economici. Una multinazionale del nord Italia può operare in condizioni pressoché assimilabili a una bavarese, tra sistemi fiscali sparsi per il mondo e fabbriche dall’Asia al Sudamerica. Anzi, un intervento “democratico” può essere interpretato come ingerenza nel concetto contemporaneo di economia.

La forza delle democrazie è la capacità di ricondurre l’anarchia capitalista verso una forma organizzata di rappresentanza politica. Il problema è che la limitazione territoriale delle democrazie non consente questo più questo tipo di compito, rispetto al potere trans-nazionale di élite non più legate a un solo territorio.

Questo è uno dei maggiori cambiamenti mai realizzatisi nella storia del capitale. Nelle sue fioriture precedenti, il Grande Capitale si concentrava in zone definite a livello nazionale: Venezia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti. Beneficiavano dell’accumulo anche i territori satellite collegati ai centri di arricchimento.

 

Accumulazione a-territoriale

 

Assistiamo oggi invece a un ciclo di accumulazione a-territoriale, in quanto non determinato geograficamente. Un detentore di capitale può operare da Nuova Delhi, San Paolo, New York, facendo riferimento a un contesto di diritto e di cultura economica condiviso da un’élite sparsa per tutto il mondo.

Si noti come nei cicli di accumulazione precedenti siano stati presenti fenomeni di espansione del diritto, elemento necessario per garantire la trasparenza dei contratti commerciali e di lavoro. L’espansione democratica è stata accompagnata da quella economica. La missione delle democrazie del mondo libero negli ultimi vent’anni è stata invece quella di mettere le economie nazionali a disposizione del capitale a-territoriale, con una rappresentatività del diritto concentrata quasi esclusivamente verso la regolamentazione dell’interscambio commerciale e finanziario.

L’esempio più diretto del divorzio rappresentativo tra politica nazionale e popolo è stato quello dell’amministrazione Clinton: con la promozione dell’ingresso della Cina nel WTO sono stati messi a confronto sistemi sociali completamente diversi. Non è neanche concepibile immaginare che un’azienda occidentale, con tutte le spese sociali che deve sostenere, possa competere contro società cinesi libere da oneri di qualsiasi tipo.

Le riforme tedesche dei primi anni duemila sono state indovinate proprio perché adatte al contesto economico internazionale in cambiamento. Sono state create le premesse per rendere le esportazioni competitive, al contempo sfruttando i vantaggi che l’euro consentiva in merito ai tassi di cambio. In un primo momento il popolo ha protestato (cacciando eventualmente i socialdemocratici di Gerhard Schröder dal governo), ma poi il paese ha iniziato a crescere, pur polarizzandosi.

Anche se gli Stati Uniti e la Germania sono cresciute, risentono di problemi di rappresentanza politica. Negli Stati Uniti il partito democratico ha preferito presentare alle ultime elezioni una candidata strutturata, Hillary Clinton (spinta dagli elettori permanenti del partito), rispetto al candidato “popolare” Bernie Sanders. I repubblicani sono stati sbaragliati dall’outsider Donald Trump. In Germania stiamo assistendo al tracollo dei partiti tradizionali, sotto le ondate elettorali dell’estrema destra.

Il fenomeno è chiaro: se il capitale è a-territoriale, ogni territorio è colonia – e per questo anche nell’ambito dei paesi sviluppati devono esistere bacini di manodopera a basso costo. È il fenomeno del “colonialismo a-territoriale”, che si accompagna al nuovo sviluppo del capitale. Anche per questo motivo, non è più percepito un rapporto di rappresentanza salutare tra popolo e partiti tradizionali.

Si pensi ora alla differenza rispetto ai sistemi democratici illiberali. Questi ultimi hanno un vantaggio – almeno propagandistico – nei confronti del popolo: se la politica s’identifica con l’economia domestica, è interesse della politica conservare un primato nazionale e, per certi versi, anche rappresentativo. È l’assurdità del contemporaneo: la chiusura democratica, chiudendo le porte all’élite a-territoriale, garantisce maggiore rappresentatività politica rispetto alle democrazie tradizionali.

 

Come se ne esce?

 

È per questo motivo che il fenomeno nazionalista-sovranista non costituisce un’aberrazione storica, quanto la normalissima tendenza dei sistemi sociali verso una nuova forma di rappresentatività. Se non si è andati a sinistra, ciò si deve alla costante storica che in periodi di crisi a sinistra il popolo non ci va mai: più che a Marx e alle sue derivazioni, si ha fame d’identità nazionale (vera o presunta) come forma ultima di difesa culturale.

A ciò si aggiunga il fatto che le grandi riforme internazionalizzanti in Occidente sono state opera del centro-sinistra. Tacciare il popolo di stupidità perché vota nazionalista significa rifiutare la realtà per ciò che è. Il ritorno dei dazi, dei limiti al capitale e della migrazione sono conseguenze naturali rispetto all’anarchia economica sviluppatasi negli ultimi anni, senza adeguate forme di rappresentanza democratica che colleghino l’internazionale al nazionale.

Come se ne uscirà? Possiamo interpretare i neo-nazionalismi come forme di reazione alla nuova colonizzazione del capitale, interna e internazionale. Per una riorganizzazione ideologica, un passaggio attraverso la forma politica nazionalista è necessario. Da qui, la responsabilità di riorganizzare la situazione politica generale non spetta ai territori impoveriti, quanto alle nazioni-guida, che in quanto tali sono sorgenti ideologiche perché dimostrano maggiori gradi d’identificazione con l’élite a-territoriale.

Il piano tedesco, che sta peraltro fallendo, è di spingere vero un livello ulteriore di accumulo della ricchezza a svantaggio di altri territori europei, fino a consentire un arricchimento più diffuso nel proprio territorio. Se la Germania deciderà che è arrivato il tempo di vere riforme in Europa – e la piantasse con l’austerity, questa sì vera forma di populismo – possiamo coltivare qualche speranza di un avvenire realmente democratico.

La responsabilità dell’emersione dei fenomeni nazionalisti negli anni Venti e Trenta del Novecento è da addebitare anche alla risposta delle democrazie sviluppate: le dittature sono state l’aberrante risposta politica ai tentativi di colonizzazione industriale acuitisi con il crollo del sistema monarchico nella Grande Guerra. Anziché progettare un ruolo per i contesti socio-economici sconfitti, si è pensato di gestire i nazionalismi dandogli poi spazio. È un errore che l’Occidente non si può permettere un’altra volta.

Stefano Casertano è regista e scrittore e risiede a Berlino. È autore del libro “Fascismo nell’era digitale”, attualmente in redazione.

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