Bennett al capolinea. Biden prepara
la visita in un Israele senza governo

Il Paese torna al voto il 1° novembre. Bilancio di un anno di "coalizione impossibile"

La visita del presidente statunitense Biden in Medio Oriente, prevista per il periodo compreso tra il 13 e il 16 luglio, doveva avere tra i propri obiettivi prioritari la volontà di riaffermare il valore della special relationship e il saldo appoggio dell’Amministrazione USA ad ogni governo israeliano, ma in particolare al “governo del cambiamento”, esecutivo nato dalla coalizione di otto partiti che nel 2021, dopo quattro tornate elettorali, avevano unito le forze per impedire una riconferma del premier uscente, Benjamin Netanyahu. Ma il governo del cambiamento, dopo aver faticosamente festeggiato un anno, è imploso appena un mese prima che il viaggio di Biden in Medio Oriente si concretizzasse: oggi 30 giugno il Parlamento ne ha preso atto votando all’unanimità la sua auto-dissoluzione. Ancora prima che questo accadesse, due eventi  avevano già compromesso la piena riuscita della visita di Stato USA ai massimi livelli: l’omicidio della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh e l’annuncio da parte del Supremo consiglio per la pianificazione dell’Amministrazione civile israeliana, responsabile dell’amministrazione dei Territori Occupati, della costruzione di altre 4.427 unità abitative nelle colonie, tra cui alcune edificate nel cuore della Cisgiordania, come Shvut Rachel, oltre alla retroattiva legalizzazione di avamposti spontanei come  Mitzpe Danny, Mitzpe Lachish e Oz we Gaon.

Tali decisioni, non ostacolate dal premier uscente Bennett, testimoniano la crescente difficoltà del presidente Biden, così come di qualsiasi altro presidente USA, di riaffermare la centralità della soluzione a due Stati, di fronte a governi israeliani che, senza remore diplomatiche, si schierano alternativamente o palesemente contro la ripresa di un processo di pace o, come l’attuale governo, a difesa dello status quo per mancanza di coesione politica interna. È probabile, dunque, che il messaggio su cui Biden si concentrerà nella sua prossima visita non riguarderà più il rapporto coi Palestinesi, sul quale non è possibile registrare alcun avanzamento e su cui potrebbe limitarsi ad una dichiarazione di principio sul rispetto del diritto internazionale, ma la necessità di estendere e approfondire ulteriormente gli Accordi di Abramo, potenzialmente aperti ad altri Paesi arabi della regione, e soprattutto all’Arabia Saudita, successiva tappa del viaggio del Presidente democratico nella regione.

È infatti soprattutto quest’ultima destinazione che potrebbe costituire il fulcro della visita di Biden: il presidente Democratico potrebbe negoziare con Riyadh gesti simbolici di apertura verso Israele, come l’apertura dei cieli sauditi al sorvolo di aerei civili israeliani, in cambio di contropartite molto concrete come la vendita al Paese di armi USA per la difesa anti-missilistica da attacchi degli Houthi dallo Yemen, il trasferimento ufficiale delle isole Sanafir dall’Egitto a Riyadh con il beneplacito formale di Israele e la tacita promessa di un pieno reintegro di Mohammed Bin Salman nella comunità internazionale.

La promessa che Biden non è nella misura di mantenere, tuttavia, è quella di un massiccio impegno militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, sostituito dalla volontà bipartisan USA di consegnare la cabina di regia degli affari regionali ad un consorzio responsabile di Paesi uniti dagli Accordi di Abramo intorno al progetto di stabilizzazione dell’area, quanto pronti ad affrontare autonomamente le minacce rappresentate dalle potenze revisioniste. Una stabilità regionale che dovrebbe idealmente ruotare intorno alle tre potenze dell’area tradizionali alleate degli Stati Uniti, Egitto, Israele e Arabia Saudita, con quest’ultima chiamata a contribuire attivamente a quest’architettura di sicurezza non più soltanto dal punto di vista economico, ma crescentemente anche da quello politico, con interventi mirati a stabilizzare l’Iraq, dare ossigeno all’economia libanese, accogliere profughi regionali e afghani, mediare in conflitti come quello del GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam) tra Etiopia, Sudan ed Egitto, nonché aumentare la propria produzione di petrolio per far fronte all’aumentata domanda mondiale dopo l’imposizione del boicottaggio di gas e petrolio russi. In definitiva, in assenza di un governo israeliano stabile, il viaggio del Presidente USA potrebbe puntare alla stipula di un accordo strutturale con Riyadh e a una foto-ricordo con il Presidente palestinese Abu Mazen, per seppellire il “Piano di pace del secolo” ma anche la temporanea deviazione degli Stati Uniti dal rispetto formale delle Risoluzioni ONU.

