Camillo Benso, un gatto in agguato

Dossier
Sommario

È la storia di un film che non si riesce a fare, perché il regista sospende ogni tanto la lavorazione, ha l’aria di un idealista tradito da sé stesso, sembra non sapere dove andare a parare, si lascia ispirare, distrarre e rimbrottare da alcune donne del cuore; gli attori non si sentono guidati, il produttore si ritiene preso in giro, i tecnici incalzano chiedendo direttive, gli sceneggiatori rompono querulamente le scatole. Poi, d’un tratto, qualcuno, come per caso, fissa un appuntamento di lavoro: allora, come d’incanto, tutti si mettono in movimento, al ritmo di una musica da circo, in un gran finale improvvisato. E fanno il film, trionfalmente. Il regista ha l’aria di dire che il film lo hanno fatto loro, tutti, non lui.
C’è del vero, come negarlo, ma è pur vero, al tempo stesso, che, invece, il film lo ha fatto lui, per quanto attori e collaboratori possano essere stati bravissimi e pieni di iniziativa. Sì, non sapeva dove sarebbe andato a parare, ma sapeva che avrebbe fatto un film, quel film, e un gran film. Tutti riconosceranno in questa metafora il riferimento a un classico della storia del cinema.
Bene, l’Italia è nata pressappoco in questo modo. E non ci si può meravigliare, dunque, che abbia avuto – e abbia ancora – delle difficoltà nel crescere.

Affermarsi con lentezza

E che, in certi momenti, le abbia avute anche nel sopravvivere. Ma che sia nata in questo modo non significa che quella vicenda sia stata priva di una regia e di un regista. Lo ebbe, invece, di grandi meriti e spiccata personalità. Fu Camillo Benso, conte di Cavour. Capo del governo del Regno di Sardegna (Piemonte, Savoia, Liguria, Nizza e Sardegna), uno dei sette Stati di cui si componeva allora l’Italia politica, che poteva chiamarsi Italia, soltanto come «espressione geografica», secondo la battuta pronunciata al Congresso di Vienna del 1815 dal Metternich, l’autorevole ministro del potente impero austro-ungarico.
Venne fuori sul campo, Cavour, strada facendo, e a poco a poco. Nel 1848 – quando l’Italia si svegliò e le sue «cento città» si accorsero, con sorpresa, di esistere insieme, con qualche problema comune di libertà, ma ancora e solo come municipi diversi – era poco più che nessuno. Poi, nel Piemonte che, mentre tutto tornava come prima dovunque dopo due anni di gran fiammata, aveva salvato lo Statuto concesso nel 1848 e il Parlamento eletto, Cavour cominciò a venir fuori come politico competente e – chiamiamo subito le cose con il loro nome – prepotente, prepotentissimo.
A Massimo D’Azeglio, che lo aveva chiamato come ministro nel gabinetto da lui presieduto, diede filo da torcere: insopportabile, invadente e arrogante primo della classe; fino a farlo fuori con uno strattone e mettersi al suo posto (ma l’altro, grandissimo signore, oltre che serena e lungimirante intelligenza, lo lasciò fare e, per il seguito, accettò sempre di collaborare con lui).
Pian piano, dopo aver fatto da giovane, e per circa quindici anni, un singolarissimo lungo giro per l’Europa, con una grande curiosità e passione per le cose europee, dell’economia e della politica di Londra e di Parigi, Cavour, dalle cose piemontesi cominciò a mettere le mani nella matassa italiana, da lui presa in considerazione appena prima del 1848. Una matassa che gli esiti del biennio rivoluzionario – il lungo Quarantotto – avevano lasciata assai ingarbugliata, con un filo solo, sottilissimo, appena percettibile, da potersi afferrare: quel Piemonte, appunto, rimasto l’unico luogo, in Italia, di indipendenza e, per i tempi, di libertà.
Durò dieci anni, circa, la storia di quella matassa da svolgere. Cresceva il groviglio e cresceva lui, Cavour, dando una mano al crescere del groviglio, con nuove matasse intorno, e cercando, al tempo stesso, di afferrarne il filo, di quel groviglio, e di tenerlo sempre stretto in mano, fra terremoti e burrasche, tradimenti e ripensamenti, impennate brusche di protagonisti estrosi e imprevedibili. Ma se il groviglio cresceva, a sgrovigliarlo, se ci si fosse riusciti, ci sarebbe stato più filo. Più successo. E più merito. E infatti alla fine ne venne fuori l’Italia.
La sua opera non fu l’attuazione di un progetto, di un piano. «Ogni piano, ogni progetto è inutile – dirà una volta Cavour al suo amico e collaboratore Michelangelo Castelli – tutto dipende da un accidente». Ed è allora, in quel momento, che «bisognerà prendere la fortuna per i capelli». Esser pronti. E capaci a farlo. E, altre volte, amerà ricordare che «la storia è una grande improvvisatrice». L’unico piano, in crescita nel tempo, e, via via, con l’incoraggiamento che il successo recava, era di aprire spazio al movimento, al mutamento, per poi intervenire in questo, e cercare di gestirlo al massimo. «In certi casi – ha scritto al riguardo Benedetto Croce – il movimento è tutto e il fine non importa, cioè nel movimento stesso è il fine, che prenderà a suo tempo le vie pratiche che potrà e sulle quali non giova almanaccare».

