Khosrokhavar: ecco da dove nasce
lo jihadismo femminile

Anna Tito intervista Farhad Khosrokhavar

Da Reset Dialogues on Civilizations 

Se restano per molti aspetti misteriose le motivazioni per le quali i giovani uomini molto di recente ‘convertiti’ decidono – o hanno finora deciso – di andare a combattere con i “fanatici di Dio” in Siria e in Iraq, la scelta delle ragazze nate e cresciute in Europa ‘all’occidentale’, “ci disorienta del tutto” ammette a Reset il sociologo Fahrad Khosrokhavar, coautore – con lo psicanalista Fethi Benslama dell’Accademia di Tunisia – di Le Jihadisme des femmes. Pourquoi elles ont choisi Daech [Lo djihadismo delle donne. Perché hanno scelto lo Stato islamico], apparso poche settimane fa da Seuil (112 pagg., 15 euro). “Non soltanto si trasferiscono in territori in guerra, ma soprattutto si sottopongono a un ordine ‘maschilista’ in cui devono accontentarsi di soddisfare sessualmente i guerrieri della jihad e procreare”, e alcune pervengono addirittura a dirigere i “maqqar”, dimore riservate alle donne, o anche ‘bordelli islamici’, popolati di donne yazide e assire.

È in un caffè di Créteil, alla periferia sud-est di Parigi, che incontriamo Khosrokhavar. Iraniano di origine, responsabile dell’Osservatorio sulla radicalizzazione all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS), ha dedicato al tema dello ‘jihadismo’ dei giovani Radicalisation (ed. MSH 2014) e Prisons de France. Violence, radicalisation, déshumanisation… Quand surveillants et détenus parlent [Prigioni di Francia. Violenza, radicalizzazione, disumanizzazione… Parlano sorveglianti e detenuti] (Laffont 2016) in cui ha dimostrato che l’ambiente carcerario, per via della promiscuità che vi regna e delle leggi non scritte che ne regolano la vita quotidiana, costituisce un luogo più che propizio al formarsi di reti criminali o ‘jihadiste’.

Sono essenzialmente “umanitari, i motivi che hanno spinto le adolescenti ad arruolarsi – spiega – in reazione agli orrori perpetrati in Siria da Bashar Assad prima del sopravvento dello Stato islamico”. Ma altre hanno scelto “di seguire il loro compagno eroe e combattente e alcune sono partite da sole alla disperata ricerca di un uomo”, con una “visione romantica dell’amore, desiderose di sposarsi e di avere un figlio in giovanissima età”, per sentirsi così adulte, in aperta, apparentemente inspiegabile contrapposizione agli ideali femministi. In Francia queste ragazze provengono perlopiù dalle classi medie, specie le convertite. La “città islamica si basa sulla separazione dei doveri: la morte per gli uomini e la maternità per le donne”. Queste si sottomettono al ‘patriarcato’ per contrasto ai giovani a loro avviso poco maturi che incontrano quotidianamente e “idealizzano l’uomo che appare ‘virile’, intenzionato a morire per la causa, sul campo di battaglia”.

Con la religione in senso stretto gran parte degli arruolati ha ben poco a che vedere, poiché “tutto diviene religioso in un’Europa occidentale in cui non esiste più spazio culturale, né politico, né identitario. Daesh rappresenta una grande utopia, più di Al-Qaeda a suo tempo, movimento che non coinvolgeva le donne”. Lo Stato islamico “ha svolto anche un ruolo di antidepressivo: un video in più lingue incitava ‘Sei depresso, vieni da noi!’…” sorride Khosrokhavar.

Per lui però “la conversione, o l’accettazione della ‘ipermoralità’, imposta dall’islamismo radicale, viene spesso a celare un senso di colpevolezza che le adolescenti trasferitesi volontariamente avvertono nel corpo, nella sessualità, nella vita in generale”. Lo studioso, infatti, si dichiara dell’avviso che non poche di queste fanciulle hanno conosciuto in ambiente familiare violenze sessuali talvolta accompagnate a sevizie. La conversione appare allora come una salvezza dal suicidio, vissuto come desiderio di martirio morale o di sacrificio attraverso il marito che muore combattendo, in quanto “l’islamismo radicale promette loro una nuova femminilità integrale”, tanto che una delle ragazze interrogate preferisce “accettare la poligamia che vedere il compagno tradirmi”. Il “fondamentalismo femminile” viene tuttavia – secondo Khosrokhavar – alimentato anche dall’“intolleranza laica”: perché proibire il burkini, o il foulard?”. “Il vero repubblicanesimo consiste non nel togliere il foulard, ma di far sì che queste donne diventino delle repubblicane con il foulard”, dichiara lo studioso. La legge “non risolve il problema”, e occorrono interventi, “di tipo culturale, politico, sociale”. Auspica pertanto un atteggiamento “più neutro nei confronti dei simboli religiosi”, per smontare la convinzione che l’Islam e i musulmani vengano discriminati dai francesi e che esista una “rottura nell’eguaglianza”.

