Il Pd via dal governo a lungo
Aperta la guerra di successione

Letta Elezione 22

La conferenza stampa del post-sconfitta – quella che dovrebbe servire ad ‘analizzare’ il voto (ma così non è, ça va sans dire) è quello che è. Triste, solitaria y final. Il segretario del Pd, Enrico Letta, annuncia, ammettendo la sconfitta nelle urne, che non si ricandida alla guida del Pd. Letta annuncia: sarà “accelerato” il percorso del congresso e “io non sarò candidato”: “Mi assumo la responsabilità” del risultato, dice, “assicurerò la guida del partito” fino al congresso, ma “la mia leadership finisce qui (o, meglio, lì, ndr.)”. Poi definisce la decisione “un gesto d’amore” al Pd.

Esce di scena con dignità, dunque, Letta: niente dimissioni frettolose, sull’onda dell’emotività e della sconfitta, ma il suo compito si è concluso. Però sta a lui, “per spirito di servizio”, portare la croce, novello San Sebastiano trafitto dalle frecce (quelle degli avversari esterni e pure interni), cioè il Pd al congresso e a un nuovo leader: insomma, non abbandona la nave che affonda. I tempi previsti per il congresso saranno accelerati, però, e il congresso si terrà entro febbraio 2023. Mese più mese meno, sarà quasi a scadenza naturale.

 

Letta non è mai passato per il lavacro primarie ma è stato eletto in seno all’Assemblea nazionale

Il precedente congresso, infatti, elesse Zingaretti, segretario, dopo le primarie vinte contro tanti altri e l’Assemblea nazionale che ne scaturì (2019), vedeva la maggioranza dei delegati in mano all’area ‘Zinga’, dalla vittoria schiacciante (66% dei voti, ai due sfidanti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, i relativi ‘resti’). Più (si capisce) Area dem, cioè quella di Dario Franceschini, storico alleato di chi – di volta in volta – li vince nelle urne (e, non caso, sempi-eterno ministro di tutti, o quasi, i governi…), i congressi. Mentre all’opposizione, ramenghi, finirono gli ex renziani di Base riformista (area Lotti-Guerini), i Giovani Turchi di Orfini e l’area ex Martina, che poi si è ‘riconvertita’ in area Graziano Delrio. Insomma, Letta non è passato per il ‘lavacro’ delle primarie, quelle in cui, Romano Prodi dixit, “deve scorrere il sangue”, ma è stato eletto, coram populo, dall’Assemblea nazionale, regno del Bengodi dei maggiorenti dem e storicamente prigioniera delle sue correnti.

 

Nel 2021, però, tutti a ‘pregarlo’, a Letta: “torna, salvaci, dobbiamo restare al governo!”

All’epoca, inizio 2021, tutto lo acclamarono felici – anche perché Zingaretti si era dimesso all’improvviso, un caso ‘di coscienza’ personale (in pratica, gli avevano ceduto i nervi…) – e, insomma, il Pd era rimasto “nave sanza cocchiero in gran tempesta”, come diceva messer Dante, e allora tutti a pregare Letta: ‘torna, aiutaci’.

Peraltro, con una di quelle coincidenze che fanno la Storia, Letta viene eletto (anzi, meglio: acclamato) segretario e Mario Draghi diventa premier. Pareva la quadratura del cerchio, ecco. Il Pd – che, di riffa o di raffa, al governo ci stava dal 2013 (governo Monti, poi governo Renzi, poi governo Gentiloni, elezioni 2018, breve pausa per il governo Conte I, panico nelle fila democrat: ma come? Non siamo più al governo?! Impossibile!, di nuovo al governo col Conte II) – pensava di averla sfangata pure questa volta.

Invece no, stavolta le elezioni, domenica scorsa, danno un esito indubitabile, chiarissimo: centrodestra al governo con FdI primo partito e la Meloni presto premier (tempo metà ottobre e la ‘pratica’ verrà smaltita) e Pd all’opposizione. Una di quelle ‘disdette’ che, al Pd, rovinano l’anima, il fegato, la salute, la pelle e le ossa. Ministri abituati allo ‘scattar sui tacchi’ (altrui), a uscieri, portavoce, staff, segreterie, a profusione, che ora saranno costretti al ruolo di deputati – e senatori – ‘semplici’.

 

Altro che Piave, è stata una vera Caporetto… Una disfatta, ma Letta fa un gesto ‘nobile’.

