In Iran la protesta non si ferma.
Incrinature nel regime

C’è qualcosa di trascinante nelle immagini che arrivano dall’Iran negli ultimi giorni. Innumerevoli video condivisi sui social media mostrano studentesse a capo scoperto, campus universitari che risuonano di slogan, perfino ragazzine delle scuole medie che sventolano in aria i foulard neri e cacciano via il rappresentante dei Basij – la milizia islamica spesso usata per mantenere l’ordine. Scene impensabili dieci o vent’anni fa. Chi avrebbe immaginato, anche solo in tempi recenti, una simile ebollizione, una sorta di rivolta anti-autoritaria.

L’Iran ha già conosciuto in anni recenti ondate di protesta estese a tutto il paese: quelle del 2017, innescate dal taglio drastico delle sovvenzioni sul prezzo del carburante (era presidente il pragmatico Hasan Rohani), e quelle del dicembre del 2019, quando nuove rivolte contro il carovita sono state represse in modo brutale. L’ultima ondata di scontento si è materializzata lo scorso maggio, sempre per l’aumento dei prezzi, e ha coinvolto diverse categorie di lavoratori, insegnanti, piccoli commercianti: la piccola classe media impoverita dall’inflazione.

Questa volta invece si tratta d’altro: un moto collettivo di insofferenza verso le regole di comportamento imposte da uno Stato religioso. A innescare l’indignazione generale infatti è stata la morte di una giovane donna, il 16 settembre 2022, in custodia della cosiddetta “polizia morale” che l’aveva arrestata perché non rispettava le norme di abbigliamento islamico. Le foto di Mahsa Amini, 22 anni, in coma sul lettino d’ospedale erano ampiamente circolate sui social media, suscitando sconcerto. Il giorno del suo funerale, nella cittadina del Kurdistan dove risiede la famiglia, la rabbia era palpabile. Il 18 settembre le proteste si sono estese a Teheran e poi a tutto l’Iran, come testimoniano numerosi video caricati sui social media: in una decina di giorni avevano coinvolto un’ottantina tra città e piccoli centri urbani.

Così abbiamo visto ragazze che bruciano i propri foulard, o arringano la folla dal tetto di un’automobile. Donne che si tagliano i capelli, gesto di protesta e di lutto; altre che urlano “ergogna” ai Basij che sfrecciano in moto tra la folla menando manganellate. Abbiamo sentito scandire “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo Shah. O “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”. Fino a quello che è diventato lo slogan più diffuso: zan, zendeghi, azadì, “donna, vita, libertà”.

Cosa succede dunque in Iran? Le protese continuano ormai da quasi un mese, anche se oggi è difficile valutarne l’intensità. Hanno coinvolto donne e uomini, città grandi e piccole, e diversi strati sociali – proprio come le dimostrazioni contro l’aumento dei prezzi, e questo è interessante. Dimostrazioni sono avvenute negli ultimi giorni in zone di classe operaia come il quartiere di Nazi Abad, nel sud di Teheran. Perfino tra i lavoratori dell’industria petrolifera: un video circolato lunedì 10 ottobre mostra operai di Asaluyeh, il più importante impianto petrolchimico presso Bushehr sul Golfo Persico, scandire slogan in solidarietà alle donne e ai concittadini che protestano. I lavoratori di Asaluyeh, tra cui molti con contratti a termine, sono in agitazione da mesi e rivendicano migliori salari e protezioni contrattuali, quindi questioni prettamente di giustizia economica: ora però nella loro protesta entrano le donne angariate dalla polizia morale.