Non secondaria gli appare un’altra questione, quella della povertà: nelle città europee ad alta concentrazione di musulmani – constata – “predomina, e con essa la ‘ghettizzazione’; lo ‘jihadismo’ viene pertanto a unire i cittadini di seconda classe”. Rileva, quindi, con un certo rammarico l’assenza di una “lotta sociale, quale esisteva negli anni ‘70”, e in mancanza di questa auspica “una forma di lotta sociale pacifica”.

Riflettendo sull’eguaglianza nella République, lo studioso si è di recente interrogato anche sul trattamento – sbilanciato, a suo avviso – di ebrei e musulmani: sono due pesi e due misure quelli messi in atto in Francia nei confronti delle due comunità: con Michel Wieviorka, allievo, così come Khosrokhavar, del sociologo Alain Touraine, ha inteso smontare tutti i clichés e i déjà vus nel volume Les juifs, les musulmans et la République [Gli ebrei, i musulmani e la Repubblica] apparso in marzo da Laffont, e scritto sotto forma di dialogo. Alla ricerca di un nuovo modello di società, gli autori denunciano al tempo stesso “un fondamentalismo islamico” e un “fondamentalismo laico”, e mettono in evidenza la duplice crisi che investe tutta l’Europa: quella del “multiculturalismo” di tipo anglosassone e quella del “monoculturalismo”, ovvero il “repubblicanesimo” alla francese. Entrambi i modelli, ci spiega Khosrokhavar, “sono ben lungi dal funzionare” e “occorrerebbe un ulteriore modello – prosegue – che apra delle prospettive di comunicazione fra i diversi gruppi”. Proprio “nell’illusione che il multiculturalismo possa risolvere tutti i problemi” consiste l’errore dell’Europa.

In Francia vivono “la comunità ebraica più numerosa d’Europa – circa mezzo milione di persone – e circa cinque milioni di musulmani, più che in ogni altro Paese del Vecchio Continente”: quanto agli ebrei, “essi avvertono che l’antisemitismo va intensificandosi”. I musulmani invece, “li si sospetta di passività se non di complicità con lo ‘jihadismo’, e pertanto faticano a integrarsi; la loro presenza sul nostro territorio ha inoltre riacceso le passioni relative alla laicità. Insomma, la nostra Repubblica è in crisi, e spesso si rivela incapace a tener fede al suo ideale di eguaglianza e di fratellanza” avverte.

Ai musulmani si richiede “nello spazio pubblico di essere cittadini come gli altri, di non comportarsi da musulmani, e al tempo stesso di dichiarare che, per quanto seguaci di Allah, si oppongono all’islamismo radicale e al terrorismo”. Questa pretesa appare a Khosrokhavar, “contraddittoria e insopportabile”. Per gli ebrei, al contrario, “la memoria della Shoah fa da ostacolo a qualsiasi critica, consentendo agli ebrei di rendersi visibili nello spazio pubblico e farsi con forza partigiani della Repubblica”. Il tutto contribuisce a far sì che i musulmani si sentano discriminati.

Il sociologo non manca di rilevare un ulteriore elemento: “gran parte degli ebrei di Francia appartiene al ceto medio, mentre la maggioranza dei musulmani proviene dalle classi popolari”. Ciò implica che “gli ebrei possono sempre trasferirsi in Israele, dove vivono circa 150mila ebrei di origine francese”; al contrario “i musulmani non hanno luoghi in cui recarsi in alternativa alla Francia”. Si riscontra quindi uno squilibrio, “nonché pregiudizi, malintesi, alimentati anche dalla politica di Israele nei confronti dei palestinesi”, e dall’altra parte “gli ‘jihadisti’ hanno tentato, anche pervenendovi, di assassinare ebrei: ricordiamo fra gli altri l’episodio dell’ipermercato kasher del gennaio 2015, e l’attentato l’anno precedente nel museo ebraico di Bruxelles”.

Per contrastare il nazionalismo e il terrorismo, la soluzione va ricercata in una “riflessione comune fra ebrei e musulmani”, nell’obiettivo di pervenire a “un dialogo generalizzato in una Repubblica più tollerante, più aperta, più ‘umanizzata’”. Khosrokhavar e Wieviorka si appellano in conclusione a un “neorepubblicanesimo “che possa riconoscere al tempo stesso i valori democratici e il riconoscimento dei particolarismi”. È ora, ormai – e appaiono convinti – di trasformare “questa crisi in dibattito e di ripensare il vivere insieme”. È quanto propone il volume, a partire da un’ipotesi originale: “i musulmani e gli ebrei non sono forse i soggetti più adatti per indurre a riflettere su un ripensamento del modello repubblicano francese”? E questo proprio per permettere alla Francia di affrontare nel migliore dei modi i grandi pericoli attuali – terrorismo, razzismo, odio e intolleranza? E di certo – per Khosrokhavar – non sarà la République a trovare una soluzione: “deve venire dal basso, dalla società, in maniera autonoma”, invertendo la tendenza, tipicamente francese, di “aspettarsi che lo Stato risolva tutti i problemi”.

Credit: Ludovic Marin / AFP

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