Ventotene, tra visione storica e sacralizzazione politica

Si possono dare due interpretazioni del Manifesto di Ventotene: una come documento storico, l’altra come mito di fondazione. Le due interpretazioni non coincidono.

Se stiamo sul primo piano, il Manifesto è innanzitutto un testo antifascista e quindi va inquadrato dentro quella temperie. In secondo luogo, propone un’idea di Europa e di federalismo europeo profondamente condizionata, come giustamente è stato detto, dal contesto in cui fu scritto e dalle conoscenze disponibili sull’isola. Reinterpreta in chiave “rivoluzionaria” e “giacobina” un pensiero che era stato già di Einaudi e che si era sviluppato a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento con tre importanti articoli sulla stampa e poi, in maniera più strutturata, dopo la prima guerra mondiale.

Tutto questo ci è confermato da Altiero Spinelli, tra i principali estensori del testo. Se leggiamo le sue memorie, Spinelli ci dice che quel testo ha un’origine “illuministica” e sintetizza tre diverse sensibilità: quella di un convertito al comunismo, lui stesso, quella di un giacobino come Ernesto Rossi e di un socialista di tipo particolare come Eugenio Colorni, vicino al socialismo antistalinista e con simpatie trotzkiste. Su questa linea si porranno poi anche esponenti come Mario Zagari, Leo Solari e Rino Formica.

Visto storicamente, il Manifesto di Ventotene è una delle fonti del federalismo europeo. Come è stato ricordato, queste fonti sono plurali: è un federalismo di tipo empirico, quello di Einaudi; di matrice cattolica, come ha sottolineato Emma Fattorini, e che ha anche una radice biografica fortissima, legata alle vicende personali di tre grandi leader che avevano vissuto sulla loro pelle la tragedia del Novecento. Konrad Adenauer, con la sua esperienza tra Colonia e il Reno; Robert Schumann, loreno, dunque tedesco e poi francese; e naturalmente Alcide De Gasperi, suddito della minoranza italiana dell’Impero Austro-Ungarico e poi national builder italiano.

Che il Manifesto fosse imperfetto lo riconosce lo stesso Spinelli, che nelle sue memorie parla di “alcuni errori politici di non lieve portata”. E tra questi, dice, era espresso ancora in termini “troppo rozzamente leninisti”. Non è Giorgia Meloni in Parlamento, è Altiero Spinelli che scrive.

C’è poi il problema del perché questo testo diventa anche, legittimamente, un mito di fondazione. Non possiamo fare una ricostruzione storica puntuale su questo, ma l’Europa federale come progetto politico raggiunge il suo punto più alto con la Comunità Europea di Difesa e in particolare con l’articolo 38, scritto da De Gasperi. Come ha detto Fattorini, quell’articolo era pensato come leva per costruire un nucleo di potere politico condiviso. Tant’è che su quell’articolo De Gasperi compie lo sforzo più forte nel convincere Schumann il quale diceva “si va a fare una cessione di sovranità attraverso l’articolo che tu hai scritto, che non è contemplata dalla nostra Costituzione e che quindi ha bisogno di un passaggio di tipo costituzionale”.

La storia è dettata dalle contingenze. In quel momento, con la guerra di Corea in corso, la guerra fredda rischiava di degenerare in un conflitto globale. De Gasperi capì che c’era una finestra di opportunità: nemmeno gli americani potevano dire di no a un progetto che avrebbe risolto alla radice la “questione tedesca”. In sostanza, come integrare le risorse della Germania senza correre il rischio che queste si trasformassero in una nuova sovranità militare tedesca. Ma nel 1953 questa finestra si chiuse: morì Stalin, tornò al potere Churchill e iniziò una fase di distensione. Fu soprattutto con la guerra di Corea, che finisce senza vincitori né vinti, che l’idea che si potesse mantenere la pace grazie all’equilibrio nucleare prese piede, e la spinta alla sovranazionalità si indebolì.

Ha un senso parlare di federalismo e di confederalismo, grosso modo, fino al 1963, fino a che l’azione di un confederalista serio come Charles De Gaulle è estremamente forte. Spinelli lo dice chiaramente nel suo intervento all’UNESCO dell’ottobre ’63 (L’origine dell’unità sovranazionale): dopo la sconfitta della CED, la scena europea non è più dominata dallo scontro bipolare tra federalisti e confederalisti, ma da una terza via, quella funzionalista, incarnata da Jean Monnet. Dunque lo scontro è tripolare e il nodo è portare i funzionalisti verso un progetto federale o verso uno confederale.

A maggior ragione questo scontro viene meno con l’allargamento dell’Unione Europea. Costruire il federalismo in un’Europa a sei – che non si era allargata neanche alla Gran Bretagna per il veto della Francia – è una cosa, costruirlo in un’Europa che si estende a nord, a sud e poi all’est europeo è un’altra.

Da quel momento in poi, dagli anni Sessanta, la costruzione empirica dell’Europa ha il sopravvento sugli schemi istituzionali puri. Lo sapeva anche Spinelli, che si trovò spesso in difficoltà nella sua stessa area federalista, accusato di cedere troppo alla riforma e alla transigenza. Perché allora il Manifesto è stato sacralizzato? Perché serviva un testo di fondazione. Quando, nella seconda metà degli anni Sessanta, le formazioni socialiste si aprono a un’idea di europeismo (diversa da quella degaulliana allora dominante), e ancor più quando il PCI inizia a spostarsi in quella direzione, verso alcuni elementi federalisti. La forza comunista era stata fieramente anti europea, aveva ribadito questo antieuropeismo ai tempi del Sistema Monetario Europeo (SME) e degli euromissili. Nel momento in cui è rientrata nel gioco aveva bisogno di un riferimento.

Lo si vede chiaramente nel diario pubblicato da Giulio Napolitano sull’esperienza biografica del padre: Giorgio Napolitano cercò di collegare il comunismo italiano alla grande tradizione socialdemocratica europea. Quando questo progetto fu sconfitto, l’europeismo divenne la seconda chance. In questo senso, il Manifesto di Ventotene è diventato un testo sacro, al di là della sua storicità.

Ultimo punto: l’Europa è andata avanti, certo. Ma dopo la moneta unica non si è riusciti a completare il passaggio all’Europa politica. Se l’Europa è stata costruita più per diluire il potere che per esercitarlo, oggi servirebbe una “conversione” del progetto europeo. Se nel 1953 si trattava di federalizzare una storia appena iniziata con la CECA, oggi abbiamo settant’anni di costruzione europea. E questa costruzione, diciamolo, ha preso la forma di una cattedrale barocca più che gotica: non lineare, non verticale.

In questo contesto, l’approccio di cui abbiamo bisogno non può che essere empirico, approssimativo. Non riuscirà oggi ciò che non è riuscito allora, in condizioni storiche assai più favorevoli. Il programma di riarmo europeo è necessario, ma è chiaro che non è l’articolo 38 voluto da De Gasperi. Tuttavia, è un passaggio necessario in una visione riformista e gradualista che, più che al testo letterale del Manifesto, rimanda a chi, più di ogni altro, lo ha ispirato.

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