Gli italiani e la religione, tra pluralismo e ignoranza

L’Italia, nel suo rapporto con la religione, è un paese «stonato», come e più di un pianoforte scordato. «Religiosamente non musicale» (religiös un-musikalisch), diceva di se stesso Max Weber (che però è stato un gigantesco studioso della religione). Ma applicata a noi italiani la «stonatura» è solo un eufemismo. Le cose stanno peggio e, considerando che siamo il paese che ospita gli eredi di Pietro da due millenni, ci meritiamo un giudizio crudo: siamo terribilmente ignoranti e, messi di fronte alla contraddizione, dovremmo esaminarla con coraggio e sincerità. Ce lo suggeriscono le 500 pagine del Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, curato per Il Mulino dallo storico Alberto Melloni, con la collaborazione di una trentina di studiosi del campo.

L’analfabetismo di base, quello del leggere e scrivere, è stato storicamente sconfitto, tra gli Italiani, con la scuola dell’obbligo, con l’aiuto del maestro Manzi e della tv di Stato. Resta molto da recriminare, ma non siamo più degli analfabeti generici, lo siamo in maniera «speciale», soprattutto in tre aree: la religione, la musica, l’arte. Qui la nostra incompetenza è cronica, rocciosa. E la scuola non risolve, ma peggiora le cose, perché quelle sono le tre aree dove mostra grandi debolezze. Altro che i lamentati eccessi di studi umanistici: nel paese del Rinascimento, della lirica e della Chiesa romana, si fa pochissima storia dell’arte, niente musica, e un’ora di catechismo cattolico, la cui insufficienza e il cui anacronismo sono ormai a tutti evidenti. Tre eccezionalità italiane che sono perversamente connesse con tre buchi della nostra formazione standard.

Il Rapporto Melloni si occupa del primo buco. Per tutto quello che ha a che fare con Dio, la trascendenza, riti e culture associate, non passeremmo un test di ammissione neanche al livello più elementare. Eppure la Bibbia ce l’ha in casa il 70 per cento degli italiani, e ancora di più, l’86% di coloro che si dichiarano cattolici praticanti. Ma quelli a cui è capitato di leggerne almeno qualche pagina sono meno del 30%. I non cattolici la leggono un po’ di più dei cattolici, e tra i cattolici quelli che hanno fatto corsi di catechismo leggono ancora meno degli altri. Imbarazzanti le risposte, nei sondaggi, alla domanda «chi l’ha scritta?»: più di un quarto risponde «Mosè», un altro 20% «Gesù». Un 15% ritiene che la Bibbia degli Ebrei e quella dei Cristiani non abbiamo niente in comune, ma c’è anche un 27% convinto che Vangeli e Bibbia siano la stessa cosa. Il che vuol dire che conversazioni sul tema in questo paese sono davvero una rarità. Il 30% degli Italiani conosce il nome dei quattro evangelisti, solo una élite dell’1% conosce i dieci comandamenti; la gran parte si ferma a «non rubare», il più famoso, considerato generalmente il primo; trascurato «Non avrai altro Dio fuori di me». Lunga ancora la missione della associazione laica «Biblia», che si propone di colmare un vuoto: la conoscenza della Bibbia è, tra molte cose, anche una porta di ingresso al pluralismo religioso.

La scarsa conoscenza della propria religione si spalanca dunque sugli abissi dell’ignoranza di quella degli altri, dove fioriscono le più superficiali confusioni. Una enorme quantità di italiani crede che il Priorato di Sion (Codice Da Vinci, Dan Brown), sia una entità biblica. Solo una minoranza sa che Primo Levi era ebreo. Dietro le tragicomiche statistiche dei sondaggi c’è evidentemente una formazione lacunosa. Chi interroga i manuali di storia, come nel severo saggio di Maria Chiara Giorda, trova testi standardizzati, che, con poche eccezioni, riflettono consuetudini redazionali più che originalità e precisione della ricerca di autori. Le conseguenze sono che la conoscenza sia dell’ebraismo sia dell’Islam vengono schematizzate e ridotte, il primo, alla pagina sulla Shoa e il secondo alle tappe militari del conflitto con l’Occidente, dalla battaglia di Poitiers fino all’11 settembre 2001. Difficile trovare un approfondimento della storia e cultura ebraica, così come difficile è incontrare tracce della civiltà Moghul o di un «jihad» che non sia esclusivamente guerra santa. Sottigliezze.

