La slavina infinita

Dossier
Sommario

La cosa che maggiormente colpisce chi si metta a rileggere oggi gli scritti di Luciano Cafagna prodotti agli inizi degli anni Novanta è che contengono passaggi e giudizi che sembrano avere ad oggetto non la crisi di vent’anni fa, ma quella che stiamo attraversando oggi. Non è una notazione per dire quanto Cafagna aveva lo sguardo lungo. E’ il rilievo di quanto in vent’anni la cultura politica italiana sia stata incapace di prendere in carico problemi che per chi aveva capacità analitiche e competenze storiche erano già stati individuati allora.
In realtà egli non ha affrontato in generale un discorso sui partiti, ma si è concentrato su due aspetti: il ruolo delle sinistre, socialista e comunista, nel sistema politico italiano; le caratteristiche che hanno spiegato la crisi della “repubblica dei partiti” come crisi dissolutiva del nostro sistema. Ad unire questi due filoni c’è un tema che ricorre in continuazione: la tragedia del riformismo in Italia, un’araba fenice che nella nostra storia rinasce continuamente dalle sue ceneri perché di esso si avverte il bisogno, ma che viene subito nuovamente bruciato dall’inguaribile predilezione che la nostra cultura ha per le “denunce”, più o meno fondate, e per i conseguenti “verdetti” da lasciare a futura memoria.
Fin dalla prefazione al suo libro C’era una volta Cafagna denunciava “il peculiare incrocio che da noi si forma fra una diffusa propensione al massimalismo anarchico ed estremista […] e un altrettanto diffuso desiderio di rifugio sotto guida autoritaria” (p. X-XI). Questa singolare simbiosi gli era apparsa come una caratteristica del comunismo italiano nella versione che ne aveva elaborato Togliatti. “Nato in un clima culturale prebellico antigiolittiano di critica estetico-moralistica della democrazia, Togliatti aggiunse a questa critica, attraverso l’esperienza postbellica, quella del massimalismo, il quale aveva aperto in Italia un vuoto di potere senza essere poi capace di occuparlo” (p. XII). Ed ecco la conclusione a cui giunge, che mi pare straordinariamente attuale: “La possibilità di giocare con la tradizione massimalistica, cercando di controllarla, ma usandola costantemente per ricavarne una accumulazione di risorse politiche è parte essenziale dello stile forgiato in 45 anni di storia del Pci. […] Nelle nuove condizioni il rischio forte è che un massimalismo sollecitato (operaio, studentesco, verde, pacifista o quel che sia) non risulti più controllabile per manco di briglia, e trascini esso il partito post-comunista alla deriva” (pp. XV-XVI).
Probabilmente quel che Cafagna diceva per il Pci sarebbe stato applicabile anche al suo grande antagonista, la Dc, che aveva anch’essa il suo massimalismo confessionale, con cui giocava spregiudicatamente senza poi poterlo tenere più a bada, finendo anch’essa vittima di altri che con lui potremmo definire “massimalismi sollecitati”.

Cafagna era però un uomo troppo attento a parlare solo di cose che conosceva bene e da una analisi di quel partito si ritrasse. Da bravo storico (e lo era davvero, con una sensibilità rimarchevole) egli prendeva le mosse da quell’inizio Novecento che ci ha trasmesso la preminenza del “partito degli intellettuali”, quelli che ci hanno lasciato una eredità pesante: “La rappresentanza, si potrebbe dire, è interamente sostituita dalla rappresentazione – il mito – che ne fa le veci” (p. 14). Che tutto questo si riversi nelle pagine di riviste più o meno dotte o nei talk-show più o meno strattonati delle TV forse non presenta così grandi differenze di fondo. Ciò che interessava a Cafagna era mostrare come alla fine questo approccio fosse diventato l’oppio della sinistra dominata dai comunisti, che erano riusciti a costruire un grande successo, ma “un grande successo rimasto – come dire? – ‘interno’ (interno alla opposizione, vissuta come universo autogratificante), non risoltosi mai, cioè, nell’accesso al governo del paese”.

