Non si spegne la voglia di cambiare
In Iran sei mesi dopo Mahsa Amini

L’ondata di proteste che ha percorso l’Iran nell’autunno scorso sembra in declino. Finite le manifestazioni di piazza, da qualche tempo tacciono anche gli slogan urlati dalle finestre nella notte, il gesto di dissenso collettivo che spesso ha accompagnato i momenti di crisi politica nel Paese. Almeno da gennaio, le notizie che arrivano dall’interno dello Stato segnalano piuttosto gesti minimi, benché diffusi: qua e là uno striscione appeso a un cavalcavia, una scritta su un muro, piccole manifestazioni estemporanee. Segni che la rabbia collettiva continua a covare. Arrivano però anche altre notizie: un documento politico firmato da sindacati indipendenti, organizzazioni di donne e gruppi studenteschi; appelli al cambiamento; una proposta di referendum costituzionale.

Facciamo il punto. Quasi sei mesi dopo la morte della giovane Mahsa Jina Amini in custodia della cosiddetta “polizia morale” a Teheran, la legittimità politica della Repubblica islamica non è mai stata così in crisi. Questo non vuol dire che il regime stia crollando, per lo meno non in tempi brevi: ma la sfiducia collettiva verso lo Stato e gli apparati di sicurezza è profonda.

Un ritratto di Mahsa Amini (foto di Atta Kenare/Afp)

Alimentata dall’indignazione per quella morte assurda, la protesta scoppiata a settembre ha coinvolto tutto il Paese. Ha mobilitato donne e uomini di diverse estrazioni sociali: studenti e giovani disoccupati, campus universitari e quartieri popolari; scolarette; insegnanti; a volte lavoratori. È stata un’esplosione collettiva di insofferenza verso le regole di comportamento dettate da uno Stato religioso, di cui l’abbigliamento islamico – in particolare il hejjab delle donne – è il simbolo. Molto presto però il movimento si è ampliato. Ha raccolto una rabbia diffusa contro l’arbitrarietà del potere, la corruzione, le ristrettezze economiche in cui vivono strati sempre più ampi di classe media, le diseguaglianze sempre più marcate, la frustrazione di chi vede una piccola élite che si arricchisce all’ombra delle sanzioni. Il senso di soffocamento dei giovani, soprattutto, che non vedono prospettive e si sentono privati del futuro.

Le proteste “sono l’inevitabile risultato di politiche sorde alle istanze della società”, si leggeva in un lungo documento pubblicato dalla Società iraniana di Sociologia sul suo sito web nei primi giorni dell’ottobre scorso (anche in inglese). L’associazione accademica parlava della brutalità della polizia e di un “crescente scollamento tra i valori e le norme dello Stato e quelli dei cittadini”. Accusava: “i metodi umilianti [della polizia morale] basati su stereotipi di genere non ridurranno certo questo scollamento (…) le operazioni della polizia morale vanno fermate, per rispetto dell’anima innocente di Mahsa Amini”. Oggi in effetti la polizia morale non si vede più per le strade, anche se non è chiaro se sia stata formalmente abolita, o riformata secondo gli annunci del ministro della “Cultura e Guida islamica”. Troppo tardi però, e troppo poco.

“L’insoddisfazione pubblica per come è governato il Paese è sempre più alta”, proseguiva il documento della Società di Sociologia: “I cittadini non riescono a soddisfare i bisogni più elementari, gli standard di vita di deteriorano ogni giorno di più. … La società soffre per la diffusa povertà e una corruzione pervasiva, la disoccupazione, i prezzi che continuano a salire, l’incapacità del governo di gestire la cosa pubblica, la crisi ambientale, e così via”. Lo Stato deve ascoltare, dicevano i sociologi: “l’uso di metodi coercitivi contro i cittadini porterà a un’escalation di tensione”.