Anche per i media, quando si tratta di religione vale una certa licenza di superficialità, che non sarebbe ammessa in pagine dedicate all’agricoltura o alla cucina, e tanto meno alla scienza. Così un celebre editorialista italiano ha potuto scrivere che il politeismo induista si traduce spontaneamente in un generoso pluralismo, cosa che forse neanche Narendra Modi, leader del partito maggioritario Bjp, hindu, oserebbe azzardare in campagna elettorale per non riaccendere la memoria del genocidio del Gujarat.

Sfortunatamente prevale in questo campo, a causa della polarizzazione tra laicismo e clericalismo, una forma di partigianeria che bada essenzialmente a sottrarre territorio agli avversari. Esemplare, in negativo, è la storia degli studi religiosi nelle università italiane. Qui è accaduto che i laicisti anticlericali, per il desiderio di espungere una fonte di contaminazione con il regno dei cieli, e i clericali per il desiderio di tenerne il monopolio, hanno saldato un patto: niente facoltà di teologia nelle università pubbliche (come accade in Germania o in Svizzera). Questo mentre la forza scientifica dei Dipartimenti di studi religiosi delle università americane, anche di quelle non confessionali, dimostra la rilevanza di questo ambito del sapere per l’analisi sociale, per l’economia e le relazioni internazionali.

Gli studi religiosi danno segni di vitalità anche da noi, ma devono allargarsi la strada a gomitate dentro i corsi di storia, di antropologia, sociologia, lingue, nelle facoltà di Lettere e filosofia. Corsi di scienze religiose si sono affermati a Torino, a Roma, e a livello inter-ateneo e interdipartimento a Padova-Venezia e a Bologna. Ma la disciplina degli studi religiosi si porrà come centrale nel momento in cui si metterà finalmente mano al superamento dell’impasse dell’ora di religione alternativa – per coloro che «non si avvalgono» dell’insegnamento concordatario, affidato ai vescovi – e alla formazione di insegnanti ad hoc.

L’esigenza appare sempre più impellente di fronte ai numeri del pluralismo religioso che stiamo finalmente scoprendo. Impressionanti le mappe del paesaggio confessionale di questa nuova Italia: abbiamo ormai 355 parrocchie cristiano-ortodosse per un milione e 500 mila immigrati, per lo più recenti, affiliati ai patriarcati romeno, serbo, di Costantinopoli, macedone, russo, greco, copto; 655 luoghi di culto per un milione 650 immigrati musulmani; 658 chiese neo-pentecostali africane. E il sorprendente studio di Enzo Pace si sofferma sugli 80mila Sikh, in gran parte ormai italo-sikh con i loro 36 templi (Gurudwara), che hanno coperto, tra le varie professioni, quella dei mungitori (che era un tempo dei «bergamini»), forti della loro etica del avoro e di associazioni che si autofinanziano per la vita della comunità. Ancora in questi giorni un grande giornale li presentava come «uomini col turbante abituati a pregare Shiva e Visnù», mentre i sikh, a differenza degli induisti, sono monoteisti.

L’uso del concetto di analfabetismo religioso è legittimato anche dal fatto che la conoscenza delle religioni sta diventando necessariamente parte della definizione di uno standard di preparazione di base per una pacifica convivenza e per contrastare le tendenze fondamentaliste e violente. In tal senso si sta formando un orientamento negli organismi internazionali: Unesco, Ocse e Unione europea. La conoscenza della pluralità è l’arma decisiva che demolisce le idiozie etnocentriche e i purismi di impronta razzista.

Già ora possiamo guardare come a una reazione datata quella che spingeva qualche animo incandescente a invettive contro la minaccia che i nostri bambini venissero privati, nelle mense scolastiche, della amata mortadella o dei tortellini col prosciutto, a causa della sgradita presenza di famiglie musulmane. In questi dieci anni la dieta differenziata per motivi culturali e religiosi è diventata routine, nelle scuole dotate di mensa, nel 76% dei casi: vegani e carnivori potranno convivere sempre più quietamente con diete halal e kosher. E la via che porta dall’invettiva alla routine pluralista passa dalla conoscenza.

 

Articolo pubblicato su la Repubblica del 25 aprile 2014 

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