La leadership di Letta, dunque, è finita, di fatto, ieri. Dopo una sconfitta secca, con il Pd al 19% e quindi sotto la soglia ‘psicologica’ del 20%, cioè dove era stata posta l’asticella tra la ‘linea del Piave’ e una ‘Caporetto’ (ha vinto la seconda), per i dem ora, però, si gioca la partita della vita. Toccherà stare all’opposizione e, dopo tanti anni, nel Pd non ci sono più abituati, proprio per nulla. Intanto, Letta telefona a Giorgia Meloni, leader di FdI, per riconoscerle l’entità della sua vittoria. Altro gesto ‘nobile’ del segretario assai ‘nobile’.

Non è da tutti, dimettersi dopo una sconfitta, per quanto sonora. Salvini, per dire, non lo fa: il ‘Capitano’ intigna, rumoreggia, resiste, arrocca.

 

I segretari dem e una lunga fila di dimissioni

Nel Pd, però, la teoria dei segretari dimessisi per manifesta incapacità o per netta sconfitta è lunga. Lo hanno fatto Occhetto, dopo le Politiche 1994 (c’era il Pds), D’Alema, dopo le Regionali 2000 (c’erano i Ds), Veltroni dopo le Politiche 2008 (ma a scoppio ritardato, era appena nato il Pd, quello che Massimo D’Alema, oggi fidato ‘consigliori’ di Giuseppe Conte e dei suoi rebeldi e descamisados definì “amalgama mal riuscito”).

Poi, Bersani (2013), ma non dopo la ‘non vittoria’, ma dopo la mancata elezione di Prodi a Capo dello Stato. E per due volte Matteo Renzi: dopo il referendum, malamente perso, nel 2016, e dopo le Politiche, malamente perse, nel 2018. Ma Renzi è fatto così: torna sempre sul luogo del delitto, poi ha pensato di farsi un partitino tutto suo, a sua immagine e somiglianza, e tanti saluti. Infine, si è dimesso Zingaretti, ma sponte sua, nel 2021, all’improvviso, quando arrivò, appunto, Letta, richiamato dal suo esilio dorato a Parigi.

È durato un anno scarso, il già una volta premier. Enrico, dopo essere stato defenestrato da Chigi – le impronte le lasciò Renzi, ma c’erano pure tutti gli altri big, dietro di lui (epica la scena in cui Speranza, Guerini e Franceschini vanno da Letta: nessuno ha il cuore di dirgli che ‘Matteo’ pretende le sue dimissioni, e pure all’istante, alla fine si guardano tra loro, il coraggio lo trova Guerini, spettano sempre a lui i compiti ingrati) – ora si dimette di nuovo. Pure in questo caso, Letta si dimette motu proprio ma tutti i big, capi-corrente, capataz non vedevano l’ora che lo facesse. Non hanno remato, con il loro – presunto – Capitano, a cercare i voti, ma proprio per nulla.

 

Il tortuoso percorso che porta al congresso…

Solo che il Pd è un partito ‘democratico’ (“nel nome è scritto il suo destino”: pomposamente Veltroni dixit), quindi fare un congresso è un atto maledettamente complicato. Prima va convocato, dall’Assemblea nazionale, poi va tenuto. Si fa in due fasi: primo round tra gli iscritti, secondo tra militanti, simpatizzanti e semplici elettori che, se lo vogliono, partecipano alle primarie ‘aperte’, mentre le prime sono, invece, primarie ‘chiuse’. Il primo voto non può inficiare il secondo, invece il secondo può ribaltare il primo: insomma, alla fine, sono le primarie aperte a indicare il leader.

Infine, il segretario va proclamato in Assemblea, che elegge e ratifica i delegati che ogni candidato si ‘porta dietro’, sempre superino una certa soglia. Un percorso pensato, da due menti eccelse (il politologo Salvatore Vassallo, oggi direttore dell’Istituto Cattaneo, e il costituzionalista dem, Stefano Ceccanti) che però è faticoso, tortuoso. In pratica, è ricalcato sul modello delle elezioni Usa, ma non quelle per scegliere il candidato premier, ma proprio le presidenziali quanto tali. Finisce, ogni volta, in un’orgia di regolamenti, codicilli, quote, soglie di sbarramento, glosse, che fanno diventare matti i cronisti che le seguono, le primarie del Pd, e pure i cittadini che vi votano.

