L’ultima sfida di Bergoglio. Sulle orme di Abramo per invocare la fratellanza

Il senso della missione di Papa Francesco da venerdì in Iraq

Dove sta per andare Francesco? Davvero è il viaggio più pericoloso per la sua sicurezza? E perché, se così fosse, sarebbe così? Francesco è andato nella Repubblica Centrafricana sconvolta dalla guerra civile e dalle milizie, è andato nel Chiapas, è andato ai confini tra Stati Uniti e Messico e  tra Colombia e Venezuela, tutti luoghi dove nessuno può essere sicuro e dove nessun capo di Stato straniero (sovente neanche del posto) si era recato prima.

Per renderci conto di dove stia per recarsi Francesco occorre tracciare una croce sul blocco eurasiatico: il primo tratto di penna, quello verticale, unisce Mosca e lo stretto di Hormuz, lo sbocco oceanico del Golfo Persico. Il secondo tratto di penna, quello orizzontale, collega Tehran e Palermo, il centro del Mediterraneo. Ecco, Francesco si reca nel punto geografico dove queste due linee si intersecano, dunque nel luogo cruciale di tutti gli appetiti, perché chi controlla quel luogo controlla il blocco eurasiatico.

Francesco ci va da costruttore di pace, all’insegna di uno slogan rivoluzionario: “siete tutti fratelli”, tratto dal Vangelo secondo Matteo. Dirlo nel luogo dove tutti gli egemonismi, tutti gli imperialismi, tutti le allucinazioni apocalittiche, tutte le guerre esistenziali tra visioni totalizzanti si incontrano e scontrano, è semplicemente rivoluzionario, perché tutte le buca, tutte le sfida, tutte le mette a nudo. Sono tutti questi i veri nemici. Questi nemici si uniscono in due nomi globali, impero e “pensiero apocalittico”, due virus diffusisi in tutte le grandi potenze e tutte le grandi religioni che proprio nell’antica Mesopotamia hanno invece il luogo d’origine del loro padre comune, Abramo, che le unisce non nell’odio reciproco, ma, appunto, nella fratellanza dei diversi, voluti come tali dal “sapiente disegno di Dio”.

Dunque per capire il viaggio di Francesco dobbiamo leggere tutte le spinte centripete, mesopotamicocentriche, che sfida. Si ipotizzano qui dunque due livelli: uno imperiale e uno apocalittico, con il secondo che sovente è usato per servire il primo.

Il primo imperialismo che dobbiamo riconoscere è quello islamico: che non ha a che fare con i musulmani, ma con la conquista militare dell’islam.

Diviso tra sunnismo e sciismo proprio in Iraq, dove l’islam si è spezzato nel sangue del Califfo Alì e poi di suo figlio Hussein, riferimenti fondanti degli sciiti uccisi dai fondatori della prima dinastia imperiale arabo-sunnita, gli Omayyadi, da quando i Saud si sono impossessati dei luoghi santi dell’’islam in accordo con l’eresia puritana dei wahhabiti, Riad ha sognato di controllare politicamente l’islam usando il puritanesimo wahhabita come strumento di egemonia religiosa. A questo imperialismo ha risposto il khomeinismo, facendo della sua eresia teocratica lo strumento della conquista territoriale dell’islam nel nome del ritorno all’imperialismo persiano, che sogna di vendicare Ciro e tornare, come fu ai tempi dei sassanidi, fino al Mediterraneo. Così l’Iran khomeinista oggi non può che partire dal modello savafide, cioè dalla conquista di Baghdad. Gli ayatollah seguono infatti lo stesso cammino della dinastia degli scià savafidi che per legittimarsi fecero dello sciismo la religione di stato persiana e di Baghdad la prima conquista da compiersi nel nome del ritorno imperiale persiano fino al Mediterraneo.

Tutto questo passa attraverso le milizie legate ai pasdaran che militarizzano le comunità sciite in Iraq, in Siria, in Libano (nello Yemen) e sognano l’imamato khomeinista. La risposta wahhabita è stata l’Isis, l’analogo contrario che intende conquistare il sunnismo mondiale mettendolo contro il mondo. È qui che i due opposti si dimostrano analoghi: per imporsi infatti diffondono un messaggio apocalittico, che vuole sradicare l’islam popolare, fraterno con il mondo e i suoi abitanti, nel nome di una visione che millanta l’imminente fine del mondo, da favorire con la violenza e l’urto con gli altri per arrivare alla battaglia finale che porterà la pace e la giustizia divina. È una visione che negli altri monoteismi ha corrispettivi tanto noti quanto evidenti. È così che due grandi civiltà, la civiltà araba e quella persiana, che hanno contribuito ad arricchire tutto il mondo, oggi producono saccheggi e devastazioni, a cominciare da quelli in cui fanno vivere i loro figli. Ai quali non resta che sperare davvero nella fine del mondo.

Accanto a questi imperialismi che vogliono conquistare militarmente l’islam si vedono altri imperialismi, che il linguaggio odierno potrebbe indurci a chiamare “varianti” di questo imperialismo di fondo e terrificante. Si tratta della variante russa, che anela ad arrivare allo stretto di Hormuz per conquistare i famosi “mari caldi” e in Siria ad impossessarsi dei porti sul Mediterraneo, e quindi deve per forza passare dall’Iraq. C’è poi la variante turca, che si ritiene erede dell’impero ottomano e vedendo la crisi saudita si candida a rifare di Istanbul la capitale imperiale che unisce il mondo che va da Baghdad alla Libia. C’è infine la variante cinese, che senza pensare a espansionismi territoriali vede la sottomissione commerciale di ogni potentato (ridotto a delegato locale) lungo la via della seta.