Israele, nel frattempo, vedrà dal 1° luglio la formazione di un governo ad interim guidato dal leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, che non godrà di pieni poteri e non potrà dunque pronunciarsi, in continuità con il governo del cambiamento appena conclusosi, sulla soluzione a uno, due o tre Stati. Oltre a non poter prendere alcuna decisione strategica oltre all’amministrazione degli affari correnti, Lapid non avrà nessun interesse a farlo, sapendo di dover fronteggiare nelle elezioni fissate per il prossimo 1° novembre un blocco di destra a guida Netanyahu coeso ed omogeneo, saldamente arroccato su posizioni ultranazionaliste, tanto da poter potenzialmente rilanciare il progetto annunciato nella campagna elettorale di Netanyahu del 2019, ma poi non realizzato, dell’annessione dell’area C della Cisgiordania. Per fronteggiarlo, la coalizione di centro avrà bisogno di spostarsi a destra e conquistare parte di quell’elettorato deluso dall’implosione di Yamina, il partito del Premier uscente Naftali Bennett, vittima collaterale del processo di dissoluzione del governo di coalizione.

 

Genesi di una crisi

Il collasso del governo uscente è infatti stato decretato dallo sfaldamento del partito di governo del premier, che pur contando solo sette seggi, aveva ottenuto la leadership grazie alla sua funzione di ago della bilancia nella formazione della coalizione nel 2021. È stata infatti proprio una deputata di Yamina, Idit Silman, ad annunciare due mesi fa la propria diserzione dal partito e dal governo, invocando a giustificazione le pressioni di famiglia e conoscenti nei suoi confronti, che non avrebbero accettato il progressivo abbandono dei “tradizionali valori patriottici” della destra da parte della coalizione, mettendo il governo in minoranza e innescando una serie di defezioni interne alla coalizione. Altri compagni di partito, tra cui il deputato Amichai Chikli, che avrebbe apertamente votato contro la coalizione di governo, e il responsabile degli affari politici della Knesset, Nir Orbach, l’avrebbero seguita nei giorni successivi per motivi simili.

Infine una deputata di Meretz, partito della sinistra sionista, e un deputato di Ra’am, partito arabo-islamista attualmente incluso nella coalizione di governo, avrebbero simbolicamente affossato il voto per l’estensione della legislazione israeliana ai coloni residenti oltre la Linea Verde: un voto routinario di rinnovo della legislazione straordinaria vigente sui Territori occupati, il cui rinnovo è necessario ogni cinque anni, che generalmente si traduceva in un’azione rituale, ma che questa volta ha rischiato seriamente di non trovare una maggioranza pronta a sostenerlo, con il rischio di creare, per la prima volta nella storia di Israele, uno spartiacque tra cittadini ebrei residenti nei territori legalmente detenuti da Israele e non. Molti commentatori di parte israeliana ritengono, infatti, che sia stato proprio quest’ultimo rischio incorso dalla coalizione a far gettare al premier Bennett la spugna, temendo di poter passare alla storia come il primo leader israeliano – per di più paradossalmente proveniente da un partito ultranazionalista – responsabile di aver abbandonato i coloni ad un limbo giuridico.

Testimone della dissoluzione del suo partito, Bennett ha dichiarato di voler abbandonare la politica per qualche tempo e di non intendere ricandidarsi alle prossime elezioni. E tuttavia il suo governo avrebbe avuto più di un risultato concreto da rivendicare, tra cui: la stabilizzazione dell’economia post Covid-19, il successo e l’ampia copertura della sua politica vaccinale, il mancato reintegro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), pur nel mantenimento di ottime e costruttive relazioni con Washington, la relativa quiete sui confini e nella Striscia di Gaza con Hamas e Hezbollah e, infine, la dimostrazione di unità politica tra diversi segmenti e anime del Paese che si erano dilaniate fino al 2020.