 

Letta assicura: sarò “neutrale” sui candidati

Sarà, stavolta, però, o almeno così vuol essere, nelle intenzioni delle menti più pie, un congresso ‘approfondito’ sulla identità del Pd e la sua mission, non un semplice gioco di nomi. Letta, rispetto ai tanti che si affollano già nella ‘guerra di successione’ (Bonaccini, Ricci, Elly Schlein) assicura che sarà “neutrale”. Poi, però, esce fuori tutta l’amarezza della sconfitta (“Le sconfitte sono sempre in solitaria”) ma di pari passo con la preoccupazione: “Gli italiani hanno scelto, l’Italia avrà un governo di destra: è un giorno triste per l’Italia e l’Europa, ci aspettano giorni duri”. Per lui, lo saranno meno. Un ‘posto’, Letta, ce l’ha: professore al Dipartimento di Sciences Po, Parigi, oltre che quello di deputato semplice.

 

Il ‘gesto di amore’ che il Pd non ha apprezzato

Il problema è che, nel Pd, non hanno apprezzato. “Era ora se ne tornasse a fare il professorino!” dice uno. “Resta per condizionare la successione a se stesso!” dice un altro. “Vuole tenere in mano le chiavi del partito, nominare lui i capigruppo di Camera e Senato, condizionando tutto il partito!” sbotta il terzo. Tutti e tre big dem di alto livello.

Il “gesto d’amore” di Enrico Letta verso il Pd non viene, decisamente, contraccambiato, dal Pd mismo. Letta l’aveva messa così, di mattina: se non getta la spugna e resta alla guida del partito, fino al congresso (febbraio-marzo 2023), c’è una ragione semplice che Letta rivendica: “È meglio che sia io a convocare il congresso, piuttosto che cominciare dinamiche che avrebbero fatto perdere tempo. Il mio è un gesto d’amore per il partito”.

Il “gesto d’amore per il partito” è quello a cui Enrico Letta, l’allievo di Beniamino Andreatta, il pupillo di Romano Prodi, europeista convinto, scandisce con più forza. Ma il Pd è nel pieno di un marasma che è appena iniziato. La ‘notte dei lunghi coltelli’ è già iniziata, e fa impressione.

I big democrat negano tutti di avere fatto pressing perché Letta passasse subito la mano, ma i malumori sono cresciuti – in questi ultimi giorni e ore – sia sugli errori compiuti sia sul messaggio della campagna elettorale sia sulla strategia delle alleanze con l’archiviazione del “campo largo” che, in molti, specie nell’ala sinistra democrat, hanno giudicato troppo “facile, frettolosa”. “Alleati con Conte, potevamo vincere” dicono, ma ‘ora’, i vari Orlando, Provenzano, Bettini.

La conferenza stampa di Letta è stata preceduta da una riunione dello stato maggiore del partito. Alla fine, è Dario Franceschini – sempre lui, uno che ‘c’è’ sempre, quando si tratta di coltellate – a insistere: “No all’idea di un Pd allo sbando”. Letta, dunque, garantisce di traghettare il Pd verso una nuova era, una nuova classe dirigente. Per il Pd tertium non datur: rinascita o estinzione.

 

I candidati dem già ai nastri di partenza

I candidati, già ai nastri di partenza, per la ‘guerra di successione’ a Letta, dimissionario, sono tre. Altri potrebbero, presto, aggiungersi alla bisogna, come, per dire, il sindaco di Firenze, Nardella, il cui mandato scade tra un anno e poco più, ma per ora limitiamoci a indicare quelli (quasi) ‘sicuri’.

Il primo è il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, da poco nuovo e ‘rinnovato’ nel look (è dimagrito, si scolpisce la barba, si è messo gli occhiali a goccia, abiti aggressivi, etc.) e pure nelle alleanze. Spazia dai sindaci, in carica e non (da Gori a Nardella, da Decaro a Gnassi) alla corrente degli ex renziani, Base riformista, di Lotti e Guerini. E ha già stabilito una ‘rete’ di referenti, per ora solo regionali, ma presto pure provinciali e comunali, nei famigerati ‘territori’. Quelli dove, dall’Alpe alla Sicilia, il Pd non becca più neppure un voto neppure a pagarlo, ora.

Manca solo l’annuncio ufficiale, ma arriverà, e pure presto. “Stefano si è portato troppo avanti e, stavolta, non si tira indietro, non fa sor Tentenna” – spiegano, impettiti, i suoi fedelissimi. Si vedrà. Certo è che, a campagna elettorale ancora in atto, Bonaccini ha tenuto, a Rimini, un’iniziativa priva di simboli di partito (il suo) e solo con un grande tricolore e un grande ‘cuore’ (rosso). L’idea dei suoi è quella di impostare la campagna elettorale congressuale stile campagna da premier (del futuro prossimo che mai sarà, visto che, in teoria, per 5 anni governerà la destra) e non solo da segretario di una ‘parte’ politica.

I ‘poteri forti’ (Confindustria, sindacati, coop) si stanno già posizionando, quasi tutti, su di lui. L’idea è anche di un ticket con una donna. Voci insistenti parlano di Simona Bonafé: toscana, segretaria del Pd, colta quanto amata, neo-eletta deputata, in procinto di traslocare da Bruxelles per il Parlamento italiano, dove potrebbe essere la capogruppo dem alla Camera, col placet di Letta.

 

Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, scende in campo con la sua ‘rete’ e lo fa “a viso aperto”

Poi c’è il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, nonché presidente di Ali (Autonomie per l’Italia, che è una sorta di Anci coté progressista, braccio destro e sinistro, dentro Ali, Valerio Lucciarini), il quale ha – a sua volta – deciso di scendere in campo, e ieri, a ‘cadavere’ (di Letta) ancora ‘caldo’, sul ring. Almeno, però, a viso aperto.

Farà una campagna elettorale (ma da segretario del Pd, senza coltivare ambizioni da grandeur) con tanto di tour di ‘prossimità’ in tutta l’Italia, anche perché, essendo lui molto ‘marchigiano’, ha bisogno di farsi conoscere al Sud e al Nord, per far conoscere meglio lui e il suo programma.

Slogan e claim della campagna “Sinistra veloce”, titolo dell’evento, il “Festival delle città”, che Ali tiene, ogni anno, a Roma, agli inizi di ottobre. A ora, almeno lui, però, non prevede alcun ticket…

 

La vera outsider è la ‘pasionaria’ Elly Schlein

La terza è il nome che molti, se non tutti, temono che scenda, per davvero, in campo. Si tratta di Elly Schlein: a sua volta neo-eletta, alla Camera, super-acclamata al comizio di chiusura di Letta, grazie al suo ‘frontale’ contro Giorgia Meloni (“Sono una donna, sono lesbica, non sono mamma”, mancava solo: “non sono cristiana”…), già quasi ex vicepresidente proprio di Bonaccini, cittadinanza metà svizzera e metà americana, la Schlein sarebbe non solo la candidata che “piace alla gente che piace”, fuori e dentro il Pd, dato che è molto esposta sui diritti civili e pure sociali, ma anche quella su cui punterebbero, all’unisono, sia lo stesso Letta, che resterà in carica come segretario “con pieni poteri” fino al congresso – e, dunque, fino alla proclamazione del neo-leader – ma anche Romano Prodi e a tutta la sinistra.

La quale sinistra (voleva, all’origine, lanciare la candidatura del giovane, neo-eletto, vice-Letta, Peppe Provenzano, allievo del Pci Macaluso), sta capendo che solo ‘Elly’ può fermare la corsa, altrimenti destinata al successo, di Bonaccini. Il quale, ‘a sinistra’, viene vissuto come un ‘cavallo di Troia’ del nemico pubblico n. 1, e cioè Renzi. La Schlein potrebbe scegliersi un vice, in ticket, all’incontrario (donna/uomo) nell’eurodeputato, altro frontman di diritti, Pierfrancesco Majorino. Ricci, in tal caso, farebbe da ‘terzo incomodo’. Ma la ‘guerra dei Roses’, nel Pd, è solo iniziata.

 

Foto: Enrico Letta arriva al seggio per votare il 25 settembre 2022 a Roma (Alberto Pizzoli / AFP).

  1. L’analisi di E. M. Colombo corre sul filo di stereotipi ben (e anche meglio) noti a chi ha qualche consuetudine con la storia, i dati e l’articolazione culturale della sinistra italiana. Sconforta l’aneddotica di un giornalismo più parodisticamente vicino (ma molto meno divertente) al gossip politico di Dagospia, che alle vette di virulenta ‘invettiva neogiacobina di Travaglio. Ci sono comunque risparmiate da Colombo le lapidarie diagnosi e i miracolosi ritrovati che una ridda di commentatori più o meno qualificati vanno proponendo inconfutabilmente per la “rigenerazione del PD”. Che merita invece, nel momento storico generale, complesse e documentate riflessioni. Andrea Bruno, Direttivo del Circolo Università/Ricerca del PD di Bari.

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