Governo di Unità Nazionale palestinese: così Fatah e Hamas sperano di uscire dalla crisi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il nuovo processo di riconciliazione nazionale – il terzo in pochi anni, dopo i tentativi di accordo compiuti e rimasti lettera morta alla Mecca (2007), il Cairo (2011) e Doha (2012) – si è aperto ufficialmente il 24 aprile con quello che è stato ribattezzato come l’”Accordo della Spiaggia”, perché siglato nel campo di profughi di Shati’ su una spiaggia di Gaza. Lo scorso 2 giugno, l’Accordo ha registrato il suo primo risultato concreto: la formazione di un nuovo governo tecnocratico ad interim, guidato dal Premier uscente Rami Hamdallah, già rettore dell’Università di Nablus. Un altro successo apparente sembra essere che tra i 17 ministri del nuovo Governo nessuno è affiliato a Hamas o ad altri gruppi – come la Jihad Islamica – annoverati tra le organizzazioni terroristiche dall’Ue e dagli Stati Uniti. Tuttavia, i successi si arrestano qui e a pochi giorni dall’annuncio del nuovo governo per le strade di Gaza e di Ramallah si sono già registrati i primi scontri tra i sostenitori dei due campi.

Le ragioni degli scontri, però, non sono affatto ideologiche, ma derivano dalla grave crisi economica e dalla mancanza di legittimità politica che sia Hamas nella Striscia di Gaza che Fatah in Cisgiordania stanno attraversando. L’occasione è stata, infatti, fornita dal pagamento dei salari dei dipendenti della pubblica amministrazione, che rappresenta in assoluto il primo datore di lavoro tanto nella Striscia che nella West Bank. Gli impiegati dell’Autorità Palestinese sono attualmente 160.000 nella sola West Bank e il pagamento dei loro salari è già a rischio, dal momento che l’Autorità ha più di 1.600 miliardi di dollari di debiti, sono inclusi anche debiti a società israeliane che forniscono servizi nei Territori Occupati (come la Israel Electric Company, che fornisce tutta l’energia industriale e non). Ai problemi economici interni alla PA, però, ora si sommerebbero quelli di Hamas, la cui situazione economica – mai del tutto ammessa dal Governo della Striscia – versa in condizioni ancora peggiori, dopo la chiusura e il bombardamento dei tunnel nel Sinai da parte dell’Egitto dei Colonnelli e il quasi completo isolamento internazionale seguito alla defenestrazione del presidente Morsi e alla repressione dei Fratelli Musulmani. Hamas vorrebbe, adesso, che il nuovo governo di unità nazionale pagasse anche i salari dei propri dipendenti pubblici, nel numero di 52.000, e soprattutto che li incorporasse nella nuova amministrazione nazionale: cosa che l’Autorità non può, né vuole fare.

È chiaro, infatti, che l’accordo sia stato siglato da entrambe le parti con pragmatismo e sull’onda dell’emergenza, come un male necessario più che in risposta a una strategia politica di ampio respiro. Fatah attraversava un periodo di difficoltà su più fronti: l’autorità di Mahmud Abbas era stata sfidata da Dahlan – per anni eminenza grigia della sicurezza palestinese responsabile della coordinazione in materia di sicurezza con Israele – e dai giovani di Fatah, che gli avrebbero preferito come Presidente Marwan Barghouti, detenuto in una prigione israeliana, e che chiedevano da anni nuove elezioni, essendo il mandato “democratico” di Abbas scaduto nel lontano 2009. La posizione di Abbas, quindi, tacitamente a favore dello status quo, non era più sostenibile, soprattutto dopo i fermenti dovuti all’onda lunga delle rivolte arabe nei Paesi vicini e al fallimento annunciato dei negoziati di pace con Israele. Per quanto riguarda Hamas, invece, lo scacco subito dall’islamismo politico a livello regionale e la crescente difficoltà a garantire i seppur minimi servizi nella Striscia, sono state le spinte decisive nel cercare di aprirsi una nuova strada politica attraverso un accordo con Fatah. In sintesi, le due forze politiche si sono “riconciliate” perché entrambe sottoposte a pressioni esterne che avrebbero potuto provocarne – nel medio termine – l’esautorazione o il rovesciamento.

I loro obiettivi, però, rimangono sostanzialmente diversi: Hamas cerca una nuova legittimità attraverso la riattivazione dell’OLP e, in particolare, del Consiglio Nazionale Palestinese come Parlamento con pieni poteri, tanto in vista di nuove elezioni che soprattutto di uno scenario più favorevole a livello regionale, una volta terminata la guerra in Siria e ricostituiti i ranghi internazionali dell’islamismo politico, ancora sotto shock per le recenti battute d’arresto; Fatah, invece, senza alleati regionali solidi, ma con buone chances di ottenere donazioni internazionali e un crescente consenso diplomatico a favore della creazione di uno Stato di Palestina, attende di rimpinguare le casse dello Stato per rilanciare la crescita economica, soprattutto nella West Bank, e poter tornare, così, ad essere nuovamente agli occhi dei Palestinesi quella grande macchina di investimenti e welfare che il partito era all’epoca di Arafat. Per il momento, dunque, i due campi non possono che unire le forze in vista del perseguimento dei loro specifici obiettivi, limando, ove possibile, le occasioni di attrito. Rimane, però, un nodo molto sensibile da sciogliere: il rapporto con Israele.

