Netanyahu, scacco matto agli avversari (e al sogno palestinese)

Ora è solo questione di tempo. Un tempo comunque ravvicinato. Ma una cosa è certa: lo scacco finale alla Palestina è iniziato. E questo inizio ha anche una data cerchiata in rosso: 20 aprile 2020, il giorno della nascita in Israele del “Governo dell’annessione”. Il Governo del “Re” e del “Generale”, al secolo Benjamin Bibi Netanyahu e Benny Gantz. Secondo la stampa israeliana ci sarebbe già la data per l’assalto finale: il primo luglio Netanyahu sottoporrà al governo e alla Knesset l’approvazione dell’estensione della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano e gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania palestinese occupata da Israele nel 1967. Le restanti porzioni, i centri abitati palestinesi o poco più, resteranno sotto la legge militare israeliana. Una battaglia cruciale, quella dell’annessione e dell’ampliamento unilaterale dei confini d’Israele, per il leader del Likud, sulla quale si è sempre speso considerandola la sua eredità storica. L’ampliamento della sovranità israeliana sugli insediamenti, prevista nel piano di pace per la regione promosso dall’amministrazione Trump, verrà portato avanti “con responsabilità”, hanno sottolineato da Blu e Bianco.

In cosa possa consistere questa “responsabilità” è francamente difficile da immaginare, se non come un tentativo di tranquillizzare quella parte della comunità internazionale che ancora crede, almeno a parole, che la colonizzazione-annessione di Territori occupati, definiti tali da almeno due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sia un atto illegale, contrario al diritto internazionale oltre che a un senso minimo di giustizia. Il piano prevede l’annessione delle colonie israeliane nei territori palestinesi della Cisgiordania, inclusa la Valle del Giordano, il confine orientale di quello che avrebbe dovuto essere il futuro Stato palestinese. Bibi aveva promesso di annetterle subito, una volta eletto. Gli abitanti delle colonie (500.000 in Cisgiordania e 250.000 a Gerusalemme Est) hanno subito risposto all’appello riversandosi nei seggi.

 

Game over

Saeb Erekat (A. Momani / AFP)

«Per la prima volta in 53 anni di occupazione, un piano di annessione di Territori palestinesi occupati diviene in modo esplicito parte del programma di un Governo israeliano», dichiara in esclusiva a Reset Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese, oggi segretario generale dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina. «L’applicazione di questo piano – aggiunge Erekat – infligge un colpo mortale al dialogo e alla ripresa di un negoziato di pace, distrugge definitivamente la soluzione a due Stati e rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente».

Secondo Martin Indyk, ex ambasciatore statunitense in Israele ai tempi della presidenza di Bill Clinton oggi fellow del Council on Foreign Relations, sarà molto facile che tutto si chiuda in tempi rapidi: «Trump darà luce verde all’annessione per assicurarsi il sostegno degli evangelici in vista del voto di novembre», ha scritto Indyk su Twitter.

E il suggello ufficiale di Washington è arrivato ieri sera dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo: «Saranno gli israeliani a prendere queste decisioni. È una decisione israeliana, lavoreremo strettamente con loro per condividere le nostre opinioni in un ambito privato», ha detto ai giornalisti il capo della diplomazia americana, rilanciato dai siti israeliani. Pompeo si è detto felice che sia stato raggiunto un accordo fra il Netanyahu e Gantz per la formazione di un governo di emergenza nazionale.

Ayman Odeh (A. Gharabili / AFP)

L’Israele del dialogo si ritrova nel j’accuse palestinese contro l’Accordo del secolo di Donald Trump. «Non è proseguendo sulla strada della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati che Israele potrà raggiungere una pace giusta e duratura con i palestinesi. Una pace fondata sulla soluzione a due Stati», dice a Reset Ayman Odeh, leader della Joint List, la Lista Araba Unita che nelle elezioni del 2 marzo ha ottenuto un risultato storico, con 15 seggi conquistati che ne fanno di gran lunga la terza forza della Knesset (il parlamento israeliano). «L’alternativa è istituzionalizzare il regime di apartheid nei Territori, ma questo darebbe un colpo mortale alle residue speranze di pace. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno Stato palestinese accanto allo stato d’Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste». Quanto allo Stato palestinese evocato nel piano voluto da Trump, Odeh è perentorio: «Definirlo Stato è ridicolo! Quello che è configurato è una sorta di bantustan nel quale i palestinesi verrebbero ingabbiati. Quello pseudo-Stato non avrebbe il controllo dei suoi confini e dipenderebbe in tutto da Israele. Questo piano è stato partorito per essere rifiutato dalla dirigenza palestinese in modo tale da poter dire ‘ecco, vedete, non sanno dire altro che no’».

Le ragioni del no al “Deal of the Century” vengono rilanciate dalla lettera appello di 50 ministri e leader europei: «Il piano (americano) contraddice i parametri concordati a livello internazionale per il processo di pace in Medio Oriente, le risoluzioni delle Nazioni Unite pertinenti, compresa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, e i principi fondamentali del diritto internazionale. Invece di promuovere la pace – rimarcano i firmatari – rischia di alimentare il conflitto, a spese dei civili israeliani e palestinesi e con gravi implicazioni per la Giordania e per l’intera regione, dove ha trovato, così come in Europa e negli Stati Uniti, una diffusa opposizione. Il piano concede l’annessione di parti ampie e vitali del territorio palestinese occupato e legittima e incoraggia l’attività illegale degli insediamenti israeliani. Riconosce solo le rivendicazioni di una parte su Gerusalemme e non offre una soluzione giusta alla questione dei rifugiati palestinesi. Prevede un futuro “Stato” palestinese senza controllo né sovranità sul suo frammentato territorio. La mappa presentata nel piano propone delle enclave palestinesi sotto il controllo militare israeliano permanente, che evocano agghiaccianti associazioni con i bantustan del Sudafrica». E ancora: «Peace to Prosperity non è una roadmap in grado di portare alla soluzione dei due Stati, né a qualsiasi altra soluzione legittima del conflitto. Il piano prevede una formalizzazione della realtà attuale nei territori palestinesi occupati, dove due popoli vivono fianco a fianco senza godere di pari diritti. Un esito con caratteristiche simili all’apartheid – un termine che non usiamo con leggerezza. La comunità internazionale, in particolare l’Unione europea, deve impedire che questo scenario si verifichi, al fine di preservare la dignità e i diritti dei palestinesi, il futuro della democrazia israeliana e l’ordine internazionale basato sul diritto».

 

Fratelli-coltelli 

D’altro canto, ad annientare la soluzione a “due Stati” non è solo il duo Trump-Netanyahu. In apparenza sono tutti a fianco dei “fratelli palestinesi” nel loro rigetto del “Piano del secolo” partorito dall’Amministrazione Trump. In apparenza, perché se si va oltre le esternazioni ufficiali, assolutamente scontate, si scopre, anche grazie all’aiuto di autorevoli fonti diplomatiche e analisti internazionali, che la realtà, nel campo arabo, è molto più complessa e sfaccettata, e molto meno solidale con la causa palestinese. D’altro canto, la questione palestinese non è più da tempo una priorità nell’agenda, e negli interessi, dei paesi arabi più influenti o di attori regionali con disegni di potenza, come la Turchia e l’Iran. Di certo, come rimarca in un documentato report Dion Nissenbaum per il Wall Street Journal, il “Piano del secolo” ha scosso le dinamiche regionali, con Israele che si preparava ad annettere rapidamente parti della Cisgiordania, una volta che si prevedeva che potessero far parte di uno Stato palestinese e che i principali leader arabi potessero sostenere, anche se provvisoriamente, l’iniziativa degli Stati Uniti.

Per decenni, i leader arabi e musulmani hanno affermato che qualsiasi accordo con Israele avrebbe dovuto includere un ritiro delle forze israeliane dai Territori palestinesi, e l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale. Ma gli stessi leader arabi che, a parole, continuano a sostenere questa linea, fuori dall’ufficialità non mancano di manifestare la loro irritazione verso la dirigenza palestinese a scendere a compromessi su questi punti. Una chiusura che ha impedito, o comunque rallentato, la volontà di quei leader di rafforzare i legami con Israele, vuoi per affari, vuoi – vedi l’Arabia Saudita e le monarchie sunnite del Golfo – in funzione di un contenimento dell’espansionismo iraniano, e sciita, sulla direttrice Damasco-Baghdad-Beirut. E Gaza. D’altro canto, come annota Nissenbaum, «l’Amministrazione Trump ha “corteggiato” esponenti di primo piano dei regimi al potere in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti, in Oman, in Bahrein e in altre nazioni della regione, nel tentativo di trascendere l’impasse politica e, in una certa misura, hanno avuto riscontri positivi».

«È indubbio – osserva il professor Nabil el-Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al-Ahram (Il Cairo) – che da tempo non c’è leader arabo o musulmano che non abbia cercato di gestire in proprio la vicenda palestinese, inserendola all’interno dei propri disegni di potenza. Oggi Trump si fa forte della debolezza della leadership palestinese per forzare con il suo piano».

Resta il fatto che non solo le monarchie del Golfo ma anche un Paese sunnita centrale in Medio Oriente come l’Egitto del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi non ha cavalcato la retorica dell’indignazione antiamericana e antiisraeliana che in altri tempi aveva funzionato come fondamentale collante interno. Ma i tempi sono cambiati. E l’indignazione lascia il campo agli affari e a nuove alleanze. Con buona pace della “causa palestinese”.

 

Foto: GALI TIBBON / POOL / AFP

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