Così è successo. La risposta dello Stato è stata violenta: si parla di oltre 500 persone uccise durante le dimostrazioni, tra cui decine di ragazzini e bambini (e numerosi agenti dell’ordine), e di quasi 20mila arresti, secondo notizie raccolte da Human Rights Activists News Agency (Hrana, che ha sede in Europa). Centinaia di video hanno mostrato una brutalità insopportabile da parte dell’apparato di sicurezza. Abbiamo avuto notizia di processi celebrati per direttissima, in modo sommario, su confessioni estorte con la forza, conclusi con sentenze draconiane. Quattro condanne a morte sono state eseguite tra dicembre e gennaio, suscitando sgomento all’interno e all’esterno del Paese. Anche il dissenso di molti clerici: non si può usare l’accusa di moharebe, “guerra contro dio”, per giovani che esprimono legittime proteste.

La repressione è stata particolarmente dura nelle province del Kordestan nel nord-ovest (di cui era originaria Mahsa Jina Amini) e del Sistan-Baluchistan nel sud-est del Paese, dove alle ragioni generali di protesta si somma la storica diffidenza del governo centrale verso minoranze etniche e religiose.

La repressione si è accanita in modo particolarmente brutale sulle classi più popolari. Lo testimoniano le biografie delle persone messe a morte: in dicembre sono stati impiccati Mohsen Shekari, 23 anni, barista a Teheran, e Majid Reza Raznavard, 23, che lavorava saltuariamente in un negozio. A gennaio è stata la volta di Seyyed Mohammad Hosseini, 39, operaio, e Mehdi Karami, 22, campione di karate senza lavoro, figlio di un venditore ambulante. Altre sentenze di morte sono state emesse, un numero per la verità imprecisato; si spera che saranno sottoposte a revisione, ma intanto pendono come una minaccia. Il New York Times ha raccolto notizie biografiche su alcuni dei condannati, coloro di cui ha potuto trovare verifiche: quasi tutti vengono dagli strati più bassi della società.

L’attrice Tahrane Alidoosti, co-protagonista del film premio Oscar “Il cliente” (foto di Mahdi Aziminejad, Nasim News Agency da Wikimedia Commons)

Lo stesso vale per gli arresti. Hanno attratto l’attenzione internazionale i casi di noti intellettuali o artisti finiti in carcere per aver espresso solidarietà con i manifestanti. L’attrice Tahrane Alidoosti ha passato due settimane e mezzo nel carcere di Evin, a Teheran, prima di essere scarcerata su cauzione; il regista Jafar Panahi, agli arresti da luglio, è stato rilasciato all’inizio di febbraio dopo uno sciopero della fame. Anche il regista Mohammad Rasoulov è stato scarcerato a febbraio, dopo sette mesi di detenzione. La cultura è da sempre un terreno di battaglia politica in Iran, e per la magistratura i cineasti sono una spina nel fianco.

Molto meno però sappiamo delle migliaia di persone arrestate durante le proteste di strada, per lo più giovani, quasi sempre figlie e figli di famiglie più modeste, lavoratori, disoccupati, la classe media impoverita da anni di crisi economica e di sanzioni. Per queste famiglie pagare la cauzione per i propri figli può significare indebitarsi o impegnare la propria casa. Spesso questi giovani tornano con storie di violenza terribili; le organizzazioni per i diritti umani hanno raccolto testimonianze di abusi fisici e anche di stupri. Spesso le famiglie vengono intimidite perché non parlino, ma questo non ha impedito che emergessero notizie inquietanti e interrogativi pubblici.

Il regista Jafar Panahi alla 56esima Berlinale (2006), dove ha vinto l’Orso d’argento per il film “Offside”. (foto di Siebbi, Wikimedia Commons)

Il paradosso è che nella retorica ufficiale i mostazafin, “diseredati”, sono il pilastro della Rivoluzione islamica. E in effetti questi sono stati e per lo più restano la base del consenso, anche grazie a un sistema sociale piuttosto paternalista: una sorta di scambio democristiano in versione iraniana, un “welfare” fatto di pensioni e posti di lavoro elargiti dalle potenti Fondazioni islamiche a vedove e orfani dei martiri di guerra, di benefici per i dipendenti pubblici, l’accesso a negozi di Stato con prezzi controllati. O al sistema di sussidi in contanti per le famiglie, varato dall’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad e sempre rimasto in vigore: anche l’attuale presidente Ebrahim Raisi ha risposto alle proteste sociali dell’ultimo anno con un po’ i versamenti alle famiglie sotto la soglia di povertà.