Se infatti USA e UE non hanno sollevato obiezioni a cooperare con il nuovo governo a patto che esso si attenga alle linee guida del Quartetto –ovvero sottoscriva gli accordi pregressi, riconosca Israele e combatta il terrorismo-, il governo Netanyahu ha annunciato pubblicamente che nessuna cooperazione è possibile con un governo palestinese che abbraccia il terrorismo. Le campagne di disinformazione all’opinione pubblica israeliana sono già partite, con tanto di manifesti che ritraggono autobus dilaniati da bombe e la scritta: “Incontrate i nuovi partner del Presidente Abbas”. Ovviamente, le ragioni di Netanyahu per opporsi al nuovo governo sono altrettanto strumentali: il Primo ministro israeliano vi ha trovato anche il pretesto di mettere fine ai negoziati segreti di pace che si trascinavano da quasi 9 mesi senza risultati effettivi, se non quello di minare dall’interno la tenuta della sua coalizione di governo. Netanyahu vorrebbe così far dimenticare all’opinione pubblica e ai governi che sia stata la sua scelta di non rilasciare la quarta tranche di prigionieri palestinesi e di non cedere sugli insediamenti a votare inevitabilmente i negoziati al fallimento.

Tuttavia, nonostante la riconciliazione nazionale palestinese abbia fornito ad Israele un ottimo pretesto per tirarsi fuori da negoziati di pace voluti esclusivamente dagli gli Stati Uniti, ciò non significa necessariamente che Israele accetti di buon grado il governo di unità nazionale come una scelta palestinese di politica interna. Il governo israeliano dispone di numerosi mezzi per influenzare le decisioni dell’Autorità Palestinese e per metterla, se necessario, “in ginocchio”: tra questi vi sono sanzioni collettive come il trattenimento delle tasse raccolte da Israele per l’Autorità (come già avvenuto nel novembre del 2011), la sospensione di servizi e il blocco all’ingresso nei Territori di materie prime (come avviene attualmente a Gaza), la massiccia costruzione di nuovi insediamenti e pressioni esercitabili sui prigionieri detenuti in Israele.

Nonostante perfino la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana ritenga a priori pretestuoso attribuire alla riconciliazione palestinese il fallimento dei negoziati (solo il 7% la ritiene la vera ragione, secondo i sondaggi del NSPOP, il National Security and Public Opinion Project dell’INSS), l’argomento di punta del Governo israeliano può diventare quello della demilitarizzazione della Striscia, secondo le regole pattuite ad Oslo. Un portavoce del Governo vicino a Netanyahu, Yuval Steinlitz, ha già annunciato infatti che Abbas si dovrà far carico integralmente della sicurezza nella Striscia, ovvero non solo di evitare qualsiasi lancio di missili, ma anche di sequestrare i circa 12.000 razzi di cui la Jihad Islamica e l’ala militare di Hamas sono tutt’ora in possesso. Un compito non solo impossibile, ma nemmeno preventivato da Fatah, che ha sottoscritto con Hamas nell’”Accordo della Spiaggia” un patto di natura “confederale”: ovvero, un’intesa su alcuni punti-cardine nel rispetto integrale delle rispettive “zone di influenza”.

È troppo presto per dire se il processo di riconciliazione reggerà nel medio termine: quello che è già chiaro a tutti gli osservatori, però, è che non esiste una roadmap sulla base della quale valutarne eventuali progressi o battute d’arresto, ovvero un processo politico trasparente e dei principi a cui le due parti intendano attenersi. È dunque necessario, da parte di USA e UE, fornire a tale governo un appoggio preventivo, più fondato sulla necessità di assecondare un’aspettativa profonda della società palestinese – e soprattutto dei suoi giovani, sempre più disillusi su entrambe le forze politiche –, che su obiettive ragioni di ottimismo e garanzie fornite dal processo in corso. Il pragmatismo d’altronde è d’obbligo anche per USA e UE: di fronte al vacillamento del potere politico e militare statunitense in Medio Oriente – minato dall’incapacità di mediare una soluzione in Siria e di prevenire il colpo di stato in Egitto – e del soft power UE – la cui capacità di parlare con una voce sola in politica estera è stata a sua volta indebolita dalla crisi economica e dai risultati delle recenti elezioni al Parlamento europeo-, il pragmatismo per entrambe le potenze non è più una scelta, ma un obbligo imposto dalle circostanze e dall’interesse di tenere aperto un canale di dialogo diretto e di influenza in Palestina, laddove questa opzione è già andata perduta in altri Paesi della regione a profitto di altri attori internazionali.

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Claudia De Martino è una ricercatrice del settore Studi&Ricerche all’UNIMED di Roma e ha ricevuto il suo dottorato in Storia Sociale del Mediterraneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

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