LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Beat! Beat! Beat! Urrà!

Si torna a parlare della Beat Generation, grazie alla mostra fotografica «Beat Generation. Ginsberg, Corso, Ferlinghetti. Viaggio in Italia» a cura di Enzo Eric Toccaceli, allestita fino al 2 aprile nella Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea di Roma diretta Cristiana Collu. Circa 200 fotografie, tutte inedite e acquisite dalla Galleria Nazionale: sono immagini in bianco e nero che sono state realizzate da Toccaceli a cominciare dal 1979 (quando al Festival Internazionale dei Poeti a Castelporziano incontrò di persona i tre poeti) fino agli anni 2000. Tra le immagini, molte ritraggono Fernanda Pivano accanto a Ginsberg, Corso e Ferlinghetti: la scrittrice fu tra i primi in Italia a parlare del movimento Beat, oltre a essere amica e traduttrice dei tre autori, e l’idea della mostra ha preso avvio nel 2017, nel centenario della sua nascita e nel ventennale della scomparsa di Ginsberg.  Sulla Beat Generation si propone uno stralcio della nostra analisi contenuta nel volume «Visioni americane» (Adda ed.)

Pivano e Ginsberg, fotografati da Toccaceli, in mostra alla Galleria Nazionale di Roma

 

I Beat e l’arte della manutenzione di sé

      On the road, again. Sulla strada, come la Beat Generation, che, «legittimata» dalle teorizzazioni estetico-mistiche della scuola di San Francisco[i] (che in verità oggi appaiono abbastanza inconcludenti[ii]), realizza una rivoluzione geo-sentimentale, riportando cioè il l’orizzonte simbolico americano alle sue origini, a un’esigenza di rapporti tra individuo e ambiente, a bagliori di innocenza perduta nel fondo delle troppe bottiglie scolate e delle allucinazioni da festival narcotico. La Beat Generation, nelle sue valenze più sociologiche che letterarie, riesce, infatti, ad articolarsi come un sistema culturale sfaccettato ma abbastanza «coerente», profittando dell’anarchismo, del sincretismo di un mercato culturale, allora come oggi alla costante ricerca di nuovi prodotti (moda, musica, cibo, viaggi «alternativi»). Un sistema culturale, quello beat, mai egemone, eppure a lungo pervasivo in America e in Europa[iii]. È il sistema dell’anti-sistema che si dispiega dal cinema al rock, dalla contro-cultura hippy alla sessualità, dall’ecologismo all’antipsichiatria: critica della razionalità, fuga dalla metropoli e ricerca di una nuova arcadia, contestazione dell’industria militare e della tecnologia, che pure prenderà le mosse dall’ipertestualità “lisergica” di certe visioni multiple dei Beat. È la crisi dell’american way of life, ma è anche l’ossessiva ricerca del benessere individuale, la cultura del narcisismo diffuso di cui scrive Christopher Lasch[iv].

Tom Wolfe definisce icasticamente gli anni Settanta «il decennio del sé», che custodisce e promuove una New Age suggestionata dalla meditazione, dallo zen (e «dall’arte della manutenzione della motocicletta»[v]), dal buddhismo, dalla fitness cara a Jane Fonda.

«Il timore della società nei confronti delle strade», di cui parla Stanford Anderson[vi] – già tradizionalmente minato nella storia americana dalla «frontiera mobile» di Turner, da una «mobilità obbligatoria»[vii] – si sgretola con la Beat Generation. Nel più celebre romanzo di Jack Kerouac, «vangelo» sulla strada per almeno una generazione, è ripetuto che «la strada è vita», che «la strada è fatta apposta per farci girare il mondo»[viii]. È una vita con l’anima metallica dell’automobile, che avrebbe fatto la gioia di Marinetti, per quel tanto di futurismo che riecheggia: «Era incredibile come Dean potesse impazzire e poi tutto ad un tratto continuare il soliloquio con la sua anima che suppongo sia racchiusa in una veloce automobile»[ix].

Il Dean Moriarty di On the road, letterario alter ego di Neal Cassady, vagabondo professionista e scrittore dilettante scomparso nel febbraio del 1968 mentre divampava la protesta giovanile e studentesca che in qualche modo aveva presagito, è uno «sfasciacarrozze» per vocazione (Crash di David Cronenberg, 1996, dal romanzo di James G. Ballard, porterà alle estreme conseguenze il piacere erotico che si annida nella simbiosi uomo-automobile, nel feticismo macchinistico, perversione fra le più diffuse). Usa e getta, lo spazio di un viaggio, di un trip. Se non fosse un «brevetto» di Kerouac, un Dean avrebbe potuto sponsorizzarlo la Ford (d’altronde il Dennis Hopper di Easy Rider sarebbe poi diventato testimonial pubblicitario proprio per quella grande azienda automobilistica).

L’impulso frenetico e incosciente è a consumare, sia pure ai margini del mercato tradizionale: consumare auto, droga, sesso, viaggi. Lo stesso Kerouac si premura in qualche modo di legittimare quest’impulso all’interno di una «tradizione»: «La sua criminalità non era qualcosa di risentito e beffardo; era lo scoppio sfrenato pieno di assensi di americana gioia; era occidentale, il vento d’Occidente, un’ode dalle praterie, qualcosa di nuovo, da lungo tempo profetizzato, da lungo atteso […] Un figlio occidentale del sole, Dean»[x].

On the road è un inno all’America – «Americani ubriachi fradici nella terra possente»[xi] – alla sua bellezza e grandezza, alla sua naturale, invitante percorribilità. Gli schemi drammaturgici, a cominciare dal saldo, virile sodalizio fra Sal Paradise e Dean Moriarty, sono tipici dell’atmosfera delle vecchie dime novels[xii] letterarie d’ambientazione western. L’attraversamento dello spazio americano, lo spirito avventuroso, il nomadismo, l’anelito all’indefinito – «in qualche punto lungo il tragitto mi sarebbe stata donata la perla»[xiii] – insomma tutto rimanda a un patrimonio storico-culturale, sebbene rielaborato, arrangiato con una prosa lirica, spontanea, avvolgente come un be-bop jazzistico (più evidente nelle poesie kerouchiane di Mexico City Blues, 1959). Ed è un impeto inesausto, considerando l’On the road di Walter Salles (2012) che ha ammanierato il romanzo di Kerouac.

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[i] Cfr. F. Pivano, La beat generation, pref. in J. Kerouac, Sulla strada (1957), Oscar Mondadori, Milano 1978, pp. 6-9.

[ii] Per un’analisi critica molto serrata delle aporie della letteratura beat, cfr. V. Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Roma-Bari 1969, che pure non disconosce le ragioni profonde del loro successo: un diffuso bisogno neoromantico e un apprezzamento della qualità testimoniale, malinconica, di Kerouac, Corso, Ginsberg… Ma, scrive Amoruso, «l’esperienza letteraria beat è, insomma, nel quadro della cultura americana degli anni ‘50 e sullo sfondo delle contraddizioni reali di quella società, un momento non di antitesi, ma di fiancheg-giamento oggettivo di quella realtà: il suo rifletterla meccanicamente, riproducendo, a li-vello della pagina, cioè delle scelte e delle soluzioni stilistiche, l’indiscriminato e caotico fluire, e, nei suoi aspetti ideologici e più ristrettamente esistenziali, riconfermandone con notevole enfasi i momenti più decisamente acritici, statici o irrazionali. Il disordine beat, sia quello esistenziale, sia quello stilistico, tende insomma a isterilirsi in una sorta di rivolta arcadica non tanto per la forza oggettiva del monstrum industriale, quanto per la debolezza intrinseca dell’attacco mossogli» (cfr. pp. 29-30).

[iii] Cfr. AA.VV., The Beat Goes On. 50 anni di controcultura, Giorgio Mondadori, La Biennale di Venezia, Milano 1996, bilancio dell’esperienza beat non solo nel cinema, con preziose appendici bibliografica, biografica, selezione critica di materiali e studi, discografia. Più agiografico, invece, anche perché meno distante nel tempo dagli eventi, F. Pivano, C’era una volta un Beat. 10 anni di ricerca alternativa, Arcana, Roma 1976, con delle «storiche» fotografie di Ettore Sottsass.

[iv] Cfr. C. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano, 1981, passim.

[v] Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è il titolo di un fortunatissimo romanzo on the road di Robert M. Pirsig (1974, trad. it. D. Vezzoli, Adelphi, Milano 1981). Riservò valenze mistico-filosofiche in qualche maniera «profetiche» degli «itinerari della mente», degli usi e degli abusi della distrazione al bivio feroce fra tecnologia sempre più alta e un bisogno insopprimibile di fedi lontane, culture dell’inutile, spazi per l’armonia della psiche con la natura. Per verificare l’accoglienza italiana al libro di Pirsig, cfr. B. Placido, C’è Platone su quella moto, «la Repubblica», 24 febbraio 1981, p. 15.

[vi] Cfr. S. Anderson, Strade, Dedalo, Bari 1982, p. 5.

[vii] Cfr. N. Anderson, op. cit., p. 12: «Sullo scenario americano la mobilità era obbligatoria, altrimenti la frontiera sarebbe ancora una distesa desolata».

[viii] J. Kerouac, Sulla strada (1957), Oscar Mondadori, Milano 1978, pp. 269 e 290.

[ix] Ivi, p. 267.

[x] Ivi, p. 41.

[xi] Ivi, p. 91.

[xii] Cfr. R.F. Adams, Cow-boy. Antologia di scritti e documenti dei grandi tratturi del West, ediz. italiana a cura di V. Riva, trad. it. L. Bianciardi, Feltrinelli, Milano 1979.

[xiii] Cfr. Jack Kerouac, op. cit., p. 42.

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