Le risorse del Pci

Nel suo giudizio il Pci era stato abile ad acquisire per sé delle eredità politiche, da quelle del massimalismo socialista a quelle della cultura fascista dell’organizzazione politica, entrambe utilissime per il suo “radicamento”, ma anche per la sua espansione. Solo che il partito togliattiano non aveva usato quelle risorse per una battaglia frontale in vista della conquista del potere (certo difficile per il contesto internazionale), ma solo per farne strumento per l’accumulo di tutte le ulteriori risorse che venivano offerte dalle varie crisi in cui si sarebbe trovato immerso il paese. Tutto era giustificato come l’attesa di quella che, per sbrigarcela con una parola che egli non usa, sarebbe stata la mitica ora X. Solo che “la sua [del Pci] strategia, da attendista che era, diveniva una strategia di accumulazione di risorse politiche fine a sé stessa, che non attendeva più nulla” (p. 100).
Viene qui un passaggio che a me sembra centrale, perché riguarda un tema ancor oggi in campo: se lo stemperarsi dell’attesa della mitica ora X comportava una accettazione del contesto costituzionale democratico, bisognava però che questa trasformazione fosse giustificata in maniera da non entrare in contraddizione con quella “rappresentazione” che reggeva l’autonomia e l’autoreferenzialità del comunismo italiano. Ecco come Cafagna illustra questa evoluzione: “L’accettazione della democrazia in senso occidentale si è accompagnata sempre ad una ‘critica della democrazia’ di stampo marxista radicale, che finiva in copertura di fatto del marxismo-leninismo, e dunque dell’antidemocrazia. La pretesa di ‘occidentalità’ si accompagnava sempre a un feroce antiamericanismo da ‘scelta di campo’. La tiepidezza verso l’Urss si accompagnava sempre a una sdegnata difesa di quel paese e dei suoi satelliti dalle ‘calunnie’…” (p.101).
Era solo questo il Pci di Togliatti e dei suoi immediati eredi? Cafagna conosceva troppo a fondo quella storia per cadere in questa ingenuità. Egli sapeva bene che nel comunismo italiano esisteva un’anima, attiva sin dal 1956, che aveva un’idea diversa, ma che non sarebbe mai riuscita a diventare non dirò maggioritaria, ma neppure culturalmente egemone: l’anima che sarebbe stata etichettata come “migliorista”. Vediamo come descrive questo autentico dilemma del maggior partito della sinistra italiana: “Amendola proponeva in sostanza di contribuire immediatamente alla governabilità del paese, per avanzare una candidatura di accesso al governo. Berlinguer attese la catstrofe cilena e il 1973 per prospettare una mediazione più ampia, ma fu sempre esitante: il ‘compromesso storico’ aveva le stimmate del messaggio temporeggiatore togliattiano del 1954 (il ‘dialogo coi cattolici’). Sotto il decisivo profilo internazionale, la formula del ‘compromesso storico’ restava ambigua, si collocava a cavallo fra mondo occidentale e mondo comunista proprio in un momento nel quale stava per scatenarsi l’ultima grande offensiva diplomatico-militare sovietica. La crisi italiana degli anni Settanta parve offrire l’occasione di una conversione strategica radicale. Ma assai presto il successore di Togliatti e di Longo prese paura dei costi immediati di una conversione siffatta, ritornando alla prassi tattica delle tensioni manovrate” (pp. 113-114).