Ma il malumore ormai dilaga anche nello “zoccolo duro” del sistema di consenso: perché l’inflazione vanifica i sussidi, la disoccupazione cresce, i redditi calano, mentre tutti vedono aumentare grandi fortune speculative ammassate da chi ha buone connessioni con il potere. Ma quando le classi popolari mostrano segni di rivolta, lo Stato le percepisce come una minaccia e il “pilastro della Rivoluzione” diventa massa facinorosa. E su di loro la repressione è più feroce.

Anche al centro delle proteste degli anni recenti in Iran c’erano queste classi, innescate ora dall’aumento del prezzo della benzina o dei generi alimentari, ora dalle vertenze di insegnanti o pubblici dipendenti, dei pensionati, o dei lavoratori precari dell’industria petrolifera. Tutte queste proteste sono state schiacciate con una forza inaudita. Nessuna ha rappresentato una minaccia esistenziale al sistema della Repubblica Islamica: perché sono movimenti per lo più spontanei, non organizzati. Almeno per ora non è emersa un’alternativa politica, una leadership in grado di coagulare lo scontento che pure continua a crescere.

Eppure, la società civile iraniana non è un deserto. E anche in questi ultimi mesi si è sviluppato un dibattito pubblico (anche se di rado i media internazionali ne hanno dato notizia), con diverse voci.

L’ultima è giunta sul web il 13 febbraio: un documento firmato da una ventina di sindacati indipendenti, gruppi femministi, o studenteschi. Afferma che 44 anni dopo la rivoluzione del 1979 “una crisi economica, politica e sociale ha travolto il Paese, ma è chiaro che non sarà possibile trovare una soluzione all’interno del sistema politico esistente” (il corsivo è nostro). Afferma che la protesta di “donne, studenti, insegnanti, lavoratori, attivisti, artisti, scrittori (…) è una protesta contro la misoginia, la discriminazione di genere, l’insicurezza economica, il lavoro sfruttato, l’oppressione etnica e religiosa; contro ogni forma di tirannia religiosa e non che ci è stata imposta nell’ultimo secolo”. Prosegue con una serie di “richieste minime”: dal rilascio dei prigionieri politici, alla libertà di espressione, pensiero, organizzazione sindacale e politica; alla libertà di assemblea e manifestazione e di accesso ai social media. Chiede di abolire la pena di morte e cancellare le sentenze emesse. Sancire la parità di diritti tra donne e uomini in tutte le sfere, politica, economica, sociale. Garantire la sicurezza del lavoro e aumenti di salario a insegnanti e dipendenti pubblici, attivi o in pensione. Che la religione sia “un fatto privato”. Di mettere fine alla devastazione ambientale. Infine, di “normalizzare le relazioni estere al più alto livello con tutti i Paesi al mondo, fondate sul reciproco rispetto, sul bando alle armi nucleari per perseguire la pace mondiale”.

I firmatari di questa piattaforma sono gruppi del tutto indipendenti sorti all’interno dell’Iran nell’ultimo decennio (alcuni anche prima) spesso sull’onda di scioperi e agitazioni di lavoratori – come quelli dello zuccherificio Haft Tappeh, già protagonisti di un lungo sciopero alcuni anni fa (molti dei loro dirigenti sono passati per la galera) – o dall’attivismo delle donne, o tra gli studenti: una società civile organizzata “dal basso”, anche se per ora frammentaria.

