«Un torto alla democrazia, non a me».
Parla il prof privato del Premio Israele

Intervista a Oded Goldreich, lo scienziato del Weizmann Institute inviso al Likud

“Certo, sono amareggiato. Ma non per il torto che ho subito personalmente, quanto per quello che significa per la democrazia nel mio Paese. Democrazia è pluralismo di idee, è dialettica, è difesa delle minoranze. Democrazia non è imposizione di un pensiero unico sulla base di una ‘verità’ che si intende imporre. Non si brandisce un premio scientifico come strumento per una persecuzione politica”. Risponde così il professor Oded Goldreich a Reset. Il suo caso ha scatenato polemiche e messo sul chi va la negli ultimi giorni la comunità accademica israeliana.

Il professor Goldreich è un eminente scienziato, docente al Weizmann Institute di Rehovot, che è stato insignito del prestigioso Premio Israele per la matematica e l’informatica. Riconoscimento cancellato però dal ministro dell’Educazione, Yoav Galant (Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu), con una motivazione che nulla ha a che fare con quelle dell’assegnazione, investendo invece la sfera della politica. La “colpa” di cui si sarebbe macchiato il professor Goldreich agli occhi del ministro-censore? Aver sostenuto Bds, il movimento per il boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni verso Israele. Un sostegno che Goldreich ha sempre negato, parlando esplicitamente di persecuzione politica. E a Reset argomenta questa sua convinzione.

Il Premio Israele è “l’onorificenza più prestigiosa che Israele possa conferire. Chiunque non abbia a cuore lo Stato d’Israele e le sue leggi non merita il Premio”. Così ha annunciato il ministro dell’Educazione, Yoav Galant, aggiungendo che lei, professor Goldreich, può anche essere “un brillante scienziato”, ma che sostenendo il movimento Bds, “sputa in faccia allo Stato di Israele e al mondo accademico israeliano, e potrebbe anche infrangere la legge”. È così?

Verrebbe da ridere nel commentare affermazioni che scadono nel ridicolo. Verrebbe voglia di alzare le spalle e passare oltre. Ma non è possibile. E non, mi creda, per l’affronto personale ricevuto, ma perché esso è il segno dei pericoli che corre la democrazia nel mio Paese. Le motivazioni addotte dal ministro alla “diseducazione” sono l’espressione di una persecuzione politica. Vengo colpito perché sono di sinistra.

Un’accusa molto pesante, la sua…

Pesante non è la mia considerazione ma la motivazione avanzata da Galant. Questo è vero e proprio maccartismo. Non c’è una, dico una, mia dichiarazione di sostegno al Bds. Hanno fatto mille ricerche, spulciato documenti, messo a setaccio i social media, il mio profilo Facebook. E non hanno trovato niente in proposito, perché niente esisteva. Ma questo il ministro Galant lo sa bene. Tant’è che ha provato a correggere il tiro, ma, come si suol dire, la pezza è stata peggiore del buco. Hanno detto che io mi ero schierato contro l’esercito, minandone la sua integrità. Io, un ricercatore di matematica e informatica! Qui si tende a colpire la libertà di pensiero e di espressione, a intimidire chi la pensa diversamente dai “sacerdoti della verità”. Prima di essere un ricercatore scientifico, io sono un cittadino. Cittadino di uno Stato di cui mi sento orgoglioso di far parte. Uno Stato di diritto. Certo, io ho criticato la colonizzazione dei Territori palestinesi, perché continuo a pensare che pace e insediamenti siano tra loro inconciliabili. Difendo l’impegno di organizzazioni israeliane per la pace e i diritti umani, come Peace Now e B’tselem, non perché condivida ogni loro iniziativa o presa di posizione, ma perché penso che il pluralismo delle posizioni sia il sale della democrazia. E sì, mi fa paura chi vorrebbe imporre un pensiero unico, da qualunque parte questa minaccia provenga.

I presidenti di tutte le università israeliane hanno pubblicato una lettera congiunta venerdì, chiedendo a Galant di revocare la sua obiezione all’assegnazione del premio che le è stato assegnato. “Negare a una persona un premio a causa delle sue convinzioni politiche contraddice il principio di base del Premio Israele e danneggia gravemente la libertà di parola e di pensiero”, dice la lettera. “La vostra decisione crea la problematica impressione che solo coloro che ‘puntano sulla linea’ saranno premiati, e chiunque osi esprimere un’opinione politica che è al di fuori del consenso sarà punito”, scrivono ancora i presidenti, chiarendo che la solidarietà prescinde da qualsiasi valutazione politica sulle sue posizioni.

Ho avuto modo di ringraziare i firmatari. Per essere usciti allo scoperto con una lettera che fa onore all’intera comunità scientifica israeliana: una comunità di eccellenze, non solo per i lavori, le ricerche, le scoperte che sono all’avanguardia nel mondo, ma perché questa comunità non si è mai chiusa in una torre d’avorio, isolandosi dal resto della società. Lo si è visto chiaramente anche nella drammatica crisi pandemica. E li ringrazio soprattutto per quel secondo passaggio che lei ha citato. Tra i firmatari vi sono persone di diverso orientamento politico, uomini e donne di destra, di centro e di sinistra. Ma una nazione democratica è tale se chiunque è messo in condizione di poter esprimere liberamente la propria opinione senza temere di essere perseguito o marginalizzato per questo.

La sua vicenda non è passata inosservata agli altri vincitori del Premio Israele di quest’anno. Dopo aver ricevuto il suo premio per il successo nel cinema, la regista Michal Bat-Adam ha detto che pur essendo felice di ricevere il premio, era “molto triste” perché “ci manca un vincitore”. Bat-Adam si è unita a quattro degli altri vincitori del premio in una protesta scritta contro il tentativo di Galant di negarle il premio.

Ringrazio anche loro, ma tutto mi aspettavo tranne di assurgere alle prime pagine dei giornali o che il mio nome entrasse nei talk show televisivi. Non è la notorietà a cui ambivo e, mi creda, entrare in politica non mi passa nell’anticamera del cervello. Però certe prese di posizioni sono importanti perché testimoniano una consapevolezza diffusa in ambienti diversi e tra persone diverse. L’Israele di cui sono orgoglioso è questo.

“Trattenere il premio è un tentativo di determinare – anche per allusione – che chiunque si opponga al progetto di insediamento o al sostegno ad esso non è una parte legittima della società israeliana”. Ad affermarlo è stato il suo avvocato difensore Michael Sfard nell’udienza dell’Alta Corte dedicata al suo caso.

Faccio mie le sue parole, e non perché l’avvocato Sfard sia il mio legale. Nessuno può decidere se fai parte o no della società israeliana sulla base delle posizioni che vengono espresse, a meno che non si espliciti la volontà di veder distrutta la società di cui sei parte. Che io sia contrario alla politica degli insediamenti è cosa nota. Che ritenga altre le priorità di investimento di risorse pubbliche rispetto al sostegno agli insediamenti, è altrettanto risaputo. Rafforzare la sanità pubblica, investire in ricerca, nell’istruzione, nel sostegno sociale ai tanti messi in ginocchio dalle conseguenze economiche del Covid, le ritengo prioritarie rispetto alla costruzione di nuove unità abitative nella West Bank. Forse che questo è un crimine? Se lo si pensa e lo si dice, ciò comporta forse l’espulsione dalla società israeliana? Già il porsi questi interrogativi è un brutto segno dei tempi.

Professor Goldreich, lei ha negato di essere un sostenitore del Bds. Posso chiederle cosa pensi della campagna di boicottaggio? Soprattutto quando essa investe il mondo accademico, i rapporti tra università?

È un discorso complesso e molto delicato. In linea generale, penso che il dialogo sia alla base della crescita di una cultura, prim’ancora, di una politica di pace. Vede, io resto convinto che alla base della demonizzazione dell’altro da sé vi sia molta ignoranza, nel senso latino del termine. Ignorare, non conoscere l’altro, la sua storia, il suo pensiero. Per questo ritendo di grande importante mantenere e rafforzare i legami, gli scambi tra università, istituzioni culturali. Un pensiero non va mai boicottato. Esiste poi un problema che riguarda le attività degli insediamenti. Considerare i prodotti che lì si producono come made in Israel significa, è inutile girarci intorno, etichettare non quei prodotti ma quelle colonie parti integranti dello Stato d’Israele. E su questo avrei da eccepire. Il problema, è evidente a tutti, non è commerciale ma è politico. Negarlo vuol dire mistificare la realtà.

Professor Goldreich, lei si considera un uomo di sinistra, in un Paese in cui la sinistra non è messa bene.

Vede, anche qui occorrerebbe operare una distinzione. Certo, se guardiamo alle sue espressioni partitiche, dire che la sinistra se la stia passando poco bene è utilizzare un eufemismo. Ma se allarghiamo l’orizzonte, sarà un vizio dei professori, sono meno pessimista. Soprattutto se penso ai giovani. Se penso ai tanti che incontro a lezione o nelle conferenze. So bene che sono una parte e non il tutto. Ma è una parte che fa ben sperare. Se Israele è considerato all’avanguardia nelle start up è grazie a questa straordinaria gioventù, al suo impegno, alla dedizione che mette in ciò che fa. Sono loro l’investimento nel futuro.

 

Ha collaborato da Gerusalemme Cesare Pavoncello.

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