Israele-Palestina: i negoziati che non ci sono

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Cosa è rimasto dei colloqui di pace fra israeliani e palestinesi? O per lo meno di quel nuovo impulso diplomatico che aveva tentato di dare il segretario di Stato Usa John Kerry lo scorso 29 luglio? Nove mesi, tanti sono necessari alla nascita di una nuova vita, ma non a mettere da parte sessantacinque anni di guerra; e ora che siamo a pochi giorni dalla deadline tracciata la scorsa estate (il 29 aprile), la risposta ai dubbi è giunta direttamente nelle affermazioni di John Kerry, dopo aver cancellato l’incontro con il leader dell’Anp Mahmoud Abbas: “Noi (gli Stati Uniti) non staremo seduti qui (al tavolo negoziale) a tempo indeterminato”. È il momento, questo, “di valutare le reali condizioni e di considerare precisamente quali saranno i prossimi passi”.

Sicuramente si è trattato di un modo per fare pressing sulle parti, ma a giudicare dal suo stato d’animo e dal calo di ottimismo mostrati in conferenza stampa, il passo da qui a dichiarare fallite le trattative sembra breve. Tanto che il Ministro dell’Economia Naftali Bennett parlando con Christiane Amanpour alla CNN ha dichiarato, pochi giorni fa: “the era of these negotiations is over”. E domenica scorsa, anche il Ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha chiarito che “il pacchetto attualmente in discussione per consentire la prosecuzione dei colloqui non è lo stesso di due settimane fa”. Negoziazione quindi sostanzialmente finite per la destra israeliana, ma anche per la destra americana a leggere l’editoriale di Jennifer Rubin sul Washington Post in cui si parla di “fantasie di pace”. E la domanda polemica è perché il segretario di Stato Usa non abbia valutato le “reali condizioni” (“reality check” nelle parole di Kerry) un anno fa, cioè prima di imbarcarsi in queste “fantasie di pace”, evitando di perdere così tempo, danaro e prestigio.

Il prestigio è uno degli elementi da non sottovalutare in questi nuovi round negoziali; quel prestigio che avrebbe potuto guadagnare chi ha ridato ossigeno alle trattative (ormai sostanzialmente ferme dopo Annapolis 2007 e dal 2010 a causa della solita questione degli insediamenti), continuando a presenziare incontri e a stimolare le parti. Kerry ha speso, indubbiamente, gran parte dei suoi 14 mesi da segretario di Stato in questo, cercando di portare a casa un risultato che nessun prima è riuscito ad incassare, forte anche del lasciapassare della stessa Amministrazione Obama libera dal vincolo della rielezione. In un momento in cui, questo in particolare, la politica estera della Casa Bianca e del presidente vincitore del Premio Nobel per la pace rischia di essere ricordata più per l’inazione in Siria e per il riaccendersi delle velleità egemoniche della Russia. Mentre sul tavolo resta ancora l’altalenante questione iraniana; su cui potrebbe pesare non poco la recente decisione dell’Unione Europea di votare una risoluzione che esprime preoccupazione per il rispetto dei diritti umani nella Repubblica Islamica. Un altro stallo, come quello fra Anp e Israele, non giova certo alla diplomazia di Washington. E a poco servono le rassicurazione di entrambi i contendenti di voler portare avanti i negoziati, perché da ambo le parti, come si vede, si tratta di passi unilaterali.