Anche la variegata corrente riformista ha moltiplicato le condanne della repressione, e gli appelli ad ascoltare le richieste dei cittadini. Negli ultimi due anni però i riformisti sono stati del tutto emarginati dalla vita politica. Con l’amministrazione del presidente Ebrahim Raisi, un ultraconservatore eletto nel giugno 2021 con l’affluenza al voto più bassa nella storia dell’Iran e senza avversari, perché ogni contendente al voto con qualche peso era stato escluso, il potere delle fazioni più oltranziste della Repubblica Islamica è diventato totale: sono in maggioranza nel Parlamento, controllano la magistratura, il governo, e i vari poteri separati dello Stato. (Insipienza del potere: la scorsa estate il governo Raisì ha emanato norme per rafforzare i controlli sull’abbigliamento e i comportamenti pubblici, instituito una “giornata della castità”, rafforzato la polizia morale. Segno di quel “crescente scollamento” segnalato dai sociologi, sotto gli occhi di tutti salvo che di un regime cieco).

Al terzo mese di proteste, a dicembre il governo ha invitato alcuni noti esponenti riformisti a partecipare a un “dialogo nazionale”, nel tentativo di calmare gli animi. Gesto vano, tardivo, non credibile. In quegli stessi giorni venivano eseguite le prime sentenze di morte: altroché dialogo.

Invece, diverse voci hanno cominciato a parlare di riforme del sistema politico. Uno è l’ex presidente Mohammad Khatami, colui che alla fine degli anni ’90 ha avviato le prime aperture democratiche nel paese.

Mir Hossein Mousavi (foto di Hamed Saber, Flickr)

La proposta più radicale però è quella di Mir Hossein Mousavi, l’ex primo ministro (negli anni ’80) ed ex candidato presidenziale nelle contestatissime elezioni del 2009 che innescarono il movimento di protesta noto come “onda verde”. Mousavi, che dal 2011 si trova agli arresti domiciliari, fa appello a un referendum costituzionale. “L’ostinazione del potere, che risponde con la repressione invece di ascoltare le legittime richieste dei cittadini, fa crescere la distanza tra i governanti e il popolo”, dice in un messaggio affidato al web. Parla di crisi economica, sociale, politica, crisi ambientale, crisi di legittimità: “Ma la crisi delle crisi sta nella struttura contraddittoria del sistema costituzionale” del Paese, afferma Mousavi. Propone quindi un referendum tra i cittadini sulla necessità di scrivere una nuova costituzione; in caso positivo, eleggere a suffragio universale un’assemblea costituente, perché scriva “una nuova Carta fondamentale, basata sullo Stato di diritto”, da sottoporre infine al voto popolare.

L’idea di un referendum sull’assetto costituzionale circola da tempo nelle correnti più critiche della Repubblica Islamica, anche se è la prima volta che se ne fa portavoce anche uno come Mousavi, pur sempre un esponente della nomenklatura rivoluzionaria. Ma non sarà facile riformare il peculiare sistema costituzionale che è la Repubblica Islamica dell’Iran: dove istituzioni elettive proprie di una democrazia parlamentare coesistono con organi di potere che pretendono di rappresentare la “legge di Dio”, sono cooptati da un Leader supremo, e solo a lui rispondono.

Una nuova assemblea costituente oggi non sembra all’ordine del giorno, in Iran: troppo forte ancora il sistema di potere, in tutte le sue articolazioni – dall’ufficio del Leader supremo al potere economico accentrato in una piccola oligarchia intorno alle Guardie della Rivoluzione.

Ma la proposta di Mousavi, o anche le proposte di riforme più limitate che circolano in queste settimane perfino tra esponenti “moderati” del potere, hanno in comune un punto: la consapevolezza che la crisi di legittimità raggiunta dalla Repubblica islamica è insostenibile. Ora dal potere vengono segnali “concilianti”, l’ultimo è la (limitata) amnistia per coloro che sono stati arrestati nelle proteste di piazza. Ma restano tutte le crisi enumerate da Mousavi, o dai sindacati indipendenti, o dai sociologi: lo scollamento tra il potere e i cittadini resta profondo, anzi aumenta. Senza un vero cambiamento, l’esplosione è solo rinviata.

Foto di copertina: una donna passa davanti a un murales che raffigura la bandiera iraniana (foto di Morteza Nikoubazl/NurPhoto via AFP).

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