A una settimana dall’annessione (ridotta?) Benny Gantz ha già perso

Non basta essere stato un bravo generale, un discreto capo di stato maggiore, un uomo senza scheletri (giudiziari) nell’armadio. Non basta tutto questo per trasformarti in un politico di primo livello. Certo, l’effetto novità può pagare nel breve, portare a un incasso elettorale, ma poi, quando arriva il momento della verità, quando il gioco si fa duro, l’homo totus politicus finisce per surclassare l’“apprendista”. È la storia di Benny Gantz. L’uomo che doveva porre fine all’“era Netanyahu”, spodestare dal trono “King Bibi” e che ora si ritrova a dover condividere il nuovo governo d’Israele con Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia dello Stato ebraico. Una longevità che, stando alle trattative in corso, dovrebbe prolungarsi fino a settembre 2021. Diciotto mesi: un’eternità per la volubile politica israeliana.

Gantz ha perso un’occasione irripetibile. E ha perso perché è venuto meno alla stessa narrazione su cui aveva costruito la sua entrata nell’agone politico: quello di un uomo tutto di un pezzo, che fa quel che dice, coerente con i principi che hanno ispirato la sua vita militare (e in Israele questo conta molto). Insomma un uomo tutto d’un pezzo. Ma il generale Gantz non ha tenuto fede a questa narrazione: ha ondeggiato, ha fatto marcia indietro più volte, dimostrando alla fine un’assenza di rigore, proprio quella che era la sua qualità precipua. Ora: in una politica, come quella israeliana, dominata da vecchie volpi e da “pescecani”, si può anche essere “ondivaghi” e magari anche contraddire se stessi, a una condizione, però: saperlo fare, dimostrare di essere capace di dare le carte al tavolo delle trattative, rilanciare quando è il caso e anche, quando è il caso, saper bluffare.

A quel tavolo da poker il leader di Kahol Lavan (Blu-Bianco) ci si è seduto ma alla fine ha dovuto cedere al rilancio di un avversario, Netanyahu, che nel suo abile cinismo, dove l’accento cade sull’aggettivo, ha saputo utilizzare al meglio anche l’emergenza sanitaria.

A ben vedere, quella israeliana è una storia che ai tempi del Covid-19 varca i confini nazionali e parla anche a noi. A noi italiani, a noi europei. In momenti tragicamente eccezionali, come quello che stiamo vivendo, i dilettanti in politica vanno allo sbaraglio e l’opinione pubblica, impaurita, insicura, cerca certezze affidandosi all’uomo forte, all’usato sicuro. In Israele, a Benjamin Netanyahu. È un discorso che va oltre la classica, e un po’ andata, divisione destra/sinistra (Gantz, peraltro, di sinistra non è mai stato) e investe categorie metapolitiche.

Ma non c’è solo la riconferma a capo del governo israeliano. L’operazione di “Bibi il prestigiatore” è stata un autentico capolavoro politico, concordano gli analisti politici a Tel Aviv, pur dando a quel “capolavoro” differenti giudizi di merito. Ma nessuno mette in discussione che il premier più longevo nella storia d’Israele in un colpo solo abbia mantenuto la guida del nuovo governo, per diciotto mesi, certo, ma nella politica israeliana sono un’eternità, e mandato in frantumi l’alleanza che per tre elezioni consecutive gli ha sbarrato la strada per la vittoria.

Altra lezione israeliana: la scorciatoia “giustizialista” non paga. E non può sostituirsi alla politica. I guai giudiziari di Netanyahu erano e restano sotto gli occhi di tutti gli israeliani. Gantz, in prima battuta, ha provato a farsene forza, invocando il rispetto dello stato di diritto, con la separazione dei poteri, e del principio che tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge, e non esiste uno più eguale degli altri, neanche se questo uno è il primo ministro. Gantz ha perso perché, al momento della verità, non ha retto il punto.

Ma c’è un altro dato, forse ancor più significativo, che spiega la sua sconfitta, perché tale rimane anche se Gantz ha occupato la poltrona di ministro della Difesa e, nel lontano settembre 2021, subentrerà a Netanyahu alla guida del governo. Un dato tutto politico. Perché se sul terreno della sicurezza finisci per accettare il “Piano del secolo” di Donald Trump, con incorporata l’annessione del 30% della Cisgiordania e una modifica unilaterale dei confini di Israele, se sbraghi su tutto questo, allora è meglio l’originale, Netanyahu, che una “fotocopia”, Gantz. E questo Gantz, ha fatto: ha sbragato.

 

Annessione “light”?

“Non possiamo continuare ad aspettare i palestinesi. Se dicono ‘No’ a tutto allora saremo costretti a procedere senza di loro”, si lamenta Gantz. Secondo il leader di Blu e Bianco, il piano Trump, sulla base del quale partirebbero le annessioni, “è il primo a guardare a ciò che avviene sul terreno in modo realistico”. “Quello che faremo avrà conseguenze, ma anche quello che non faremo”, ha detto ancora Gantz, aggiungendo di “voler lavorare per ridurre il rischio di trasformare Israele in uno stato bi-nazionale, assicurando che Israele mantenga il controllo del suo territorio”. “Non prenderemo palestinesi nel nostro territorio, non violeremo diritti umani o il diritto di movimento, lavoreremo in coordinamento con i paesi della regione, con i quali siamo in contatto, non metteremo in pericolo gli accordi di pace”, ha detto ai giornalisti, secondo quanto riporta la stampa israeliana. Insomma, un’annessione “light”.

Secondo il Jerusalem Post, che riporta le sue parole, Gantz vorrebbe annettere solo una piccola area, all’interno di un grande blocco di insediamenti, mentre Netanyahu vorrebbe annettere il 30% della Cisgiordania, sulla base della mappa del piano Trump. Intanto l’ambasciatore americano in Israele, David Friedman, si trova a Washington per chiarire quale tipo di passo unilaterale israeliano potrebbe sostenere l’amministrazione Trump.

Ma Netanyahu è deciso a “non perdere l’occasione” prima delle elezioni americane di novembre, ha confidato a suoi alleati di governo. Anche se la Corte Suprema il 10 giugno gli ha dato torto e ha annullato la sua legge del 2017 che mirava a legalizzare tutti gli insediamenti in Cisgiordania “perché viola i diritti di proprietà e di uguaglianza dei palestinesi”. La norma regolava tre categorie di colonie costruite su terra privata palestinese: “quelle erette in buona fede, quelle che hanno il sostegno del governo israeliano e quelle i cui proprietari hanno ricevuto compensazioni finanziarie pari al 125 per cento del loro valore”. Gantz ha promesso che avrebbe rispettato il verdetto.

Secondo L’Espresso, l’Associazione “Comandanti per la sicurezza di Israele”, alla quale sono iscritti ex generali ed ex uomini di punta dei servizi segreti e della polizia, calcola che annettere l’area C e trasformare circa 300 mila palestinesi in residenti permanenti costerebbe 14 miliardi e mezzo di dollari all’anno con la complicazione che se non venisse costruita una nuova barriera di separazione potrebbero circolare liberamente in tutta l’area C fino al cuore del Paese.

Il giornale Times of Israel scrive che queste resistenze hanno suggerito a Netanyahu di proporre, il primo luglio, un’annessione in formato ridotto. Riguarderebbe solo i tre blocchi di colonie più antiche, ossia Maale Adumim, Gush Etzion e Ariel, un insediamento che è anche sede di una università. Non verrebbe coinvolta per il momento la valle del Giordano, anche per non mettere in insuperabili difficoltà il re Abdullah II. Resta il fatto che in questa partita dalla quale dipende il futuro d’Israele e la stabilità, già oggi alquanto precaria, del Medio Oriente, Gantz gioca un ruolo da comprimario.

Morale di una favola non a lieto fine: leader non ci s’improvvisa, tanto meno uomini della provvidenza. In passato, nei momenti di maggiore difficoltà, Israele si è rivolta a uomini in divisa diventati politici di lungo corso: Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, solo per fare due esempi opposti rispetto agli orientamenti politici. Ma Benny Gantz ha avuto i gradi di Rabin e Sharon, non la statura politica. Quella non la si eredita, la si conquista sul campo. E lui, sul campo ha fallito, finendo per fare l’attendente del “generale” Netanyahu.

 

Foto: GALI TIBBON / AFP

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