Il berlinguerismo di ritorno

Per capire a fondo questo giudizio, che non riguarda solo la figura storica di Berlinguer, ma a mio modesto avviso il berlinguerismo di ritorno che tuttora è vivo e vegeto, bisogna misurarsi con la valutazione che Cafagna ci fornisce “degli anni centrali e decisivi del mutamento italiano, dal 1956 al 1963”. Giustamente egli coglie la centralità e la creatività degli anni di preparazione al centro-sinistra, così come coglierà però già in essi i sintomi di ciò che ne determinerà l’insuccesso. Leggiamo ancora le sue parole: “ Per venire al disegno di Nenni – imporre in Italia il socialismo della democrazia – se questo fallì la causa non sta nel ‘sistema’. E non sta neanche nella democrazia cristiana, la quale fece la sua ovvia parte di resistenza, peraltro elastica, alla svolta che si proponeva. Sta in Nenni stesso e, specialmente, io credo, nella cultura della sinistra del suo tempo. E’ qui che bisognerà indagare. C’è, al riguardo, un conto in sospeso da tempo, che non sarà mai veramente saldato finché non si formerà nel nostro paese la nuova cultura sufficiente per farlo. Per la quale occorrono capacità intuitive (e queste sono in certa misura affiorate), ma anche nuove strumentazioni concettuali, una puntuale esperienza professionale sedimentata, che si faccia altresì mentalità ed ethos, e soprattutto una radicale inversione di senso dell’emotività politica, la quale tramuti una finora predominante passione dell’assoluto in una passione del relativo, che sappia davvero e concretamente il fatto suo”. Purtroppo, conclude Cafagna, “l’emotività politica prevalente è stata, in tutti questi anni, di segno nettamente anti-riformista” (pp. 118-119).
Il problema della debolezza, se non proprio dell’assenza di una cultura solidamente riformista è un tema che ricorre continuamente, e con partecipata passione, nella sua riflessione. Forse sottovalutava la presenza di un riformismo cattolico, sebbene anche per questo varrebbero molte delle osservazioni fatte per quello della sinistra tradizionale. In definitiva il problema era, come egli vide benissimo, la difficoltà di trovare la forza politica per le riforme. Il suo giudizio al proposito è netto: “Una democrazia parlamentare non sopporta trasformazioni implicanti gravi prezzi congiunturali: o meglio, può sopportarli, ma chi le vuole, le paga” (p.129).
Per legittimare e sostenere operazioni di quel tipo non bastava la “folta intellighenzia disoccupata e romantica” che ad un certo punto avrebbe potuto essere rappresentata dal disegno di Riccardo Lombardi. Credo che la rappresentazione che Cafagna ci dà di questo nodo sia ancor oggi, a più di vent’anni dalla sua stesura, quanto mai penetrante: “Il disegno lombardiano era quanto mai inadatto a quell’operazione già sufficientemente eroica e disperata. Ma Nenni non aveva in mano nient’altro. Il suggerimento di Saragat: ‘qui occorrono, case, scuole, ospedali’ era – bisogna dirlo (e chi non lo direbbe oggi?) – il suggerimento corretto. Aveva il solo difetto di venire da un pulpito puramente predicatorio e sterilmente saccente. Ma più gravi difetti aveva certamente in ogni caso, la cultura socialista che allora lo dileggiò. Non so cosa avrebbe potuto impedire alla finanza pubblica italiana non dissestata dei primi anni Sessanta di impostare una seria politica sociale di questo tipo, né perché la Democrazia Cristiana avrebbe potuto rifiutare questa condizione per l’ingresso socialista nel governo (necessario a una maggioranza stabile), né per quali ragioni il mondo degli operatori economici avrebbe dovuto provare panico per un siffatto programma. Certo, ci sarebbero stati illeciti arricchimenti, speculazioni sulle aree: che si sono verificati comunque o se ne è verificato l’equivalente da altre parti. Ma la svolta del centro-sinistra avrebbe significato per gli italiani qualcosa, che invece non c’è stato” (p. 130).

Il riformismo introvabile

Ecco il fattore centrale che, nell’analisi di Cafagna, continuerà a pesare sullo sviluppo italiano, sino a provocare quella che egli chiamerà, con felice trovata linguistica, La grande slavina. Il riformismo era debole e la cultura riformista della sinistra comunista, che aveva una sottile egemonia su tutto il progressismo intellettuale, ne aveva al più un’idea strumentale: se le riforme venivano fatte era per dare una momentanea soddisfazione alla classe operaia, ma esse erano sempre insufficienti a dichiarare un problema almeno sulla via di trovare una soluzione.
Per affrontare un mondo che nel frattempo era profondamente cambiato, perché era crollato il muro di Berlino con tutto quel che significava, sarebbe stato necessario avere una cultura riformista e la lontananza da essa di un partito come il Pci era davvero una “questione”: “Il centro che circondava Occhetto – nota Cafagna – era però composto di giovani rampanti, che continuarono ad andare, come se nulla fosse, a scuola di grinta, restando peraltro totalmente orfani di idee. L’ala modernizzante-riformista, all’interno, era stata quasi completamente delegittimata: per farla tornare fuori, obtorto collo, facendo del suo leader Giorgio Napolitano un personaggio forse decisivo per il futuro del paese, ci sarebbero poi voluti gli spintoni dall’esterno di mezza Italia…” (p. 15). Faccio notare che queste parole sono state scritte nel 1993.
E Craxi? Il giudizio che dà Cafagna sul leader socialista è severo: lo vede come un tattico, formidabile in questo ruolo, ma poco interessato alle politiche di “visione” (lo definirà icasticamente: “animale politico di radicate convinzioni ideologiche, ma rinascimentalmente amorale” p. 100). Inoltre è secondo lui un personaggio senza il carisma di “comunicare” con la gente, qualità indispensabile in chi voglia mettersi alla testa di una grande trasformazione. Ma di chi poteva essere la colpa del fallimento pressoché totale di quello che avrebbe voluto essere il disegno craxiano e che non doveva necessariamente coincidere con l’apoteosi del leader socialista? Cafagna non ha dubbi: a commettere “l’errore fatale” fu un Berlinguer spaventato “di fronte all’osso duro del «compromesso economico-sociale»”. Così “buttando in acqua l’ala del suo partito che verrà poi detta «migliorista», aveva rovesciato maldestramente la barca «in mezzo al guado» e fatto perdere dieci anni – forse gli ultimi anni «utili» che la storia lasciava a quel partito – a quella che venne chiamata la «lunga marcia» dei comunisti italiani”. E prosegue: “Se qualcuno «ha sulla coscienza» l’esperimento craxiano, questi è Berlinguer, o, se si vuole, il miope entourage che allora lo fece tornare indietro e che, dopo di lui, prese il controllo del partito. E’ agevole prevedere che se si fosse andati innanzi sulla strada indicata da Giorgio Napolitano, per il craxismo, nella migliore delle ipotesi, non ci sarebbe stato molto più posto, sulla scena politica italiana, di quanto ce ne è mai stato per lo strenuo e ottimo Pannella” (p. 101).
Tuttavia in questo caso ciò che lo interessa non è più un discorso sui partiti in sé, ma è un discorso sul sistema-Italia, che peraltro di necessità si basa ancora sui partiti, sebbene essi si dimostrino sempre più come fondamenta sulla via di cedere. Abbiamo così l’esame delle tre crisi del sistema, che sono quella fiscale, quella morale e quella istituzionale. Chiedersi se stiamo parlando solo degli inizi degli anni Novanta del XX secolo è una domanda oziosa.

Le tre crisi

Non ho competenze per entrare nel merito dell’analisi economica sulla crisi fiscale, ma la conclusione di questo capitolo è politica e merita di essere riletta: “E si determina inoltre un minaccioso cumulo di effetti: la crisi fiscale, per l’intermedio della nozione di spreco, riverbera le sue «cifre» sulla «questione morale», moltiplicandone la sensazione di specifica gravità finanziaria, e la questione morale, dal canto suo, delegittima i tentativi eventuali di azioni correttive del potere politico verso la crisi fiscale, aggravandone i termini” (p. 53).
Nel momento in cui deve affrontare Tangentopoli e la crisi morale, Cafagna scrive un passaggio interessante: “Il tema del finanziamento dei partiti è la grande omissione, potremmo anche dire la grande rimozione, della storia dei partiti e della storia delle democrazie. Invece di quella storia è parte integrante spesso, se non determinante – perché nessuno può togliere il loro posto alle motivazioni ideali e sociali – comunque decisiva, però, nel definire spazi di prospettiva e vincoli nell’azione delle forze politiche” (p. 54). Non c’è naturalmente alcun giustificazionismo per le deviazioni del sistema dei partiti. Al contrario Cafagna costruisce un’analisi che trovo estremamente interessante per spiegare le ragioni che stanno all’origine della voracità dei partiti in termini di risorse economiche. Si parte dalla constatazione che “agisce la peculiarissima storia della democrazia italiana, una democrazia «di frontiera», geopoliticamente e idealmente: una democrazia ansiosa e impaurita” (p. 62). Di che cosa? Ovviamente della sfida comunista, che nella forma partito ha ereditato dal fascismo il modello di presenza nella società come tramite necessario per trovare ascolto nella sfera politica.
Ovviamente c’è una peculiarità: “La presenza-partito nella società è ereditata dal fascismo, ma il senso del nuovo partito è diverso: quello era semmai vissuto come un mezzo per sentire più vicino lo Stato, questo è vissuto, invece, e addirittura come alternativa a uno Stato che ha fallito.” (p. 66). Tuttavia il Pci si impone come un polo di attrazione per la sua “bravura”, che “era proprio l’offerta effettiva, nel contesto italiano, di una risorsa avvertita come scarsa, o, se si preferisce, di un pacchetto di risorse scarse: la serietà, l’organizzazione, il senso della disciplina civica”. Ed ecco la conclusione che mi sembra di grande interesse: “ La partitocrazia – nelle forme che abbiamo poi conosciuto – è nata dalla sfida di quella «bravura» comunista alle altre forze politiche” (p. 67). Ecco dunque che “il partito organizzato è un piccolo Leviatano, che si aggiunge al grande, lo Stato.” (p. 70).
Per competere nel sistema italiano occorreva dunque essere in grado di esibire la capacità di essere “centrali” e di portare in campo “risorse”, ed essere anche in grado di esibirla con la massima visibilità in una “piazza” ormai ampiamente dominata dalla dimensione mediatica. Il partito socialista, nel momento in cui avesse voluto aspirare ad una centralità avrebbe dovuto essere in grado di portare ed esibire risorse, che non potevano essere, per motivi che non occorre spiegare in dettaglio, né quelle della “serietà” e del radicamento sociale comunista, né quelle della “mediazione sociale” e del radicamento cattolico. Craxi vide che non bastava più quella che Cafagna definisce la “politica del ricatto”, cioè la minaccia di far mancare il proprio sostegno alla coalizione governativa: occorreva qualcosa di più. Così Craxi “concepì un disegno diabolico: collocarsi come un ragno al centro della tela del finanziamento politico, ampliandola a proprio favore più rapidamente degli altri, in modo da farsene addirittura regista e redistributore. E diventare così definitivamente «centrale», indispensabile arbitro. Alla «centralità» del voto si sostituiva quella della «finanza politica»? La manomissione della democrazia diventava piuttosto robusta…” (p. 105).
Naturalmente questa evoluzione era favorita dall’espandersi dei centri di spesa a livello centrale e periferico, centri che la politica, anzi ormai i partiti in quanto tali, controllavano pienamente. Succedeva però che a questo punto la ricerca di risorse da parte dei partiti cambiasse di segno e per questo la questione diventasse inevitabilmente “morale”. Ecco come la spiega, con un passaggio davvero significativo, Cafagna: “Da una ipotetica formula di comportamento, nella quale si poteva ancora sperare, secondo cui la politica cercasse di procurarsi capitali per produrre migliore politica, si è praticamente passati a una formula di comportamento, secondo la quale il capitale raccolto dalla politica pare servire piuttosto a poter fare «più politica», sì, ma finalizzata pressoché unicamente a raccogliere «più capitale»…” (p. 109).
L’esame della terza crisi, quella istituzionale, sposta l’accento sui meccanismi di destabilizzazione del sistema, meccanismi che i partiti non sanno dominare ed a cui non sanno opporre nulla. Per Cafagna è “il 1968 l’anno fatale della fenomenologia della crisi istituzionale” (p.121), perché la “contestazione” che esso innesca e che si espande in settori diversi genera da un lato la strategia di quella che viene chiamata la “mediazione totale”, o la “coabitazione generale”, e che ha il suo perno nella Dc di Moro e Andreotti; e dall’altro lato mette in evidenza la “carenza dei poteri dello Stato” (p. 123), carenza che non può essere supplita dai partiti. In conseguenza, tramontato rapidamente il sogno di rispondere alla crisi con leadership più o meno carismatiche da insediare alla presidenza della Repubblica, si assisteva non a caso alla destrutturazione del mercato elettorale innescata dal fenomeno delle leghe nordiste interpretate principalmente come momenti di rivolta fiscale contro uno Stato che chiede molto e che nel redistribuire sperpera quel che ha raccolto.

La guerra dei poteri

Se tutti questi sono elementi di un quadro complesso, il suo centro focale per Cafagna è costituito dal fatto che “è scoppiata a un certo punto una vera e propria guerra civile fra i grandi poteri dello Stato” (p. 139). Era un rilievo inquietante, tanto più se consideriamo che tutto si inseriva in carenze dei poteri dello Stato (forse, mi permetto di dire, in guerra tra loro proprio perché timorosi della loro stessa debolezza): tanto che ciò apriva, come aveva scritto poco prima, spazi per poteri “oscuri”, tradizionali o nuovi che fossero: “E’ abbastanza evidente, comunque, da quel che si sa, che, nella carenza dei poteri dello Stato, altre forze si fecero avanti, con disparate intenzioni di approfittarne: oltre alle tradizionali forze della mafia siciliana e delle consorelle di altre regioni, comparve una nuova e singolare aggregazione massonica, incomprensibilmente non solo potente, ma numerosa, quella di Licio Gelli. E forse anche altro. Sappiamo oggi, meglio di ieri, che anche nei confronti di questi più oscuri «poteri» vi fu un atteggiamento «mediatorio»: si discusse, si trattò, si concesse” (p. 123); senza peraltro ottenere nulla ai fini della stabilizzazione del sistema.
Non stupisce ovviamente che, per un intellettuale civile come era Cafagna (e permettetemi di insistere sul “civile” anziché sul banale aggettivo di “impegnato”) la conclusione delle sue riflessioni fra storia e politica non potesse essere che propositiva, proprio a partire dal problema, che sente moltissimo, di “salvare i partiti dalla crisi della partitocrazia” (p. 162). La sua proposta non è affatto quella, assai popolare all’epoca (ma, temo, anche oggi) del vecchio mito della unità delle sinistre. La vedeva come una “armata Brancaleone” fino a chiedersi con durezza: “Ma la sinistra italiana, questo coacervo di massimalisti alla Libertini, di cattocomunisti provvidenzialisti, di verdi anti-sviluppo, di populisti ingraiani, di post-comunisti ricattati a sinistra, di rinate frange social frontiste desiderose di nuova verginità, con pochi superstiti «miglioristi» o liberalsocialisti, come diamine potrebbe affrontare mai i problemi della crisi fiscale? Dove troverà la cultura per cercar di recuperare, con la crisi fiscale, un nuovo e «viable» Welfare State invece di produrre, riesumando i classici della sinistra d’antan, inflazione a due cifre, fuga dei capitali, arresto dello sviluppo e disastrosi deficit di imprese di Stato gravate da occupazione fittizia?” (p. 147).
Cafagna non si aspetta soluzioni a colpi di bacchetta magica e non crede al miracolismo della riforma elettorale “che è stata, sotto il profilo della cultura politica (…), la scardinante illusione di panacea che ha aiutato tanti intellettuali a infilarsi gioiosi nella slavina che stava rotolando a valle, riuscendo miracolosamente a sguazzarci come bambini, che continuino a fabbricare pupazzi di neve” (p. 158). Per lui è venuto il tempo ormai di “inaugurare una (sua) nuova stagione, quella della liberazione dal massimalismo” (p. 162). La sua proposta operativa è quella di una nuova formazione che denomina “Alleanza per il rinnovamento democratico” per cui fissa questo scenario: “La questione morale è oggi questione di superamento della delegittimazione e come tale va affrontata, con atti forti, credibili ed efficaci, nel contesto di una grave crisi finanziaria e di una crisi politica che minaccia da vicino, ormai, la possibilità stessa di una maggioranza parlamentare. Per ritrovar la legittimazione occorre trovare una unità nuova di tutte le forze della democrazia, che prenda atto della fine storica di vecchi steccati ideologici e renda possibile un’alleanza per la difesa della unità nazionale, per la riforma politica, per il risanamento economico.” (p. 163).
Naturalmente si può discutere quanto con questa prospettiva Cafagna si fosse lasciato andare a sua volta ad un sogno, allontanandosi dalla severa analisi della storia e della situazione politica dell’Italia che, come si è visto, lo aveva impegnato. Tuttavia a conclusione, e per sottolineare quanto alla fine rimanesse forte in lui la vocazione allo sguardo analitico vorrei citare una frase quasi conclusiva del volume che abbiamo analizzato e che mi sembra terribilmente attuale: “Ma il grande problema della governabilità non può però cadere dalla padella nella brace. L’Italia non può essere messa nella condizione di dover rimpiangere (e si fa presto a finire nel rimpianto, bastano due anni di caos) i vecchi lupi di mare della partitocrazia.” (p. 173). Sapeva anche troppo bene, lui così attento ai movimenti della pubblica opinione e gran conoscitore dei contorcimenti del mondo degli intellettuali militanti (quasi tutti, chi più chi meno), che circolava una allegra incoscienza demolitoria verso quella “mostruosa Chimera” a cui si era dato il nome di “sistema”, nella illusoria convinzione che la “alternativa” (comunista? di sinistra?) sarebbe nata per incanto dalle macerie di quel “sistema” così a lungo dileggiato. Quella illusione “se non era l’oppio dei popoli, almeno era un discreto spinello per tanti intellettuali, li aiutava a vivere” (p. 185).
Vale la pena di riportare ampiamente un passaggio conclusivo del ragionamento di Cafagna, passaggio molto citato e meritatamente famoso: “I due tipi di irritazione [verso la nostra decadenza politica] – quella dei semplici e quella dei colti – si incrociano e si potenziano a vicenda. Televisione e pagine di giornali, magistrati e giornalisti alimentano, consapevolmente o inconsapevolmente, un fuoco che potrebbe radere al suolo la nostra polis, la città della nostra convivenza organizzata. Questi nuovi picconatori si sentono incoraggiati dagli effetti di sovraeccitazione che le loro campagne provocano. E rincarano la dose. Sembrano non sapere che la denuncia e l’indignazione sono come la stricnina: in piccole dosi la si usa addirittura come ricostituente, ma, in dosi ulteriori, puramente e semplicemente uccide. Bisognerebbe fare un esame di coscienza e fermarsi in questa rincorsa distruzionistica. Chiamo «distruzionismo» l’atteggiamento di chi finge di credere, o magari crede, che il piccone sia anche cazzuola, calce e mattone. Un aggeggio simile non è ancora stato inventato. Tra distruzione e ricostruzione ci sono di mezzo lacrime e sangue, morti e feriti, anni di stenti e di fame. Di più: la distruzione è certa, la ricostruzione no. Ma veramente abbiamo peccato tanto da doverci meritare tutto questo? Non è mai successo che la distruzione provochi d’incanto la ricostruzione. Può crederlo, al massimo, una cultura della rivoluzione, incurante delle dure repliche della storia” (pp. 185-186).
Allora, quando venivano scritte queste righe era il 1993. Ci rivelano come per coloro che uniscono la sapienza nello studio del passato con la passione nell’analisi del presente il tempo sia una dimensione complessa da penetrare con consapevolezza.

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