La storia improvvisatrice

Gli storici hanno sempre rimproverato a Cavour di avere una volta – si era già nel 1856 – chiamato «corbelleria» l’unità d’Italia (è in una lettera a Rattazzi del 12 aprile 1856, a proposito di Daniele Manin). Ma era «corbelleria» a cui anche lui aveva creduto da giovane e romantico o quando aveva scritto, già maturo, della funzione provvidenziale delle ferrovie; e in cui anche ora accettava di credere come fine, quando incoraggiava la «Società nazionale italiana» del Manin, anche se al momento la pensava utile solo per far convergere forze di sinistra sull’iniziativa piemontese.
Ora il suo dovere era distinguere fra il piano del romanticismo e quello dell’azione concreta e realizzatrice e lui si spazientiva di fronte a chi confondesse il secondo col primo. L’unità d’Italia, nel 1856, stava ancora tra i sogni. Quella parola non gli era sfuggita per caso. In essa – a intenderla bene – c’era tutto Cavour, settariamente pragmatico, ma pragmatico al punto da non porre mai limiti, come si suol dire, alla provvidenza.
Opera, quella di Cavour, improntata a un forte volontarismo realistico: tendere la corda, ma non spezzarla mai: attenzione! Cogliere tutte le opportunità, anche quelle non previste, stando costantemente come un gatto in agguato. Essere maître des évènements come gli pareva fosse ormai papa Pio IX (così disse, una volta, nel settembre ‘47, sbagliandosi), il quale papa, invece, si tirò poi indietro e non fu più maître di nulla. Tenerla stretta in mano la corda, ed evitare che finisse in quella d’altri: cioè – ed è questo il punto – di nessuno. Di nessuno, cioè, che fosse capace di gestirla fino in fondo, perché tanti potevano fare tante, e anche tantissime cose (come Garibaldi), intorno al «movimento» di quegli anni caldi, ma nessuno poteva fare questa: gestirla, cioè, fino in fondo. Portarla da qualche parte.
Si è usata spesso, a proposito del «Risorgimento» italiano (e, più in generale, per le cose d’Italia) la parola «miracolo». Si deve riflettere sul fatto, assolutamente paradossale, che, fra gli atout che maggiormente permisero il successo di quella «cosa» ci fu certamente questo: che non ci credeva nessuno, a cominciare da Napoleone III. Il contributo che il «masnadier di Francia» dalla «oscena guancia» – come anni dopo lo avrebbe dipinto, da buon italiano ingrato, il Carducci – diede alla causa italiana, e fu contributo grande, non l’avrebbe dato certamente se avesse appena appena creduto nella effettiva capacità dei suoi interlocutori di menare la nave in quel, secondo lui, irraggiungibile porto. «La besogne est au-dessus de vos forces» – disse pesantemente a Costantino Nigra, ed eravamo già nel luglio ‘60, negando poi, per soprammercato, con sprezzanti considerazioni, alla vicenda italiana anche un’eventuale capacità di alternativo esito rivoluzionario: «i vostri contadini – affermò quella volta, con chiara allusione al ben diverso esempio della Francia rivoluzionaria – non vogliono né fare i soldati, né pagare le imposte».

Un regista tra i kamikaze

Insomma, è come se il mitico e abusato «volo del calabrone», il volo che teoricamente, misure e calcoli alla mano, dovrebbe essere impossibile, divenisse, invece, possibile nella realtà, proprio perché nessuno ci crede. Come se da questa miscredenza derivasse misteriosamente al calabrone, una forza capace di sostenerlo in aria… Forse, azzardiamo una ipotesi, perché nessuno ne ha paura. Un film come quello che abbiamo evocato all’inizio, in realtà rischia di apparire un soliloquio. Pensava qualcosa di simile Piero Gobetti quando definì una volta il Risorgimento «soliloquio di Cavour»: è una definizione sconcertante e geniale.
Sconcertante perché pochi processi storici come il Risorgimento paiono, invece, teatro folto di protagonisti. Ma qual’è il punto? Molti sulla scena, ma nessuno, con la sola eccezione di quell’uomo, in grado di guidare la trama. Presuppone dunque, questa formula di Gobetti, il giudizio arditissimo, ma sostanzialmente azzeccato, che fuori di Cavour, tanto s’era certamente fatto, e tanto si poteva fare, ma non concludere qualcosa capace di stare e restare in piedi.
L’unificazione liberale fu certamente una vicenda assai complessa, nel corso della quale s’intrecciarono, come fattori attivi e passivi, elementi disparati, quali le disordinate e avventurose volontà di un’improvvisata élite democratica interna, a mezzo fra letteratura e politica, spesso eroica e persino kamikaze (non dovrebbero restare solo ricordi di scuola l’entusiasmo dei fratelli Bandiera, dei martiri di Belfiore, dei trecento di Pisacane…); e quali le ambizioni di una dinastia provincialissima, ma orgogliosa, come quella dei Savoia di Torino; ma anche, e moltissimo, le lesioni e le frane di vecchi regimi decrepiti.
Ma, proprio per tutto questo, per la molteplicità stessa dei fattori in gioco, per questo variegato concorso di forze e di scenari che doveva essere in qualche modo padroneggiato, quel film – ripetiamolo – il suo regista lo ebbe. Non c’era per nulla una previa sceneggiatura. Non c’era neanche un «soggetto» preciso. Solo un’«idea» il cui autore era Giuseppe Mazzini, uomo di volontà indistruttibile e tenace, ma che – fosse dipeso tutto da lui – sarebbe tranquillamente morto, continuando a perseguire infaticabile il suo disegno fino all’ultimo giorno, senza approdare in vita, a esito alcuno.
Il «gatto in agguato» – lo straordinario ministro piemontese – era, invece e però, pronto a raccogliere tutti i suggerimenti degli altri e delle cose, e a volgere tutte le opportunità a proprio vantaggio. E aveva, quell’uomo, il suo filo d’Arianna, che non era immediatamente quello della ricerca dell’intera unità d’Italia, ma, questo sì, il progetto di uno Stato italiano modernamente ordinato in senso liberale, orientato all’«Europa vivente» – come la chiamava in quegli anni Carlo Cattaneo.

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