Migranti, l’Europa in alto mare. I costi disumani delle nostre convenzioni

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Continui avvistamenti e imponenti salvataggi, a sud di Lampedusa: la missione umanitaria militare Mare Nostrum prosegue praticamente senza soluzione di continuità. Le ultime 327 persone sono state soccorse proprio in queste ore. Ma la risposta italiana alle ultime tragedie nel golfo di Sicilia, fatta di pattugliatori, fregate, elicotteri e anche droni, non è una risposta politica e come tale non è in grado di intervenire prima; prima che il traffico di esseri umani abbia inizio. Non è politica neanche la risposta dell’Europa, a cui si appellano le istituzioni italiane (lo hanno fatto anche ieri), pur sborsando da anni milioni di euro per programmi di assistenza e monitoraggio.

Dall’inizio dell’anno sono trentacinquemila gli uomini, le donne e i bambini che sono sbarcati sulle coste italiane, 9800 dei quali siriani; 8443 eritrei; 3140 somali. Ci sono poi afghani e maliani. E il 73% di loro necessita di protezione internazionale. A dimostrazione che da dove si muore, per guerra o per fame, si fugge anche quando non si ha la certezza di arrivare vivi dall’altra parte.

I numeri diffusi dal Ministero dell’Interno parlano di 24 mila persone che hanno chiesto o richiederanno asilo in Italia, perché è qui che sono sbarcate, tratte in salvo in alcuni casi dopo penosi rimpalli di responsabilità tra autorità di Malta e autorità libiche e non poche polemiche in Italia, che hanno trasformato questioni umanitarie in questioni politiche e di cifre. Perché le cifre, soprattutto in periodo di spending review, di Imu, Tares, Trise e Tasi, contano.

Quali sono i costi per Italia lo aveva calcolato nel mese di maggio l’associazione Lunaria, con un rapporto intitolato “Costi disumani”, in cui si mettevano a confronto le entrate, dei vari fondi comunitari, e le uscite per le politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare. In quest’ultima definizione c’entra tutto: la gestione delle emergenze, il controllo del mare e delle coste, il mantenimento dei centri per immigrati e richiedenti asilo, i vari Cie, Cara, Cpsa, Cda.

Il Fondo Europeo per le Frontiere Esterne è uno dei fondi istituiti nel quadro della gestione dei flussi migratori, nel 2007, che “finanzia sotto forma di sovvenzione una quota che varia dal 50% al 75% dei costi delle azioni proposte dagli Stati membri nei programmi annuali”.

Finanziamenti ripartiti sulla base delle necessità dei Paesi più esposti e con maggior carico di lavoro che per quel che riguarda l’Italia vengono gestiti dal ministero dell’Interno. Fino al 2013 sono stati stanziati in tutto1820 milioni di euro. All’Italia ne sono andati 165 e 500, mentre un’altra metà l’ha cofinanziata lo Stato italiano (166,3 milioni) spendendoli soprattutto in strumentazione di difesa e tecnica per sorvegliare le coste o per gestire poi la situazione a terra. Si va dal miglioramento dei sistemi informatici, all’acquisto di motovedette o elicotteri, ai veicoli per la Polizia d Stato.

Ma il vero bastione contro i flussi di migranti non regolari sarebbe dovuto essere Frontex, l’agenzia europea nata nel 2004 proprio per impedire eventi come quelli che stanno martirizzando il mare di Sicilia. Frontex è il nome che risuona sempre più spesso di fronte a simili tragedie perché, anche se la sua azione è rivolta verso tutti i tipi di frontiera, è soprattutto qui che opera, per ovvie ragioni legate alla politica e alla geografia. Tanto che il 2011, l’anno della primavera araba è stato anche quello economicamente più impegnativo (con lo stanziamento di 118 milioni di euro), seguito dagli 89 milioni e mezzo del 2012 e dagli 85 milioni e 700 mila del 2013. Cifre che vanno a comporre un totale di circa 600 milioni di euro in otto anni di attività. E anche in questo caso, la maggior parte è stata spesa per le strategie di controllo dei flussi, nell’analisi dei rischi, degli scenari, nella ricerca, nel training e nelle varie operazioni via mare come Hermes, Aeneas, Minerva, Indalo, Poseidon, Hera e nella missione Eurosur “il sistema pan-europeo di sorveglianza delle frontiere” degli Stati Schengen o meglio, come viene definito dai suoi stessi ideatori “il sistema dei sistemi”, decisa nel 2011 e pronta a divenire operativa.

Nel mare magnum delle sigle e dei nomi c’è poi il Fondo Europeo per i Rimpatri, volto a finanziare programmi di rimpatrio forzato e volontario, che tra il 2007 e 2013 ha messo a disposizione degli Stati membri 676 milioni di euro, di cui sono toccati all’Italia circa 36 milioni e mezzo (altri 26 sono stati forniti dalle casse nazionali). La maggior parte sono spesi per i rimpatri forzati, anche se secondo il diritto internazionale non sono attuabili là dove il ritorno in patria rappresenti un rischio per la vita della stessa persona. La Convenzione di Ginevra è chiara in merito: nessuno Stato Contraente (e il nostro Paese lo è, ndr) espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Ed è anche questa una delle ragioni per cui l’intervento delle autorità libiche nei salvataggi in mare avrebbe creato delle condizioni d’incompatibilità con le norme.

Qui pare esserci il vero nodo della questione; quello su cui il sentire popolare subisce di più umori della politica. Chi ha il dovere di intervenire in caso di pericolo in mare?

La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 prescrive che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita”. La Convenzione di Dublino dispone inoltre che: “se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro”. In sostanza, c’è l’obbligo di soccorrere chi è in pericolo e chi soccorre poi deve concedere la possibilità di fare domanda di asilo politico, a meno che non ci sia un altro Stato membro che si offra di farlo. A questo è dovuto il penoso ping pong nel bel mezzo di emergenze umanitarie che però il più delle volte è vinto dalle autorità maltesi che sul filo del diritto si sono messe al riparo. Sulla base della Convezione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (SAR-Search and Rescue) l’area d’intervento maltese è un trapezio di 25mila chilometri quadrati; una zona piuttosto ampia in cui è tenuta a garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare. Tutto questo spesso si riduce ad accompagnare le imbarcazioni fuori dalla loro zona di competenza o a vietare l’attracco a navi non maltesi, come accaduto lo scorso agosto. La giustificazione è quella delle esigue dimensioni dell’Isola (grande neanche una volta e mezzo l’Isola d’Elba), l’impossibilità di dare accoglienza e il non aver siglato gli emendamenti al Sar e alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS), che delineano meglio compiti e definizioni dei firmatari. Ed è difficile credere che l’Unione Europea possa avere una giurisdizione che agisca sul diritto internazionale.

In questa viaggio in acque poco sicure, c’è infine il discusso capitolo dei centri per immigrati, diffusi da anni su tutto il territorio nazionale. Sappiamo che per ogni migrante trattenuto vengono stanziati dai 37 fino anche ai 90 euro al giorno, gestiti dalle varie cooperative che ne hanno in appalto da parte del Ministero dell’Interno o in subappalto da soggetti pubblici o privati la conduzione. Ma a farci un giro (in realtà basterebbe entrare nel CIE di Ponte Galeria a Roma) e a vederne le condizioni, ci si rende facilmente conto che i conti non tornano e che o questi soldi vengono spesi molto male o, prima di arrivare ai vari centri, subiscono quel fenomeno che in fisica verrebbe definito col termine di “dispersione”.

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