Proteste così diffuse hanno colto di sorpresa lo Stato. Dapprincipio il vertice della Repubblica islamica ha cercato di correre ai ripari: il presidente iraniano Ebrahim Raisì in persona aveva telefonato al padre di Mahsa Amini per esprimere cordoglio e promettere un’inchiesta. Il leader supremo Ali Khamenei ha mandato il suo più stretto collaboratore a casa Amini per esprimere “grande dolore”. Il capo delle brigate morali è stato sospeso. Il ministro della Cultura e guida islamica ha detto che già prima pensava di sottoporre a riforma la “polizia morale”. Intanto però le autorità hanno sostenuto che Amini è deceduta per un problema cardiaco preesistente – non per le percosse ricevute nel furgone della polizia, come hanno denunciato invece le ragazze fermate insieme a lei. La famiglia ha ribattuto che Mahsa non soffriva affatto di cuore; il padre ha detto alla Bbc che non gli hanno neppure permesso di vedere il suo corpo. Insomma: le scuse ufficiali non hanno spento l’indignazione pubblica, anche anzi è divampata.

Lo Stato ha risposto con la repressione. Da un lato la forza: lacrimogeni contro pacifici assembramenti, manganelli, proiettili di metallo ad altezza d’uomo (secondo alcune organizzazioni per i diritti umani anche proiettili veri). Dall’altro la censura: internet è stato limitato, oscurati social media come WhatsApp o Instagram – anche se questo non ha davvero fermato il flusso di video, foto, notizie che vanno in rete. Infine, le accuse: dopo i primi giorni di cordoglio, i media hanno cominciato a usare altre parole: disordini, anarchia, terrorismo. Il regime ha organizzato una grande manifestazione di “sostegno alla Repubblica islamica” contro i “complotti esterni”.

Come già in occasione di altre ondate di protesta infatti lo stato ha accusato “nemici esterni” di aver organizzato il disordine. Kayhan, giornale considerato voce ufficiale del Leader supremo, ha spiegato che “controrivoluzionari” stanno cercando di minare le basi della Repubblica islamica. Mahsa Amini era kurda, una delle numerose minoranze che formano l’Iran, e nella provincia del Kurdistan è avvenuta la repressione più dura (proprio come in passato qui sono state represse in modo particolarmente duro le proteste sindacali, bollate di simpatie separatiste).

Fatto sta che nel suo primo discorso pubblico da quando sono cominciate le proteste, il leader supremo Khamenei è stato tassativo: la morte di una ragazza ci addolora, ma i disordini sono un complotto organizzato dai nemici esterni. Punto.

Invece le proteste, che a fine settembre sembravano spegnersi, si sono riaccese nelle scuole e nelle università riaperte il primo ottobre (l’anno accademico cominciava il 24 settembre, ma nella prima settimana le lezioni sono state tenute online per evitare dimostrazioni): così abbiamo visto studentesse e studenti urlare slogan nei campus di tutto il paese, cariche di polizia, arresti. In un caso il presidente Raisì è stato fischiato e zittito dagli studenti. Nuove dimostrazioni sono avvenute l’8 ottobre, per calare di nuovo nei giorni successivi.

Il bilancio è pesante, anche se è difficile avere notizie precise. I media ufficiali a fine settembre parlavano di 41 morti tra cui diversi agenti di sicurezza, numero che non è più stato aggiornato. L’organizzazione Iran Human Rights, che ha sede in Norvegia, parla di 185 morti (al 10 ottobre). Sono circolate foto di ragazze uccise durante le proteste. Quella di Nika Shakarami, 16 anni, è la più nota: era uscita per andare a una dimostrazione, il suo corpo è stato ritrovato senza vita in un cantiere, come se fosse caduta da un edificio in costruzione. Uccisa dalla polizia che l’aveva arrestata, come sostiene sua madre, o da ignoti in circostanze da chiarire? In ogni caso i video di lei che recita poesie per la libertà, e le foto di altre ragazze morte in questo mese di proteste, sono diventati un nuovo simbolo della battaglia delle donne iraniane. E non solo delle donne, ormai.

