Crisi fiscale e Costituzione

Dossier
Sommario

Nei saggi e negli articoli di Luciano Cafagna capita spesso di trovare giudizi e intuizioni straordinariamente penetranti, formulati in poche righe: quasi lo stesso autore non ne cogliesse appieno le potenzialità esplicative e la capacità di fornire al lettore, assieme alla conoscenza dei “dati storici”, quelle interpretazioni di cui abbiamo bisogno per capire il presente e orientarci nella costruzione del futuro (nei limiti in cui esso dipende da noi).
E’ il caso, nella Grande Slavina, di un riferimento alle conclusioni di un Comitato di studio bicamerale sulle norme di applicazione del IV comma dell’art. 81, ignorato dai più, di cui furono ispiratori, nel 1961, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi ed Antonio Giolitti. Era un documento nel quale si rompeva il tabù del pareggio di bilancio – cui i governi della Repubblica si erano fino ad allora ispirati – e si proponeva esplicitamente il ricorso all’indebitamento. Quel documento – scrive Cafagna, con uno di quei giudizi cui prima facevo riferimento – fu “forse il vero battesimo del centro-sinistra, meno vistoso ma più profondamente sconvolgente della stessa nazionalizzazione dell’energia elettrica”.
Cafagna, che sostiene la tesi che la “crisi italiana è, nel suo nocciolo duro, una crisi fiscale”, precisa subito che i padri del centro-sinistra pensavano onestamente ad un uso oculato e reversibile del deficit spending per accelerare uno sviluppo che creasse le risorse per il rientro, tramite maggiori entrate fiscali. Ma – ben al di là delle originarie intenzioni – di lì a poco il tentativo di forzare la soluzione dei grandi squilibri del paese (a partire da quello nord-sud) avrebbe condotto il deficit spending a travolgere i propositi di reversibilità, diventando regola anche per le fasi di forte espansione economica, e soprattutto fonte di finanziamento della spesa corrente, a partire da quella necessaria per alimentare la crescita di un’enorme macchina burocratico-amministrativa.
Sono tornato su questo giudizio di Cafagna sul rapporto tra crisi fiscale e regole della politica di bilancio perché proprio in questi giorni il Parlamento è intervenuto per modificare profondamente quel IV comma dell’art. 81 su cui aveva lavorato il Comitato di Studio del 1961 cui Cafagna assegnava tanto rilievo. Da qualche giorno, poiché il Parlamento ha definitivamente deliberato con più dei 2/3 dei voti favorevoli, è stato fissato in Costituzione il principio del pareggio strutturale, cioè del pareggio al netto degli effetti sul bilancio stesso del ciclo economico. Nel confronto che ha preceduto questa scelta è stata avanzata nei suoi confronti una critica radicale: il principio che si vuole introdurre in Costituzione sarebbe stupido ed autocastrante, perché non consentirebbe di usare la leva della politica fiscale espansiva nelle fasi di stagnazione e recessione.
È mia opinione che la risposta a queste obiezioni sia riassumibile in quell’aggettivo “strutturale” che qualifica l’obiettivo del pareggio come obiettivo intelligente, cioè reattivo all’andamento del ciclo. Ma a confermarmi nella decisione di sostenere la riforma sono venuti due di quei giudizi storico-politici di Luciano cui ho fatto riferimento all’inizio.
Il primo: “Diventa insignificante, a un certo punto, parlare di qualsiasi problema ignorando lo zoccolo duro della crisi fiscale”. Cafagna scriveva nei primi anni ‘90, quando la crisi fiscale coincideva col collasso di tutti i partiti della prima Repubblica e minacciava di trasformarsi in una “crisi della democrazia”. Hic Rhodus, hic salta: o si aggrediscono le ragioni di fondo della crisi fiscale, o l’intera impalcatura democratica può crollare. Oggi è più vero di quanto lo fosse allora. E a me non pare un caso che il tentativo di trarre fuori il paese dalla catastrofe che lo minaccia sia affidato – esattamente come aveva allora proposto Cafagna – al concorso della destra e della sinistra, che stanno insieme sostenendo il governo Monti. In questo senso decreto salva-Italia, riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni, nuove regole costituzionali per la decisione e la gestione di bilancio, revisione integrale della spesa pubblica, costituiscono un corpo unitario, perché – scrive Cafagna citando Amato – se la crisi ha le sue fondamenta nella crisi fiscale, “la maggioranza per essere tale deve governare l’economia e la finanza pubblica”: ciò che le maggioranze politiche di questi ultimi dieci anni – l’una per otto anni e mezzo, l’altra per 18 mesi – non sono state in grado di fare.
Ma il compito è arduo perché l’operazione non può essere coronata da successo se non viene condotta puntando a ridefinire i confini della presenza dello Stato – e, quindi, della politica e dei partiti – nella economia e nella società. Un compito che può essere svolto dalla sinistra che ambisca ancora ad essere sinistra “sociale” solo se essa si dimostra capace di ridefinire cultura politica e “abitudini” consolidate.
Vengo così al secondo giudizio di Cafagna: “La ‘ingerenza dei partiti nella economia’, per parafrasare il titolo di un classico ottocentesco – è la madre di tutte le corruzioni”. Così Luciano nel capitolo conclusivo della Grande Slavina. Aveva di fronte la tragedia di Tangentopoli. Oggi una marea di discredito minaccia di travolgere la politica con un onda d’urto non minore rispetto a quella di allora. Cafagna cercava di andare alla radice del problema: “Non perché non si rubi – questo in qualche misura avverrà, purtroppo, sempre – ma perché non si possa più costruire la politica stessa sulla base della eccitante possibilità di taglieggiare una base imponibile immensa”. I termini della questione sono parzialmente cambiati: quelle privatizzazioni e liberalizzazioni che Cafagna invocava sono in parte avvenute. Ma la radice del problema resta la stessa. E resta purtroppo scarsa la capacità della politica di aggredirla.
Un solo esempio basterà. Il Senato ha inviato mesi fa alla Camera un disegno di legge sulla lotta alla corruzione, recentemente tornato all’onore delle cronache. Bene. In quel disegno di legge, composto di molti articoli e di centinaia di commi, voi cercherete invano la parola “nomine”. Eppure, in tutti i casi di malaffare e corruzione politica esplosi in questi anni – sempre, senza eccezione alcuna – i “nominati” dalla politica (nazionale, regionale, locale) hanno avuto un enorme rilievo, sia nel creare le condizioni del fatto corruttivo, sia nel metterlo materialmente in atto.
Cosa spiega questa singolare assenza? In primo luogo, la riluttanza della politica a ridimensionare il campo dei suoi poteri di ingerenza nell’economia: è sempre più chiaro che una spesa pubblica superiore al 50% del Prodotto non trova giustificazione nei risultati conseguiti in termini di giustizia sociale e crescita economica; ma la tentazione che nasce da questa enorme massa di risorse resta irresistibile. Il rimedio è uno solo: proprio perché vogliamo difendere lo Stato sociale, meno spesa, su obiettivi più selettivi, e meno pressione fiscale sui produttori. Assieme agli altri vantaggi, ci saranno meno “nomine” da fare.
In secondo luogo, la debolezza della politica, che vuole mantenere potere di intervento ma non si dà strumenti di autocontrollo fondati sul principio di responsabilità: Tu, presidente del Consiglio, ministro, presidente di Regione o di Provincia, sindaco hai messo la tua firma sotto la nomina di chi si è rivelato un delinquente? A meno che non si dimostri una tua soggettiva partecipazione all’attività criminale del nominato, non c’entri nulla. La responsabilità penale è personale. E quella politica? Neppure quella c’entra, perché la firma sotto la nomina è tua, ma la proposta “veniva dal partito” o da un capo corrente dello stesso. Il rimedio? Far valere davvero l’autonomia del potere politico rispetto a quello della magistratura ordinaria o contabile: una proporzionata sanzione politica per il cattivo esercizio del potere di nomina.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *