Il regista dell’Unità

Dossier
Sommario

Ricorderò alcune parole di Cafagna in apertura del suo Cavour nella introduzione per l’ultima edizione, e che mandò a Reset, nella nuova versione, per il numero del maggio-giugno 2010, in vista del 150° dell’Unità. In questa introduzione di un’opera già ben conosciuta, e che merita di diventare celebre – perché Luciano vi dispiega la sua capacità di sintesi, la sua ironia e la sua prosa tagliente – la storia dell’Unità d’Italia vi viene presentata come «la storia di un film che non si riesce a fare, perché il regista sospende ogni tanto la lavorazione, ha l’aria di un idealista tradito da se stesso, sembra non sapere dove andare a parare […] Gli attori non si sentono guidati, il produttore si ritiene preso in giro, i tecnici incalzano chiedendo direttive, gli sceneggiatori rompono querulamente le scatole. Poi, d’un tratto, qualcuno, come per caso, fissa un appuntamento di lavoro: allora, come d’incanto, tutti si mettono in movimento, al ritmo di una musica da circo, in un gran finale improvvisato. E fanno il film, trionfalmente. Il regista ha l’aria di dire che il film lo hanno fatto loro, tutti, non lui»: e in questo «c’è del vero, come negarlo, ma è pur vero, al tempo stesso, che, invece, il film lo ha fatto lui, per quanto attori e collaboratori possano essere stati bravissimi e pieni di iniziativa. Sì, non sapeva dove sarebbe andato a parare, ma sapeva che avrebbe fatto un film, quel film, e un gran film».

Il riferimento è ovviamente a Fellini e al gran finale di Otto e mezzo. «Bene, – dice Cafagna – l’Italia è nata pressappoco in questo modo. E non ci si può meravigliare, dunque, che abbia avuto – e abbia ancora – delle difficoltà nel crescere […] e anche nel sopravvivere”. Aggiungerò che il Cavour di Cafagna è quel Cavour che nel 1848 – quando l’Italia si svegliò – era poco più che nessuno, e che in pochissimo tempo venne fuori «come politico competente» e non solo, anche «prepotente, prepotentissimo», al punto da risultare «insopportabile, invadente e arrogante primo della classe», almeno secondo Massimo D’Azeglio, che l’aveva chiamato al governo, e che era stato poi da lui fatto fuori. Era quel Cavour che «più cresceva il groviglio e più cresceva lui, dando una mano al crescere del groviglio, con nuove matasse intorno, e cercando, al tempo stesso, di afferrarne il filo» per farne venire fuori alla fine l’Italia. Ed era quel Cavour la cui opera «non fu l’attuazione di un progetto, di un piano. ‘Ogni piano, ogni progetto è inutile – dirà una volta Cavour al suo amico e collaboratore Michelangelo Castelli – tutto dipende da un accidente’».
Era anche quel Cavour cui hanno sempre «rimproverato di avere una volta – si era già nel 1856 – chiamato ‘corbelleria’ l’unità d’Italia (è in una lettera a Rattazzi del 12 aprile 1856, a proposito di Daniele Manin). Ma era ‘corbelleria’ a cui anche lui aveva creduto da giovane e romantico». Quel Cavour la cui politica fu improntata a «un forte volontarismo realistico: tendere la corda, ma non spezzarla mai: attenzione! Cogliere tutte le opportunità, anche quelle non previste, stando costantemente come un gatto in agguato». Quel Cavour, infine, che rappresenta con il suo agire felino la conferma che il nostro Risorgimento è stato un «miracolo». Che è potuto accadere proprio perché, paradossalmente, «non ci credeva nessuno, a cominciare da Napoleone III. ‘La besogne est au-dessus de vos forces’ – disse pesantemente a Costantino Nigra, ed eravamo già nel luglio ’60».
L’Unità d’Italia è stata dunque, grazie a “quel Cavour”, un’impresa simile al «volo del calabrone» che «è possibile nella realtà, proprio perché nessuno ci crede». Cafagna non manca di riconoscere il merito a quelli che chiama, sommariamente i kamikaze (e che – aggiunge – non dovrebbero restare solo ricordi di scuola: i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, i trecento di Pisacane). Anche loro hanno avuto dei meriti, e va riconosciuto il loro eroismo. Sono anche loro, aggiungo, parte di quella minoranza di eroi di cui parlava Gobetti, e ai quali soli si deve quel che di buono accade in Italia, una minoranza che si distacca nettamente dal gran fiume dell’andazzo corrente. Così come va riconosciuta la forza della idea di Italia, il cui autore era Giuseppe Mazzini, anche lui uomo dalla volontà indistruttibile e tenace, ma che, «fosse dipeso da lui – nota con qualche crudeltà Cafagna – avrebbe perseguito il disegno per tutta la vita senza approdare a esito alcuno».
Il «gatto in agguato» – lo straordinario ministro piemontese – era pronto a raccogliere tutti i suggerimenti degli altri e delle cose, e a volgere tutte le opportunità a proprio vantaggio. Cavour aveva il filo d’Arianna, «che non era immediatamente quello della ricerca dell’intera unità d’Italia, ma, questo sì, il progetto di uno Stato italiano modernamente ordinato in senso liberale, orientato alla ‘Europa vivente’, come la chiamava in quegli anni Carlo Cattaneo».
L’esito di quelle vicende ebbe bisogno (come sottolineato dal presidente della Repubblica nel discorso del 17 marzo del 2011, un discorso che sembra raccogliere molto della ispirazione di Luciano Cafagna) di un gruppo di protagonisti «di eccezionale levatura», una «formidabile galleria di ingegni e di personalità – quelle femminili fino a ieri non abbastanza studiate e ricordate – di uomini di pensiero e d’azione», tra i quali spicca con evidenza «la suprema sapienza della guida politica cavouriana, che rese possibile la convergenza verso un unico, concreto e decisivo traguardo, di componenti soggettive ed oggettive diverse, non facilmente componibili e anche apertamente confliggenti», una funzione dirigente che era animata da una visione di orizzonte europeo, e dalla comprensione che una prospettiva ampia e inclusiva dell’Italia unita corrispondeva all’ideale del movimento nazionale e si trovava di fronte a una realistica possibilità di andare a compimento. Una possibilità consentita dal suo stesso essere l’espressione di «una classe politica moderata e la guida politica di una monarchia, la sabauda, e di uno Stato che era nelle condizioni italiane il più avanzato ed aperto».
La storia controfattuale
A Cafagna il filo sottile della storia italiana appariva, per quello che era, davvero sottile. Esso poteva apparire solido e scritto in ineluttabili destini soltanto nella retorica, di qualunque genere: quella che celebra i fatti a posteriori, come necessitati da una trascendente filosofia della storia. Non è così nella storia che vuole restituirci l’intelligenza dei fatti nelle loro difficoltà, nella loro stessa improbabilità, quali apparvero ai protagonisti. E il filo della vicenda risorgimentale era esile, esilissimo, esposto a molteplici possibili fallimenti. Rileggendo il suo Cavour non mi stupisce che Cafagna si sia prestato con convinzione e con passione all’esercizio di storia controfattuale cui lo abbiamo sottoposto a Reset per un piccolo volume, curato da Pasquale Chessa, e uscito l’anno scorso, Se Garibaldi avesse perso. Vi partecipò con un tale impegno da farmi pensare che ritenesse l’esperimento controfattuale come consustanziale al lavoro dello storico. Una opinione che altri discutono, ma che lui mi ha confermato nelle ultime settimane della sua vita, quando, anche per la sua insistenza, ho accolto l’idea di Alberto Benzoni di riunire episodi di una Controstoria del Novecento, alla quale lo stesso Cafagna ha partecipato con il contributo sull’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, (Se Togliatti non fosse sopravvissuto), che è anticipato nel numero corrente di Reset (129, marzo-aprile 2012).
L’analisi controfattuale offre l’occasione di enfatizzare un aspetto della ricerca storica – quello che Isaiah Berlin chiamava il «senso della realtà» – che spinge non solo a ricostruire con la massima accuratezza il contesto obiettivo e soggettivo degli eventi, ma a cercare quella visione d’insieme della inafferrabile varietà di colori e ombre di ogni evento che costringe a guardare con gli occhi dei protagonisti le possibilità effettive, le svolte possibili, le scommesse necessarie, a soppesarne le difficoltà e imprevedibilità, a ponderare le alternative che nella realtà si presentano nel momento dato come possibili. Proprio come accade a noi nel nostro presente. Un presente sul quale Cafagna aveva ancora molto da dire. Rileggendo infatti i suoi contributi (di cui è stato generoso in questi anni con Mondoperaio, con Reset, con Le Ragioni del Socialismo), e ripensando alle conversazioni con lui, ho pensato a quanto preziose fossero le sue illuminazioni e i suoi consigli su tanti aspetti e tanti ricorrenti problemi della politica italiana: e a quanta intelligenza abbia dedicato alla sinistra, alle sue divisioni, ai suoi eterni tormenti.
Certo il suo Cavour riassume in sé molto del suo insegnamento sulla politica. Ed è certo che ritrovarsi oggi a dire che «ci vorrebbe un Cavour» per tirarci fuori dall’impasse è qualcosa che somiglia al detto disperato di Heidegger «solo un Dio ci salverà»: l’equivalente di un miracolo. L’impresa di Cavour fu poco meno di questo, per il modo in cui riuscì a trasformare in oro i metalli che aveva a disposizione attraverso il valore aggiunto della sua arte politica, arte combinatoria dei particolarismi, virtù dello stare in equilibrio tra i narcisismi altrui senza far pesare il proprio: usare l’orgoglio e la forza di Garibaldi, ma non al punto di mettere in difficoltà il Re, e viceversa; veder chiaro un disegno senza farsene distogliere dalle tempeste della cronaca; trovare un varco nella congiuntura internazionale; giocare la propria grande partita usando le risorse della mediazione. Cose di cui si continua ad avere bisogno nella congiuntura presente. C’è da augurarsi che questo perdurante desiderio di un «miracolo» funzioni da stimolo alla creatività politica, scateni i talenti capaci delle più difficili soluzioni. Gli sviluppi recenti della vita politica nazionale stanno a dire che, di fronte a grandi pericoli, le risorse politiche si affacciano per vie imprevedibili: con la conseguenza che anche questa volta potremmo farcela, a dispetto delle previsioni più pessimistiche.

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