 

Eredità politica incerta

Nondimeno, il vero progresso per cui il Governo del cambiamento passerà alla storia sarà la scelta sorprendente – anche se obbligata, in quanto imposta dai numeri elettorali – di includere un partito arabo nella coalizione di governo. Uno sviluppo che potrebbe rivelarsi un lascito duraturo nella politica israeliana se i Palestinesi di Israele, reputando positiva l’attività di governo svolta da Ra’am – nonostante la sua breve autosospensione di tre settimane dalla coalizione in protesta alla dissacrazione della Spianata delle moschee durante lo scorso Ramadan – premiassero il partito con un buon sostegno elettorale e, soprattutto, affluendo in massa alle prossime elezioni. I motivi per una partecipazione di massa vi sarebbero tutti, e, in primis, quello di contrastare il possibile avvento di un nuovo governo ultranazionalista e xenofobo, suscettibile di rappresentare le forze più retrive dello spettro politico israeliano, come i nazionalisti-religiosi Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

Un tale governo, come già preannunciato dallo stesso leader Netanyahu, si farebbe paladino di un nazionalismo stretto (Michael J. Koplow, Israeli Policy Forum, 26 maggio 2022), imperniato su un’accezione restrittiva – in quanto limitata ai soli ebrei – ed ideologica dello Stato e, dunque, predisposto ad azioni dimostrative e provocatorie come la strenua difesa di ogni singolo avamposto illegale, fosse anche il più sperduto ed irrilevante geopoliticamente, l’esaltazione della legge sullo stato-nazione del 2018 come principio di superiorità ebraica e l’organizzazione della marcia nazionalista della Giornata di Gerusalemme lungo l’irritante tracciato che ogni anno raggiunge il Muro del Pianto attraversando il quartiere musulmano della Città Vecchia per ribadire plasticamente i rapporti di forza tra Israeliani e Palestinesi. Uno scenario regressivo che la società araba di Israele avrebbe tutto l’interesse a eludere, se solo si convincesse – cosa non scontata – che la sua forza elettorale non solo può rivelarsi determinante ad ottobre, ma deve ormai aspirare a concludere patti di governo sempre più avanzati ed inclusivi della componente araba.

Un percorso virtuoso inaugurato, con fortissimo pragmatismo, da parte di Ra’am, ma che dovrebbe riguardare anche la Lista Araba Unita o alcune delle sue componenti interne, come Hadash di Ayman Odeh, vero e proprio iniziatore di una politica di apertura ai governi sionisti nel 2019: un’aspettativa poi tradita dall’allora leader del Partito dell’opposizione Benny Gantz, che all’inclusione dei partiti arabi preferì allearsi con il rivale Netanyahu. Se l’affluenza elettorale araba tornasse ampia come nel 2020 (64,8% contro il 44,6% del 2021), la minoranza potrebbe nuovamente portare alla Knesset circa 13 seggi, ponendosi come un blocco insormontabile per la formazione di una nuova coalizione di governo.

Forse è troppo presto per leggere e interpretare i sondaggi politici – che ad oggi assegnano a Netanyahu un blocco tra i 59 e i 60 seggi e all’opposizione circa 54 (Kan, giugno 2022) -, soprattutto in considerazione del fatto che tali sondaggi riguardano blocchi che non si sono ancora schierati in elezioni non ancora formalmente convocate; tuttavia i partiti arabi dovrebbero valutare come poter sfruttare l’attuale stallo politico israeliano a loro favore, strappando una centralità che nessuna forza sionista avrebbe mai voluto loro concedere, ma che ora si potrebbero conquistare da soli, sfruttando dall’interno le divisioni della maggioranza ebraica, qualora decidessero di partecipare in massa e senza esitazioni al gioco difficile ma sempre vincente della democrazia.

 

Foto: Il premier uscente Naftali Bennett insieme a quello entrante (ad interim) Yair Lapid (Gali Tibbon / AFP).

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