Isis contro sciiti e curdi:
ora il grande gioco è in Iraq

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel giro di pochi giorni hanno conquistato Mosul e l’intera provincia di Ninive, compresa la cittadina sciita di Tal Afar, nel nord dell’Iraq, al confine con la Siria, estendendo il loro controllo su una vasta area settentrionale del Paese che include le province di Salahuddin e Kirkuk. Hanno accorciato così le distanze dalla capitale Baghdad, includendo parte del famoso triangolo sunnita. Ma l’ambizione è di arrivare ancora più a sud, in città simbolo sciita, come Kerbala e Najaf.

È così che nel giro di 24/48 ore, i miliziani dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante hanno riacceso l’attenzione di media e soprattutto delle principali cancellerie internazionali sulla questione settaria irachena, ponendo nuovi interrogativi sul futuro del Paese e di quelli confinanti, Turchia e Iran in primis.

Chi sono

Isis o Isil o Daesh, se si preferisce l’acronimo arabo (Dawlat al-Islāmiyya fī al-Irāq wa s-Shām), sono queste le sigle in cui rientrano i miliziani dello Stato Islamico di Iraq e Levante che stanno mettendo a ferro e fuoco l’Iraq con l’obiettivo di riconquistare il Paese. Al Qaeda però in questo caso non c’entra. Almeno non ufficialmente. Si tratta di estremisti, sunniti, wahabiti, fondamentalisti, ma non qaedisti dal momento che a inizio anno, lo scorso febbraio,”La Base” ha preso formalmente le distanze dal gruppo con un documento in cui si dichiara che “(Al Qaeda) non ha alcuna relazione organizzativa con il gruppo (Isis) e non è responsabile per le loro azioni”. Distanze che risalgono a dissidi esplosi mesi prima nel campo siriano dove l’Isis combatte una battaglia che va avanti da tempo e che è diventata, ormai, anche una battaglia all’interno del fronte ribelle e fra gli stessi fondamentalisti con il risultato che l’unica sigla autorizzata a combattere in Siria in nome di al Qaeda pare essere ora Jabhat al Nusra.

Più estremisti di al Qaeda e di Jabhat al Nusra, come sottolinea anche Foreign Affairs, i fondamentalisti di Daesh si sono affrancati dagli altri anche economicamente. In un recente reportage dal titolo “Come un arresto in Iraq ha rivelato un network jihadista da due miliardi di dollari”, il Guardian spiega come il gruppo abbia accumulato ingenti ricchezze, prima in Siria e ora Iraq.

“Prima della presa di Mosul – si legge – la loro liquidità e i loro beni ammontavano a 875 milioni di dollari. Dopo, grazie ai soldi rubati dalle banche e alla forniture militari saccheggiate, potrebbero aver guadagnato un altro miliardo e mezzo di dollari”.

Questo significa un’enorme potenzialità economica e militare ricavata non solo con la tradizionale pratica del bottino di guerra, ma anche grazie a una rete ben organizzata che parte dalla Siria, dai giacimenti petroliferi della zona orientale, requisiti alla fine del 2012 e probabilmente rivenduti al regime, e grazie al traffico e contrabbando di preziosi materiali archeologici, del valore inestimabile, che sono andati a foraggiare la crescita del gruppo.

Il fallimento del governo Al Maliki

Le difficoltà del governo iracheno e del premier da poco riconfermato, Nouri al Maliki, non sono certo esplose in questi giorni, così come il successo ottenuto in queste ore dai fondamentalisti dell’Isil non è frutto di coincidenze fortuite, ma affonda le sua radici in un’operazione certosina avviata nella provincia di Al Anbar a fine anno. A tracciare le prime fondamenta del califfato islamico è stato, indirettamente, lo stesso governo di Maliki colpevole in questi anni di aver accentrato tutto il potere nelle sue mani accentuando di fatto le divisioni settarie, e non riuscendo neanche a creare un fronte sciita compatto, alle prese con figure così differenti come quella di Muqtada al-Sadr, che ha guidato l’Esercito del Mahdi contro gli americani, e gli al Hakim del Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq.

L’avanzata dell’Isil è stata possibile anche grazie a questo; cioè al compattamento e al sostegno militare dei gruppi ba’athisti del fronte sunnita attorno a chi, per ragioni diverse, sta combattendo contro il governo sciita. Non è un caso che Raghad Hussein, figlia maggiore di Saddam, abbia gioito alle vittorie ottenute nel nord del Paese, in particolare a Tikrit, città natale dell’ex rais, come a un trionfo degli uomini del padre, tra i quali spicca anche il settantenne Izzat al Douri, famoso re di Fiori che sfugge alla Cia dal 2003.

Si tratta, quindi, di due agende differenti, una religiosa e l’altra politica, che sfruttano entrambe le forte componenti settarie della geografia sociale irachena. Settarismo in cui si inserisce più che mai ora il ruolo dei curdi.

L’avanzata dei Peshmerga e il ruolo dei Pasdaran

Se il premier iracheno al Maliki di fronte all’incapacità dell’esercito regolare si è spinto a richiamare tutti i cittadini in possesso di armi a combatter per l’integrità del territorio, è ovvio che la risposta dei Peshmerga curdi a Erbil avrà un peso significativo poi, a tempo debito, in direzione di quell’autonomia e indipendenza che i curdi d’Iraq stanno guadagnando progressivamente. Del resto Mosul dista circa un’ora di auto dalla capitale del Kurdistan iracheno (lo sanno bene i profughi in fuga che restano le ore in fila per entrarvi) e Kirkuk è considerata parte di un futuro stato curdo: la difesa di quelle zone è necessaria ora a Baghdad ed è utile più che mai a i curdi che si giocano la possibilità di entrare militarmente in quei territori con il lasciapassare del premier sciita.

Un grande gioco, in cui entra di diritto anche l’Iran. Per ovvie ragioni. È da tempo che la Repubblica Islamica offre il suo sostegno alla stabilità irachena (o meglio alla stabilità dell’Iraq sciita) e che si pone come eventuale mediatore in Siria, cercando così di ottenere il riconoscimento internazionale a cui aspira e la risoluzione di alcune annose questioni, come quella del nucleare. Adesso è il momento in cui gli Stati Uniti sono pronti a valutare direttamente questa offerta. Nell’agenda politica iraniana non poteva esserci occasione migliore, nel bel mezzo dei round negoziali a Vienna, dove fino al 20 si tenterà di trovare un accordo definito sul nucleare. Sul piatto della bilancia ora non ci sono più le sole aspirazioni nucleari iraniane e la volontà degli Stati Uniti di contrastarle, ma c’è il sostegno che Teheran potrà dare a Baghdad, liberando così Washington da un grosso fardello, perché è chiaro a tutti che, nonostante la retorica della lotta al terrorismo (“Gli Stati Uniti faranno la loro parte per aiutare l’Iraq a superare questa crisi”, si legge in una nota del Dipartimento di Stato Usa), Barack Obama non ha nessuna voglia di rimettere piede nella palude irachena. Mentre da parte sua Teheran ha già inviato 2000 Pasdaran a Baghdad.

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