Se la “rivolta degli affamati” in Iran
rivitalizza l’accordo sul nucleare

L'ondata di proteste mette sotto pressione Raisi. Ma la strada diplomatica è stretta

Le immagini circolano sui social media: mostrano folle che urlano slogan contro l’aumento dei prezzi e contro il governo, a Tehran e altre importanti città iraniane. Scene simili si ripetono ogni settimana almeno da maggio, e testimoniano di una nuova ondata di proteste in Iran. Coinvolgono donne e uomini, giovani e vecchi; i commercianti, i dipendenti pubblici, i pensionati. In giugno in particolare sono scesi nelle strade anche gli insegnanti, che chiedono aumenti salariali e il rilascio dei loro colleghi arrestati durante precedenti proteste.

In questi stessi giorni, altre immagini hanno richiamato l’attenzione sull’Iran: quelle del capo-negoziatore iraniano Ali Bagheri Kani che arriva a Doha, capitale del Qatar, per un round di colloqui indiretti con l’inviato degli Usa Robert Malley; l’incontro era mediato dall’Unione Europea, oltre che dagli emiri del Qatar. A differenza dei precedenti round di colloqui svolti a Vienna, quelli di Doha non coinvolgono i rappresentanti di Gran Bretagna, Francia e Germania, Russia e Cina, cioè gli altri paesi firmatari dell’accordo sul nucleare che ora si tenta di rilanciare. L’accordo, noto come Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), firmato nel 2015, aveva portato l’Iran a limitare drasticamente le sue attività nucleari sotto il controllo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), ma era stato vanificato quando gli Stati Uniti avevano deciso di uscirne, nel maggio 2018, per decisione dell’allora presidente Donald Trump.

Le agitazioni sociali interne e i negoziati per riportare in vita l’accordo sul nucleare tra Tehran e le potenze mondiali non sono direttamente collegati. Eppure, in Iran la scena interna e quella internazionale non sono mai molto distanti. Vediamo perché.

 

Rabbia dal basso

L’ultima ondata di proteste in Iran ha una data di inizio: il 5 maggio, quando il governo ha annunciato l’ennesimo taglio delle sovvenzioni sul prezzo di beni alimentari. Nelle settimane precedenti erano venuti meno i prezzi controllati su olio di semi, carne, pollame; questa volta è saltata la sovvenzione sul prezzo della farina, quindi del pane. In pochi giorni il prezzo del pane comune è aumentato fino a cinque volte, e così anche la rabbia dei cittadini. Sui quotidiani sono circolati commenti molto critici, non solo dell’opposizione riformista ma anche di numerosi deputati della maggioranza di governo. Perfino un ex ministro dell’intelligence, Mohammad-Javad Azari Jahromi, ha ammonito il presidente Ebrahim Raissì che si prepara “una rivolta degli affamati”.

Da maggio in effetti i prezzi di olio di semi, uova, pane e latticini sono rincarati fino al 300 per cento. Proteste sono scoppiate un po’ ovunque. Sui social media sono circolate scene come questa, dove i volti sono sfocati ma si sentono persone protestare per i salari che non arrivano, con improperi al governo e anche al Leader supremo (l’ayatollah Ali Khamenei, prima autorità dello Stato).

Il presidente Raissi ha cercato di correre ai ripari e il 15 maggio, dopo una riunione di gabinetto, ha annunciato nuovi sussidi alle famiglie sotto la soglia di povertà, versati in contanti con il sistema dei coupon elettronici. Il primo vicepresidente, Mohammad Mokhber, considerato il principale artefice della politica economica del governo, ha promesso che i prezzi di olio, pollo e uova sarebbero tornati alla normalità in pochi giorni. Promesse vane, che non sono bastate a calmare le proteste.