Forse è proprio questo il punto. In maggio, per correre ai ripari, il presidente ha annunciato nuovi sussidi per le famiglie in stato di povertà. Ma cosa risponderà a centinaia di migliaia di ragazze – con e senza il velo, a giudicare dalle foto circolate – che hanno egualmente protestato per la morte di Mahsa Amini? Segno che l’insofferenza verso uno Stato che pretende di imporre come bisogna vestirsi è diffusa, ben oltre le classi medio-alte urbane o quelli che il regime chiama con sprezzo “occidentalizzati”. Paradossalmente le proteste di oggi sono una conseguenza, forse non voluta, proprio della Rivoluzione del 1979: perché la Repubblica islamica ha limitato i diritti delle donne e imposto il velo, certo, ma ha anche favorito la scolarizzazione e anche l’attivismo femminile e negli strati più popolari. Le donne che avevano fatto la rivoluzione, poi hanno combattuto per restare nello spazio pubblico – e infatti oggi ci sono. Le loro figlie e nipoti sono entrate in massa nell’università (oggi il 60 per cento degli iscritti all’università sono donne), nelle professioni, nella cultura. Sono le “nipoti della rivoluzione” che oggi sventolano i foulard e urlano “vergogna” ai Basij.

Invece, l’amministrazione del presidente Raisì ha dato più spazio e potere proprio alle brigate che vanno in giro a schiaffeggiare e arrestare le “malvelate”. Un presidente eletto nel giugno 2021 con l’affluenza al voto più bassa della storia della Repubblica islamica, praticamente senza avversari (dopo che i tutti candidati di qualche peso erano stati esclusi dalla competizione elettorale), cerca di rafforzare la sua legittimità lasciando più spazio all’apparato – le milizie, i Basij, i corpi più estremi del sistema. Un episodio del luglio scorso è significativo: una donna è stata arrestata dopo che è circolato online il video in cui si vede un’autoproclamata “guardiana” che la rimbrotta sonoramente, su un autobus, accusandola di essere vestita in modo scorretto. Vittima di questo trattamento è Sepideh Rashno, 28 anni, scrittrice e artista; pochi giorni dopo l’arresto è stata mostrata in tv mentre si dice contrita, una confessione estorta. In quei giorni decine di donne sono state arrestate e costrette a seguire lezioni di morale islamica; infatti il governo Raisì ha dichiarato il 12 luglio “giorno della castità”. Lo stesso presidente ha firmato il 15 agosto un decreto che impone nuove misure per far rispettare i codici di abbigliamento. Come se non avesse capito in che paese si trova.

Ma ecco che, un mese dopo, proprio la brutalità della polizia morale accende la protesta più estesa degli ultimi anni. Il governo dovrà fare qualche marcia indietro? Nell’ultimo mese la polizia morale è scomparsa dalle strade e il presidente del parlamento Mohammad Baqr Qalibaf (conservatore) ha dichiarato il 2 ottobre che spingerà per cambiarne il funzionamento, perché non si debbano ripetere casi come quello di Mahsa Amini. Altri vanno oltre. Non solo tra le correnti riformiste si sentono aspre critiche. Il 12 ottobre Ali Larijani, ex presidente del parlamento nella scorsa legislatura, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, figura di spicco della nomenklatura islamica, ha dichiarato in una lunga intervista che “serve più tolleranza”, e che far osservare l’hejab “non dovrebbe essere affare dei Basij o della polizia” (l’intervista è ampiamente citata qui).

Prima o poi le proteste si sopiranno, è probabile: in fondo quello a cui assistiamo in Iran è un movimento spontaneo, non un’opposizione organizzata.

Ma restano tutte le motivazioni che hanno portato tanti iraniani, donne e uomini, a sfidare le forze di sicurezza nelle strade. Nelle proteste confluiscono tante cose: il peso delle ristrettezze economiche, la mancanza di prospettive che soffoca un’intera generazione, la sensazione di non avere voce. Dopo la morte di Mahsa Amini, questo ora fa tutt’uno con l’insofferenza collettiva verso il sistema di prescrizioni e divieti di cui il hejjab è il simbolo più forte. La domanda è se la Repubblica islamica saprà trasformarsi, e rispondere alla domanda di futuro dei suoi cittadini.

 

Foto: La prima pagina del giornale iraniano Hafteh Sobh sulla morte di Mahsa Amini. Teheran, Iran, il 18 settembre 2022. (Atta Kenare/Afp).

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