Ecco dove sta per andare Jorge Mario Bergoglio. Ogni sogno assolutista si infrange sul suo motto: “siete tutti fratelli”. Lo sono i sunniti, ridotti a paria dell’Iraq dalla follia assassina dell’Isis: che potrà pacificare l’Iraq senza recuperare le prime vittime dell’Isis, i sunniti, abbandonati al loro amaro destino da quando Obama decise il ritiro incurante del fatto che il generale Petraeus aveva determinato la rivolta sunnita contro al-Qaeda. Lo sono gli sciiti, ridotti a terrore degli altri dalle milizie khomeiniste che usano la loro miseria per eternizzarla nell’odio e che per molti hanno avuto un potente propellente dall’antagonismo radicale trumpiano.

Alcuni dati sull’Iraq di oggi aiutano a capire quanto sia minacciosa l’agenda di Francesco per tutti gli opposti estremismi e imperialismi che devastano da inizio millennio l’Iraq. Sotto il suolo infatti, come è noto, l’Iraq è ricchissimo, ricchezza sufficienti per tutti. Ma quelle ricchezze spariscono sopra il suolo tanto che Lorenzo Trombetta su Limes ha illustrato così la situazione per chi vive sopra e non sottoterra: «Secondo le statistiche ufficiali irachene, il tasso di disoccupazione nel paese è stimato al 36%, ma tra i giovani – che costituiscono la maggioranza della popolazione – è molto più alto, quasi il 50%. Circa il 30 per cento degli iracheni vive sotto la soglia di povertà. Il sistema bancario sta cadendo a pezzi, seguendo forse le orme di quello libanese. Il livello di liquidità delle banche è pericolosamente basso, il credito per l’apertura di nuove attività è quasi del tutto indisponibile. I debiti pubblici verso le banche sono enormi e non è affatto chiaro come verranno mai rimborsati e da dove dovrebbero giungere questi fondi. Gli investitori stranieri non hanno certo fretta di puntare sull’Iraq e attendono alla finestra. La macchina burocratica e le incertezze regionali e interne allontanano gli investimenti. Secondo diversi analisti, l’Iraq è candidato a rimanere uno “Stato fallito”, uno dei tanti nella regione. Gli Stati Uniti di Joe Biden cercheranno di tenere in piedi il sistema iracheno perché hanno bisogno di questo trampolino tra Mediterraneo e Oceano Indiano. La Cina, dal canto suo, ha raggiunto due anni fa un accordo quadro con Baghdad, per ingenti investimenti di miliardi di dollari statunitensi nelle infrastrutture. Ma è un piano di lungo termine che ancora non è entrato nella fase di realizzazione».

Deciso al riguardo appare il suo ritratto del premier in carica, Karimi: «Nei mesi scorsi il premier Mustafa Kazimi, uomo sia degli americani che degli iraniani e dunque un uomo dello statu quo e della spartizione negoziata, ha proposto una serie di riforme economiche “contro la corruzione”. Tra le misure proposte sulla carta c’è la riduzione del numero dei dipendenti statali. Kazimi sa benissimo che nessun membro dell’oligarchia al potere ha interesse a vedere attuata una simile riforma. Kazimi potrà dire di averci provato, sperando di prolungare il suo mandato come capo del potere esecutivo che rappresenta però una cupola clientelare tenuta in piedi sia dagli Stati Uniti che dall’Iran».

Ma se il papa deve incontrare Kazimi, sintesi dei mali che affliggono l’Iraq, non era scritto da nessuna parte che doveva recarsi a Najaf, per incontrarvi l’ayatollah al Sistani. Questa grande autorità religiosa non ha mai piegato la testa davanti al golpe teologico di Khomeini, alla sua idea teocratica che impone la supervisione religiosa alle decisioni parlamentari. Incontrando al Sistani, proprio come ha fatto al Cairo incontrando la principale autorità teologica sunnita, lo sceicco Ahmad al-Tayyeb, Francesco spezza il cerchio teocratico da una parte (sciismo) e cesaropapista dall’altra (sunnismo), creando le condizioni perché l’islam finalmente si accetti come religione plurale e quindi pronta a vivere e convivere in un mondo plurale. Lo ha fatto al Tayyeb, lo farà al-Sistani, tenace tutore della liberalità teologica sciita. Sarà quell’incontro il culmine del viaggio pontificio, che proietterà su tutti i soggetti coinvolti nella depravata guerra irachena l’immagine rivoluzionaria di Ur: lì i protagonisti di tutti i campi in conflitto, cristiani (come russi e americani), sunniti (come turchi e sauditi), sciiti (come gli iraniani e tante milizie a loro legate) saranno uniti nel nome dell’unica risposta alla cultura dell’apocalisse, Abramo, il padre comune, l’amico di tutti, “l’amico di Dio”. Appare così evidente quanto abbia ragione il professor Antoine Courban a dire dal Libano che il cammino di Abramo, migrato dalla Mesopotamia per arrivare alle coste del Mediterraneo, indichi un cammino spirituale che unisce i credenti nei tre monoteismi ma anche un cammino geopolitico che salva il Mediterraneo: l’Iraq è la porta del Mediterraneo, la sua pace cosmopolita e non settaria è la pace cosmopolita di tutto il bacino del Mare Nostrum. Ecco dove va Francesco.

 

Foto: Un murales di benvenuto a Pap Francesco – Baghdad, 1/3/2021 (Sabah Arar / AFP)

  1. Grazie di questa testimonianza storica e di questa per me utilissima spiegazione del viaggio di Papa Francesco in IRaq! Sono sicura che anche il mio papà, prof. Vittorio peri, che ha tanto studiato e promosso l’ unione della chiesa di occidente con quella di oriente, su questo sarebbe d accordo con me!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *