Turchia: quella spaccatura tra Erdogan
e Davutoglu che preoccupa Bruxelles

Da Reset-Dialogues on Civilizations

C’eravamo tanto sopportati: perché Erdogan ha fatto fuori Davutoglu, e i  dubbi dell’Europa.

La conferenza stampa con cui Ahmet Davutoglu, premier e leader del partito AKP,  ha annunciato che si farà da parte, ha còlto di sorpresa la Turchia e sollevato allo stesso tempo dubbi in Europa.

«Non si tratta di una scelta, ma di una necessità, non posso più correre per la leadership del partito», ha detto Davutoglu, prima di ribadire che rimarrà in buoni rapporti con il presidente Recep Tayyip Erdogan, che laconico ha definito il passo indietro del premier «un processo naturale interno al partito».

La rottura

Parole che segnano l’epilogo in un clima di cambi di equilibrio al potere in atto da tempo, atto finale di una situazione precipitata nell’ultima settimana. Il 29 aprile il direttivo AKP aveva sollevato il segretario dall’incarico di appuntare i segretari provinciali, prerogativa assunta nel 2002 dall’ora leader del partito, Recep Tayyip Erdogan. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, tanto che Davutoglu il 3 maggio dichiarava al Parlamento di «non avere esitazioni alla prospettiva di fare un passo indietro».

Alle parole del primo ministro ha replicato  a distanza di 24 ore Erdogan,che lo ha invitato a «non dimenticare come ha ottenuto l’incarico». Seguiva un faccia a faccia tra i due, preludio alla fine dell’era Davutoglu.

Premier e presidente hanno condiviso con difficoltà gli spazi dell’architettura istituzionale turca, scontrandosi più volte con parole, idee e punti di vista di volta in volta divergenti. Episodi che hanno creato una base di rancore che in politica non può non sfociare nell’eliminazione di uno dei. L’approccio accademico di Davutoglu nello svolgere il ruolo di premier si è scontrato con la visione muscolare con cui Erdogan interpreta la carica di Presidente della Repubblica, creando  terreno fertile per attriti e contraddizioni che hanno caratterizzato gli scorsi mesi.

Una coabitazione difficile

Uno degli argomenti sui quali si è consumata la frattura è la gestione del conflitto con il PKK. Lo scorso 25 luglio, infatti, terminava una tregua durata due anni e mezzo e gli F16 di Ankara tornano a bombardare le montagne del Kandil.

Questo episodio segnava il requiem di un processo di pace che avrebbe potuto mettere fine a un conflitto che, dal 1984 a oggi, ha fatto più di quarantacinquemila vittime. Che la Turchia sia tornata sui suoi passi lo si attestò dalle aperture dei telegiornali: le bandiere sulle bare, le famiglie che stringevano la foto dei martiri, immagini che riportavano al passato e ricordavano che  la guerra stava ricominciando. Davutoglu  percepì il peso dell’occasione persa, invitava il PKK a un cessate il fuoco, dice che tutto può essere discusso; a meno di 24 ore di distanza lo zittiva Erdogan all’insegna dello slogan “nessun’altra soluzione se non quella militare”.

Il conflitto con il PKK ha dominato buona parte del dibattito politico in Turchia negli ultimi mesi, anche perché con più di venti milioni di cittadini curdi il conflitto non può che riflettersi a tutti i livelli del Paese. Erdogan ha più volte invocato misure più severe nei confronti degli “gli amici dei terroristi”  o “sostenitori del PKK”. La ricetta del presidente prevede di togliere l’immunità ai parlamentari del partito filo curdo HDP e addirittura la cittadinanza a chi offre sostegno al PKK. Che Davutoglu la pensasse diversamente lo si deduce dal fatto che non ha mai inserito nessuna delle due “direttive presidenziali”, all’ordine del giorno del consiglio dei ministri.

Stessa cosa è accaduta quando il presidente ha chiesto che la definizione di “terrorista” presente nel codice penale turco, venisse estesa a chi “non spara, ma mette le armi in mano a chi spara”. All’indomani dell’attentato di Ankara del 14 marzo  finivano nel mirino di Erdogan  «coloro che celano la reale natura di terroristi dietro il titolo di parlamentare, scrittore, giornalista, accademico». Erdogan metteva quindi alla prova il premier, che dal canto suo non faceva nulla per venire incontro al volere del presidente, tra i due infatti  il medesimo argomento aveva già prodotto attriti.

Alla fine di gennaio, all’indomani della carcerazione di alcuni accademici firmatari di un appello per la ripresa dei negoziati tra Turchia e PKK, Davutoglu si era dichiarato «contrario a processare dei professori universitari», che invece secondo Erdogan erano rei di «avere le mani sporche di sangue».

Medesima divergenza di vedute aveva caratterizzato il caso dei giornalisti di Cumhuriyet Can Dundar ed Erdem Gul, la custodia in carcere dei quali era stata chiesta in primis dall’avvocato del presidente. Davutoglu non esitò a definire «ingiusta e controproducente a livello di immagine» la carcerazione in attesa di processo. Punto di vista condiviso dalla Corte Suprema, che il 26 febbraio scorso ordinava la liberazione dei due giornalisti (arrestati il 25 novembre), decretando l’illegittimità della custodia in carcere. «Una decisione cui non obbedisco e che non rispetto» il commento a caldo di Erdogan.

Il presidenzialismo

Alle ragioni che hanno creato lo strappo nei mesi passati va sicuramente aggiunta una lotta interna al partito, una faida che ha accompagnato la formazione delle liste dei candidati alle elezioni dello scorso primo novembre e l’inserimento nella squadra di governo di elementi non proprio graditissimi al premier, tra cui il ministro dell’energia Berat Albayrak, genero del presidente e il ministro delle infrastrutture Binali Yildirim. Non è un caso che entrambi siano ora in corsa insieme al ministro della Giustizia Bekir Bozdag, per raccogliere la leadership del partito  al congresso del prossimo 22 maggio.

A voler considerare il rapporto tra presidente e premier in prospettiva la questione del presidenzialismo è un fattore che sicuramente pesato.

Non è un caso che nella prima uscita pubblica del dopo Davutoglu, Erdogan sia tornato a dire che il Paese «non può tornare indietro dalla strada del presidenzialismo», indicato come «l’alternativa migliore per la Turchia, l’unica capace di evitare vuoti di potere». Un cambiamento che non ha mai convinto un politologo come Davutoglu, che in passato ha più volte frenato alla prospettiva di un cambio tanto radicale.

I dubbi dell’Europa

Se dai motivi sopra elencati si escludono gli attriti relativi le dinamiche interne al partito, si intuiscono i dubbi dell’Europa rispetto all’uscita di scena dell’uomo che aveva condotto i negoziati degli ultimi mesi, rivelandosi una controparte affidabile e pacata.

Hansjorg Haber, capo della diplomazia Ue ad Ankara, ha definito  «ottima» la collaborazione Turchia ed Europa durante il mandato di Davutoglu, augurandosi che le parti «continuino a collaborare come previsto dall’accordo».

«È troppo presto per dire se ci saranno conseguenze e di che tipo» ha, dal canto suo, dichiarato l’Alta Rappresentante per la politica estera Federica Mogherini.

Parole che denotano cautela e celano due verità:  quella delle dimissioni del premier, infatti, sembra proprio essere apparsa una “cattiva notizia” a Bruxelles, che ha sempre considerato Davutoglu una controparte più diplomatica e moderata rispetto a Erdogan.

I negoziato condotti da Davutoglu sono stati premiati dalla Commissione europea, che lo scorso 4 maggio ha invitato i Paesi membri a eliminare i visti per i cittadini turchi che vogliano recarsi nell’area Schengen. Ankara, dal canto suo, punta alla liberalizzazione già a partire dalla fine del prossimo giugno, circostanza alla quale è legato l’accordo sui respingimenti che tiene in scacco Bruxelles.

L’Europa vuole però essere sicura che con l’uscita di scena di Davutoglu non sia cambiato nulla, il processo di riavvicinamento, pertanto, appare tuttora costellato di dubbi e lo scetticismo è forse destinato ad aumentare ancora. Va considerata in quest’ottica la missione del ministro per i rapporti con l’UE Volkan Bozkir della prossima settimana, durante la quale avverrà la discussione sui 5 punti sollevati dalla Commissione nell’analisi dell’armonizzazione della Turchia ai 72 criteri richiesti dall’Europa. Il punto critico è sicuramente la definizione di “terrorismo” nella legislazione turca, ed emendamenti da apportare alla legge antiterrore. Un argomento sul quale, dopotutto, Erdogan in persona a sole 24 ore dall’uscita di Davutoglu, si è già espresso.

«Si dimenticano che siamo sotto attacco da 4 fronti» ha detto il presidente, che ha poi chiesto all’Europa «un cambio di mentalità», definendo «inammissibile» che  si consenta a terroristi di fare propaganda di fronte al parlamento Europeo  e «si pretenda di farlo in nome della democrazia». Il presidente non ha digerito che ai curdi siriani del PYD sia stato permesso di montare un gazebo a Bruxelles lo scorso marzo.

«Come possono chiederci di di cambiare le leggi contro il terrorismo? Su questo non ci siamo capiti e forse è bene che ognuno vada per la propria strada».

Parole che certo peseranno sul nuovo corso dei rapporti tra Turchia ed Europa e ricordano che non c’è più Davutoglu a mettere i paletti alle trattative, ed Erdogan non accetterà alcuna lezione sul terrorismo.

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