Il Manifesto di Ventotene offre uno spunto di riflessione che va oltre la ricostruzione storica con i suoi evidenti limiti temporali, ponendo una domanda cruciale: è possibile pensare a un’Europa dei cittadini e delle cittadine? I dibattiti attuali mettono in discussione la possibilità di costruire una vera democrazia europea in situazioni sempre più polarizzate da interessi sovranisti, sottolineando l’assenza di un popolo europeo. Ritengo che il dibattito debba essere piuttosto spostato non solo sulla tensione tra Stato e demos europeo, bensì sulla questione dell’esistenza di cittadini attivi, intesi come soggetti politici consapevoli, capaci di abitare uno spazio pubblico transnazionale nell’epoca digitale.
Con ciò prendo spunto dalle riflessioni di Jürgen Habermas nel saggio già citato da Pasquale Ferrara, ma anche dai precedenti scritti sulle difficoltà di una Unione Europea burocratizzata e lontana dagli interessi e dalle vite dei cittadini. L’Unione Europea non è una realtà compiuta e neppure una somma di istituzioni: è un progetto in divenire, che custodisce nella memoria il desiderio di giustizia e si apre al futuro come promessa.
La cittadinanza europea è stata istituita con il Trattato di Maastricht nel 1992 e poi ribadita nel Trattato di Amsterdam nel 1997. Essa non si sovrappone a quella nazionale, bensì la integra, mirando a instaurare legami di solidarietà tra cittadini e cittadine.
Dobbiamo cercare di fare interagire la nozione di popoli europei (molteplicità), il demos europeo (unità) che non c’è, e i cittadini (insieme di individui uniti da principi condivisi).
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 si rivolge infatti a cittadini e cittadine come singoli, enunciando i principi di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia. Non riguardano le radici comuni, ma dei valori che possono unire culture differenti entro un progetto politico condiviso.
Nel Manifesto di Ventotene Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni (provenienti da tradizioni politiche differenti) intravidero la necessità di superare la forma-Stato, in quanto macchina di guerra e custode di identità escludenti. La proposta federalista o confederale non era soltanto di tipo istituzionale, bensì era un gesto di apertura verso una cittadinanza intesa come pratica politica, sociale e culturale condivisa e fondata su partecipazione, solidarietà e diritti.
Come viene sottolineato nel Manifesto: “La massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe governante”. Per questo si potrebbe parlare di una “sovranità dei diritti”, come sostenuto da Ferrajoli.
La cittadinanza non è qui un attributo giuridico, ma un processo dinamico di emancipazione sociale ed etica, dove la libertà si realizza come partecipazione effettiva alla costruzione del mondo comune.
Questa eredità si intreccia con la filosofia cosmopolitica di Kant, la nozione arendtiana del diritto ad avere diritti e la proposta habermasiana di una cittadinanza post-nazionale.
Nel testo Zur Verfassung Europas del 2011, Habermas fece una distinzione tra integrazione funzionale ed effettiva legittimità democratica. Non è sufficiente costruire un mercato comune o produrre politiche sociali, senza tuttavia costruire una sfera pubblica transnazionale che renda i cittadini protagonisti nei processi decisionali.
La cittadinanza non è soltanto legata a un elemento tecnocratico ed economicistico, deve essere piuttosto legata alla partecipazione reale. Come scrive Habermas: “Finché l’Europa non svilupperà uno spazio pubblico transnazionale, la democrazia rimarrà confinata ai confini dello Stato-nazione”.
Cosa si può dunque intendere per cittadinanza trasformativa di tipo sociale e culturale e non solo politico? È ciò che Seyla Benhabib intende per “iterazioni”, riferendosi ai quei principi che si sostanziano nel cambiamento e nella pratica. Si tratta di una cittadinanza che si sostanzia grazie a dimensioni sociali, diritti materiali, caratteristiche culturali, lingua, memoria e politiche di partecipazione attiva. La cittadinanza non è soltanto formalismo giuridico, bensì il diritto stesso, come sosteneva Arendt, di appartenere a un mondo che renda i diritti esigibili: cittadinanza significa accesso alla piena umanità.
L’Europa si deve congedare da quell’idea di Occidente del bipolarismo, emancipandosi dalla logica della contrapposizione per costruire una via propria grazie ai cittadini.