L’ultimo casus belli

L’ultimo casus belli in ordine di tempo che sembra aver scritto la parola fine sulle fatiche di Kerry (sebbene ufficialmente i negoziati continueranno ad andare avanti fino al 29 aprile) è la decisione di Abbas di chiedere l’adesione a 15 agenzie delle Nazioni Unite e a trattati internazionali, prima fra tutti la IV Convenzione di Ginevra sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Un annuncio fatto a ventiquattro ore dal viaggio previsto del segretario di Stato Usa che per tutta risposta ha cancellato il suo impegno diplomatico, proseguendo direttamente per il Marocco. Prima ancora, però, Israele aveva stoppato il rilascio dei 26 prigionieri palestinesi, l’ultima tranche prevista per adempiere agli impegni presi lo scorso luglio. Ventisei prigionieri dei 104 totali che il governo israeliano aveva piazzato sul tavolo, come segno di buona volontà; mentre l’Anp aveva messo in stand by le pratiche per il riconoscimento come Stato dopo che Abbas, nel 2012, aveva chiesto alla platea dei 193 membri delle Nazioni Unite che la Palestina fosse riconosciuta come Stato non-osservatore (qui su Reset). Due passi indietro importanti, dunque, l’essersi rimangiati le offerte iniziali.

Da un lato, l’azione dell’Anp che ha tanto infastidito Kerry è una mossa unilaterale che punta a coinvolgere il più possibile l’Onu nei negoziati, creando una sorta cortina di protezione dalle violazioni israeliane condannate in più occasioni dalle stesse Nazioni Unite (gli Stati Uniti potrebbe così trovarsi di nuovo in posizioni scomode e imbarazzanti di fronte a votazioni come quella del novembre 2012 che li ha visti in netta minoranza); dall’altro, invece, la strategia israeliana punta a ritardare i prossimi passi, tenendo precauzionalmente in stand by i 26 prigionieri, ostaggio delle trattative, mentre la politica degli insediamenti va avanti. Anzi, non si è mai fermata, nonostante Tzipi Livni, capo negoziatore assieme a Saeb Erekat, si fosse opposta. A gennaio, invece, la colonizzazione della West Best ha subito una nuova accelerazione, con l’approvazione di piani che permettono la costruzione di altre 1400 abitazioni, più 381 nel settlement vicino a Gerusalemme Est, per un totale di 1800 nuove case. È proprio questo il punto su cui si erano arenati i negoziati nel 2010. Nel corso delle trattative dirette di questi mesi, erano restate su tavolo però anche altre questioni di vitale importanza come quella dell’acqua e dei confini: Israele avrebbe intenzione di utilizzare l’attuale muro di separazione come linea di confine, mentre l’Anp pretende il rientro al di qua della Linea Verde, del 1967, che dopo la Guerra dei Sei Giorni ha tolto ulteriori porzioni di territorio ai palestinesi. Fermo restando che il muro è stato giudicato illegittimo dalla Corte Internazionale di giustizia dell’Aia e che anche la Corte Suprema israeliana ne ha deliberato la correzione del percorso in alcune zone per facilitare gli spostamenti dei palestinesi, bloccati di fatto dalla barriera e dai check point di entrata e uscita.

E così, mentre la politica dei falchi in Israele (non tutti sono a favore di questo approccio sia nel governo, sia nella società civile) prosegue utilizzando più o meno gli stessi strumenti, quella di Abbas cerca di ottenere le basi legali per portare avanti le sue istanze all’interno di Palazzo di Vetro.

Cui prodest?

Il paradosso, però, è che questa situazione di stallo giova ad ambo le parti, cioè proprio a chi dovrebbe avere più a cuore di giungere a un accordo. Quello che accade nelle stanze della politica non sempre, si sa, riflette le reali condizioni sul campo o le esigenze delle popolazioni. E così, perpetrando di fatto lo status quo accade che l’esecutivo di Netanyahu può continuare a portare avanti la politica delle colonie e una politica di apartheid che costringe de facto all’isolamento gli stessi cittadini israeliani, mentre l’Anp può proseguire quel regime di dipendenza dagli aiuti internazionali che significa assistenzialismo e deresponsabilizzazione nei confronti del suo stesso popolo. E mentre Ramallah, dove ha sede l’Anp, cresce a dismisura, il resto della Cisgiordania dipende sostanzialmente dai progetti dei donors, anche per le cose più basilari come la costruzione di pozzi o di scuole.

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