Intanto, il 16 giugno migliaia di insegnanti hanno manifestato a Tehran e altre città, da Ahvaz a Sanandaj e Kermanshsh nella parte occidentale del paese, a Shiraz nel sud. Protestavano perché gli aumenti di salario promessi dal governo Raissì nell’autunno scorso non si sono materializzati. Pare che la polizia abbia arrestato un centinaio di attivisti del sindacato degli insegnanti, di cui una sessantina nella sola città di Shiraz. “Impiegati pubblici, insegnanti, lavoratori e pensionati hanno perso di fronte all’inflazione, il loro potere d’acquisto si riduce ogni giorno”, dice un comunicato pubblicato sul canale Telegram del sindacato degli insegnanti. Esprimono disappunto perché “chi sta al potere usa misure di estrema violenza invece di ascoltare le grida di protesta”; chiedono la scarcerazione dei loro colleghi arrestati nelle settimane scorse e accusano le forze di intelligence di esportare “confessioni ottenute sotto pressione”. Come movimento organizzato, gli insegnanti sono stati presi di mira dagli apparati di sicurezza, e accusati di essere “manipolati da forze straniere” per attaccare l’Iran. L’arresto di due sindacalisti francesi, in Iran con visto turistico ma in contatto con esponenti sindacati iraniani, è stato presentato in questa chiave.

Ma è di fronte alle proteste più spontanee che la polizia ha risposto con violenza; si parla di almeno un morto durante le cariche per disperdere le folle (ma notizie ufficiose parlano di cinque).

L’Iran ha già conosciuto simili proteste. Nel 2017, quando il governo (era presidente il pragmatico Hasan Rohani) tagliò in modo drastico e senza preavviso le sovvenzioni sul prezzo del carburante e poi nel dicembre del 2019, quando nuove rivolte contro il carovita sono state represse in modo brutale.

Il punto è che le rivolte del pane o della benzina rivelano una rabbia profonda; coinvolgono soprattutto giovani dei quartieri più marginali, piccolissima borghesia impoverita e sottoproletariato urbano. Non alludono a forze politiche organizzate, dunque non rappresentano un pericolo immediato per lo Stato, che finora ha risposto più che altro con la repressione. E però proprio questi strati popolari oggi emarginati sono quelli su cui si è fondata la legittimità della Repubblica Islamica.

A fine giugno il presidente Raissì è andato a celebrare il primo anniversario del suo insediamento a Varamin, modestissima città satellite di Tehran: “Preferisco … vedere la gente e sentire quali sono le loro preoccupazioni”, ha dichiarato. Raissì, un conservatore eletto nel giugno 2021 senza avversari dopo che i tutti candidati di qualche peso erano stati esclusi dalla competizione elettorale, nell’ultimo anno ha viaggiato per tutto il Paese, cercando di accreditarsi come il presidente “vicino al popolo”. Ma stenta a mantenere la sua principale promessa, quella di rispondere ai bisogni materiali dei cittadini.

 

Morsa macroeconomica

Invece, gli iraniani continuano a impoverirsi. Nel mese concluso il 21 giugno l’inflazione ha registrato il 12,2 per cento, secondo i dati ufficiali, e il 51 per cento su base annua; i generi alimentari però sono rincarati più di tutto, perfino più dei trasporti. Bijan Khajehpour, imprenditore e commentatore economico iraniano, parla di  uno “shock inflazionistico” che colpisce in modo sproporzionato le classi più basse: e questo spiega perché il governo Raissì metta tanta enfasi nei sussidi in denaro e altre forme di welfare per i meno abbienti. Ma l’inflazione non colpisce solo i redditi più bassi. Tutta la classe media iraniana ha perso potere d’acquisto. La disoccupazione resta alta, ufficialmente il 21 per cento dei giovani tra 21 e 24 ani è senza lavoro. La moneta nazionale, il rial, continua a perdere valore. Gli effetti sono visibili: nel numero crescente di persone che cercano di emigrare, il deterioramento della salute generale, fino all’aumento della piccola criminalità urbana, osserva Khajehpour. I sussidi in denaro aiuteranno alcune famiglie più in difficoltà, ma non compensano l’impoverimento generalizzato degli iraniani.

L’inflazione ha diverse cause, ma quella principale è il sistematico deficit di bilancio dello Stato, sostiene Khajehpour, che aggiunge: “Ci sarebbe un rimedio agli attuali dilemmi economici: l’amministrazione Raisi dovrebbe ripristinare l’accordo sul nucleare del 2015, e così scongelare gli asset iraniani detenuti da banche all’estero”. Ripristinare il Jcpoa permetterebbe alle imprese di operare più liberamente, osserva; l’Iran potrebbe aumentare il suo export di petrolio, cosa che aiuterebbe a ridurre il suo deficit di bilancio.

Ecco che la scena interna rimanda a quella internazionale.

I colloqui di Doha arrivano a tre mesi dagli ultimi negoziati, sospesi in marzo a Vienna, e sono stati preceduti da un grande attivismo diplomatico: il 24 giugno a Tehran è arrivato il capo della politica estera europea Joseph Borrell; una settimana prima c’era il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. In maggio il ministro degli esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian era volato a incontrare le controparti di Cina e Russia; nei giorni di Doha invece ha incontrato il presidente Recep Tayyip Erdoğan in Turchia.

Se i colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti porteranno frutti è difficile dire, e le possibilità sembrano remote. Il direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, ha avvertito che tra qualche settimana il Jcpoa sarà definitivamente morto. Eppure, in marzo a Vienna i negoziatori avevano fatto passi avanti sostanziali e definito i passaggi che avrebbero riportato sia gli Stati Uniti, sia l’Iran a rientrare nei termini dell’accordo del 2015.

Da allora però la tensione è aumentata. Nell’ultimo anno l’Iran ha esteso le sue attività nucleari ben oltre i limiti dell’accordo del 2015, rispondendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti – e al fatto che non si siano allentate in modo significativo con l’avvento dell’amministrazione di Joe Biden. In giugno trenta dei trentacinque paesi membri del direttivo dell’Aiea hanno approvato una risoluzione che condanna la “mancanza di cooperazione” iraniana. Tehran ha risposto distaccando alcune delle telecamere di controllo dell’Aiea presso i suoi impianti atomici, minando quella che Grossi ha definito la “continuità della conoscenza” sulle attività iraniane. L’Iran ha annunciato inoltre di aver avviato alcune nuove centrifughe nel suo sito sotterraneo di Fordow: il che rende il quadro ancora più difficile.

 

Questione di fiducia

Eppure, gli ostacoli restano più politici che tecnici. Uno dei punti controversi ad esempio riguarda le Guardie della Rivoluzione iraniane, cioè una delle forze armate dello Stato, che gli Stati Uniti con Donald Trump hanno incluso tra le “organizzazioni terroriste”: l’Iran chiede che la designazione sia rimossa; l’amministrazione Biden chiede passi reciproci che Tehran trova inaccettabili. Sembra un’impasse insuperabile: eppure potrebbe essere aggirata, se l’Iran troverà accettabili altri gesti e garanzie da parte Usa.

Sarebbe un errore però pensare che sia solo questione di offrire all’Iran vantaggi economici. Certo, l’economia iraniana avrebbe tutto da guadagnare dall’allentamento delle sanzioni: ma le difficoltà del negoziato oggi sono prima di tutto politiche. E riguardano la fiducia reciproca tra Tehran e Washington.

Nel 2015 il vertice iraniano ha dato la sua fiducia al negoziato e poi ha approvato l’accordo raggiunto, per poi scoprire che un presidente degli Stati Uniti può disattendere i patti siglati dal suo predecessore. Oggi i dirigenti iraniani non vogliono correre lo stesso rischio. Nel 2018 il discredito per il fallimento è caduto sul governo pragmatico di Rohani, che le correnti oltranziste avevano sempre accusato di “svendere” gli interessi nazionali: così quando gli Usa hanno stracciato gli accordi è stato un coro di “l’avevamo detto”. Oggi un nuovo fallimento coinvolgerebbe le correnti conservatrici, che ormai controllano tutti i poteri – l’esecutivo, il parlamento, la magistratura. Inoltre, il consenso all’accordo era venuto dal Leader supremo in persona, il quale non può esporsi a essere raggirato dagli Stati Uniti una seconda volta – tanto più che a Tehran è di fatto aperta la partita politica della nomina di un suo successore.

L’Iran non sa se fidarsi degli Stati Uniti, ed è comprensibile. L’amministrazione di Joe Biden ha sempre dichiarato di voler rientrare nel Jcpoa, ma è dubbio che lo voglia al punto da aprire scontri politici interni con il Senato, dove la resistenza ad accordi con l’Iran è forte, tanto più nell’imminenza delle elezioni di medio termine che vedono i democratici svantaggiati. Anche l’eventualità che Biden vinca un secondo mandato è incerta; dal punto di vista iraniano significa che dopo il 2024 a Washington potrebbe insediarsi un’Amministrazione più “dura”, magari con un nuovo Mike Pompeo, l’artefice della strategia della “massima pressione” contro Tehran.

Così l’Iran chiede “garanzie inerenti” sull’applicazione degli accordi. E poiché ha imparato che nessun presidente Usa può garantire per il suo successore, chiede garanzie diverse. Una proposta è che l’uranio arricchito tra il 20 e il 60 per cento oggi accumulato presso gli impianti iraniani venga messo in depositi sigillati e sotto il controllo dell’Aiea, ma in territorio iraniano (in passato era stato trasferito all’estero). Chiede anche di rivedere i meccanismi di infrazione. O garanzie che non ci saranno ritorsioni sulle aziende che hanno contatti commerciali con l’Iran.

D’altra parte, neppure il governo di Raisì, che pure beneficerebbe da un allentamento della pressione sull’economia iraniana, è riuscito a raccogliere il consenso interno su un nuovo accordo per rilanciare il Jcpoa. L’insistenza sul rimuovere la designazione negativa delle Guardie della Rivoluzione va letta anche in questo senso: Raissì potrebbe vantare di aver ottenuto una concessione che il predecessore Rohani non era riuscito ad avere, e questo aiuterebbe anche a costruire un consenso interno a nuovi accordi – come osserva Ellie Geranmayeh, vicedirettrice del programma per il Medioriente dello European Council for Foreign Relations.

Infine, un altro pericolo incombe sui negoziati e sull’intero quadro regionale: che l’Iran, gli Stati Uniti e Israele “fraintendano la reciproca tolleranza a gesti di escalation”, aggiunge Geranmayeh. Incidenti e provocazioni come il sequestro di un cargo di petrolio iraniano, in maggio in Grecia, con il conseguente sequestro di due petroliere greche da parte dell’Iran, potrebbero sfuggire di mano. Anche la campagna di Israele contro l’Iran si è intensificata, con i ripetuti attacchi contro installazioni militari in territorio iraniano, l’assassinio di figure legate al programma nucleare, o l’accusa rivolta all’Iran di voler colpire turisti israeliani in Turchia. Mentre in Iran riprendono voce le correnti più oltranziste che chiedono di spingere sull’arricchimento dell’uranio (fino al 90 per cento, livello necessario per usi militari), e di uscire una volta per tutte dal Trattato di non proliferazione nucleare – cosa che però susciterebbe contromisure da parte americana, o di Israele.

Insomma, i fautori della linea dura, in Iran come negli Usa e in Israele, potrebbero pensare che sia il momento di spingere: con il rischio non solo di chiudere ogni ipotesi politica, ma anche di innescare un confronto militare.

Anche per evitare questo l’Europa ha tutto l’interesse a rilanciare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Tanto più che nessuno sembra avere un piano di riserva.

 

Foto: Il presidente iraniano Ebrahim Raisi parla in occasione della Giornata nazionale della tecnologia nucleare dell’Iran – Tehran, 9 aprile 2022 (Iranian Presidency / Anadolu Agency via AFP).

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