Questo ce lo chiedono le migrazioni che hanno reso obsolete le concezioni statiche della cittadinanza. Milioni di persone vivono o si muovono nell’Unione senza rientrare nei criteri giuridici della cittadinanza formale, pur esercitando un’appartenenza sociale e culturale. Si tratta di cittadini in fieri e insieme in pratica, che interrogano la cittadinanza come prassi di coabitazione e mobilità consapevole, al di là delle mura della fortezza Europa.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (riconosciuti per la prima volta nel Trattato di Nizza del 2001) è una base normativa e costituzionale fondamentale. Tuttavia, perché diventi forza propulsiva, deve essere tradotta in esperienza condivisa.
È fondamentale pensare all’Europa dei cittadini ma solo se i valori enunciati possano diventare concetti di tipo pragmatico. L’Unione Europea è uno spazio non solo giuridico o istituzionale, bensì anche uno spazio pubblico, fondamentale soprattutto nell’età dei social media.
L’Unione Europea si è nel frattempo dotata di strumenti normativi e strategici per affrontare gli sviluppi dell’intelligenza artificiale e tutelare la privacy dei cittadini. In particolare con lo AI Act (2023-2024) si è inteso garantire trasparenza, etica e responsabilità nell’uso dell’AI e con il Digital Compass 2030 (Commissione Europea, 2021) segnare una roadmap per il conseguimento di obiettivi digitali in ambiti relativi competenze digitali, infrastrutture, digitalizzazione delle imprese e dei servizi pubblici.
Tuttavia, queste misure sono essenzialmente reattive, poiché le infrastrutture algoritmiche funzionano secondo meccanismi economici autonomi.
Quello che manca è il ripensamento di una politica della comunicazione nell’età digitale.
Dopo il fallimento del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa – firmato nel 2003 ma respinto nel 2005 dai referendum popolari in Francia e nei Paesi Bassi – era diventato necessario riflettere sulle evidenti carenze comunicative, anche grazie al Libro bianco (Commissione Europea, 2006), che mirava a rafforzare la comunicazione istituzionale dell’Unione Europea. Tuttavia, a mio parere, questo obiettivo non è mai stato pienamente realizzato, soprattutto alla luce degli sviluppi digitali.
Oggi è necessario andare oltre i media tradizionali: serve una piattaforma europea non privata, capace di attivare meccanismi reali di partecipazione dei cittadini e di contrastare il predominio economico delle Big Tech.
L’Unione Europea deve garantire l’esistenza di piattaforme pubbliche che permettano lo scambio di informazioni e opinioni. Queste non devono essere pensate secondo la logica dell’economia dell’attenzione, come meri strumenti tecnici che amplificano polarizzazioni algoritmiche. Al contrario, devono configurarsi come spazi di partecipazione democratica e accessibile, in grado di favorire il dialogo tra diverse culture e concezioni, promuovendo l’interazione e l’apertura, piuttosto che la chiusura in bolle autoriferite.
Una cittadinanza, che deve essere abitata non soltanto in senso giuridico, ci chiede di promuovere pluralismo culturale anche attraverso una nuova politica delle piattaforme e della comunicazione nella sfera pubblica sia reale che digitale.
È necessario costruire immaginari controfattuali capaci di pensare ciò che ancora non esiste, ma è possibile. È l’eredità di Ventotene, così come dei fondatori dell’Unione Europea.
Questi immaginari devono essere anche pragmatici, radicati in pratiche reali di cooperazione, di solidarietà e di innovazione sociale, oltre che tecnologica.
Molti sono ormai gli esempi. Possono essere trovati nei movimenti per la giustizia climatica, nei progetti di civic tech, nei laboratori di democrazia partecipativa, nei forum transnazionali sui diritti digitali, nelle reti femministe. Non bisogna concepire il digitale come mero capitalismo del controllo, bensì come una reale potenzialità per l’empowerment collettivo.
L’idea è quella di una resistenza costruttiva, capace di generare nuove istituzioni, nuove soggettività, nuove etiche del vivere insieme.
Immagine di copertina: alcune bandiere degli Stati membri dell’Unione Europea. Foto dell’archivio della Commissione Europea.