Il ricordo del presidente

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Solo qualche breve considerazione, che vuol essere testimonianza della mia profonda partecipazione a un ancora cocente dolore comune e ad un desiderio di ulteriore, discreto dialogo col nostro amico scomparso. Quel che mi sembra giusto sottolineare – muovendomi nel solco del meditato intervento del professor Galli della Loggia – è il rapporto stretto e peculiare che lega il Cafagna storico e il Cafagna politico, storico di professione e politico non di professione.
Mi aveva colpito, nel leggere, appena apparve, il suo Cavour, il fatto che egli avesse per così dire introdotto, in una ricostruzione e analisi storica di impeccabile rigore e completezza, talune categorie della politica quali le aveva vissute e le stava vivendo alla fine del secolo, in un problematico contesto ancora segnato dalla traumatica cesura insorta anni prima nella vita dell’Italia repubblicana. Ed egli – che di quel trauma e dei suoi possibili esiti aveva saputo dare la più lucida rappresentazione da critico penetrante della politica in atto – nel dedicarsi poi al grande tema storico della personalità e del ruolo di Cavour tese certamente a ricercare persistenze di lunga durata nello svolgimento dell’esperienza storica dello Stato unitario, a partire dal processo della sua formazione.
Significativo è, così, specialmente il capitolo conclusivo di quel Cavour pubblicato nel 1999, in cui compare la categoria, piuttosto contemporanea, del “ricorso al centrismo”, e insieme con essa una realistica valorizzazione delle “arti, a volte geniali a volte mediocri, della mediazione e del compromesso, da Depretis-Correnti o da Giolitti-Turati, a De Gasperi-Togliatti e a Moro-Berlinguer”. Valorizzazione in evidente controtendenza rispetto alle correnti demolitorie del percorso della cosiddetta prima Repubblica, e rispetto ad una nascente mitologia del più perentorio bipolarismo. La linea del libro del ’99 è stata infine ribadita e accentuata da Cafagna nella relazione dell’ottobre 2010 al convegno di Torino, ancor più rivolta a mettere in luce i caratteri dell’ “unico uomo veramente europeo del Risorgimento italiano”: quel convegno e quella relazione hanno – voglio ricordarlo – trovato posto nel programma delle celebrazioni del Centocinquantenario, che sono anche state un risarcimento, quanto mai dovuto, alla poco coltivata memoria di Cavour.
Il dedicarsi alla figura del maggior artefice politico dell’unificazione nazionale fu per Cafagna un portare avanti in sostanziale continuità tutte le precedenti ricerche sul processo unitario e sullo sviluppo italiano, sulle sue connotazioni strutturali e sul suo dualismo. Ma è vero che egli, identificandosi in modo così profondo e radicale con la figura di Cavour, uscì da una tradizionale sottovalutazione, non priva di ambiguo significato, del ruolo del primo ministro piemontese nel Risorgimento: e su questo punto – già richiamato ora da Galli della Loggia – ha gettato luce lo stesso Cafagna nella recente postfazione alla ristampa del suo libro, rivelando come sintomatica della scarsa popolarità di Cavour e anche della sua scarsa fortuna storiografica – nonostante qualche grande eccezione – nonché perfino della sua scarsa eco, in epoche recenti, nelle sfere intellettuali, la singolare disattenzione confessatagli da Norberto Bobbio.
Possiamo in definitiva ben dire con Galli Della Loggia che il “lungo colloquio o soliloquio” di Cafagna con Cavour, “prende di continuo la forma di un’alta meditazione sulla politica in generale e sul suo ruolo nell’intera nostra vicenda nazionale”. In quel ruolo, nell’importanza decisiva della “alchimia politica”, Luciano credeva fortemente: da storico e da uomo di intensa passione politica, quale fu pur senza tradurre tale sua vocazione in professione, come può accadere e tanto vorremmo che accadesse ancora, coinvolgendo giovani oggi troppo lontani dall’attenzione e dalla propensione per la politica. La lezione di Luciano è al tempo stesso quella della forza di un’autentica intelligenza politica anche nel sollecitare e guidare la ricerca storica. Ed è viceversa quella del valore insostituibile della cultura storica, o almeno del senso della storia, come componente della cultura politica, ovvero della cultura di chi fa politica.
Mi fermo qui, a questo semplice accenno alla grande e ineludibile sfida che abbiamo oggi davanti, del veder la politica in Italia risollevarsi dall’impoverimento culturale che ne ha segnato la decadenza. Ci duole molto non poter più chiedere a Luciano Cafagna contributi nuovi a questo fine: di non poterne più chiedere allo studioso, all’intellettuale-politico degno come pochi del titolo di riformista, cresciuto in uno stretto sodalizio con Antonio Giolitti, all’interlocutore – mi si lasci aggiungere – mai perduto nemmeno nel divaricarsi delle posizioni in seno alla sinistra, all’amico ritrovato sempre più vicino nella ricerca di nuove strade per il paese.

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