Fouad Laroui e il dilemma linguistico del Marocco

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Poco meno di due mesi fa, lo scrittore marocchino Fouad Laroui è venuto in Italia per presentare la sua raccolta di racconti Le jour où Malika ne s’est pas mariée, tradotta e pubblicata da Del Vecchio Editore con il titolo L’esteta radicale. Nel suo paese e non solo, Laroui è ormai una vera e propria star della letteratura francofona, e non a caso è stato celebrato in diverse città italiane in occasione del Festival della letteratura francese tenutosi nello scorso marzo.

Quella di Laroui è forse una biografia insolita per uno scrittore, che è anche un poeta e un giornalista. Nato a Oujda, città al confine con l’Algeria nel 1958, dopo gli studi al liceo francese di Casablanca frequenta la prestigiosa scuola francese per ingegneri, l’Ecole Nationale des Ponts et Chaussées, e, rientrato in Marocco, diventa il più giovane direttore della miniera di Fosfato di Khouribga nella storia del Marocco. Poteva fermarsi là, diventare un grigio burocrate nello scenario della città molto inquinata per via delle miniere. Ma Laroui, solo qualche anno dopo, lascia tutto e si trasferisce a Cambridge dove resta qualche anno e ottiene un dottorato in scienze economiche. Conclusa l’esperienza inglese mette il fagotto di viaggiatore sopra la spalla e si trasferisce in Olanda dove vive attualmente insegnando letteratura francese all’Università della capitale. A oggi, Laroui ha scritto una decina di libri fra romanzi, raccolte di racconti e poesie. Inoltre, interviene spesso nel dibattito pubblico in Marocco attraverso la rivista Jeune Afrique e la Radio marocchina Medi 1.

La lingua che Fouad Laroui ha scelto per scrivere la propria poesia è l’olandese, mentre il resto della sua produzione letteraria è in lingua francese. Uno scrittore che dunque appartiene alla cosiddetta ‘francofonia’, ma che allo stesso tempo è da sempre impegnato in un dibattito che da decenni lacera la società e il mondo culturale del suo paese natio: qual è la vera lingua dei marocchini?

Laroui ha dedicato a questa tematica un libro intero, dal titolo eloquente Le drame linguistique marocain. Ecco una delle prime citazioni presenti nel libro, che sintetizza efficacemente il dramma di cui si parla e attorno alla quale Laroui costruisce la propria analisi: “Nous autres Marocains avons tendance à ignorer une chose extrêmement grave: nous n’avons pas de langue” (“Noialtri marocchini abbiamo la tendenza a ignorare un fatto estremamente grave: non abbiamo una lingua”, da Omar Mounir, Nécrologie d’un siècle perdu).

Anche durante uno degli appuntamenti italiani l’autore ha parlato del problema linguistico in Marocco, affermando che nessuno scrittore sarebbe in grado di esprimersi bene in un’altra lingua come avrebbe potuto fare se avesse scelto di scrivere nella sua lingua madre. Ma rimane un problema: qual è la lingua madre dei marocchini? L’arabo classico, il dialetto, l’Amazigh e le sue varianti o il francese per l’esigua ma potente minoranza francofona nel paese?

In quella che definisce “La frattura linguistica in Marocco”, Laroui chiama in causa soprattutto l’arabo classico, che, in Marocco come in molti altri paesi arabi viene presentato come la lingua ufficiale. Proprio in questo contesto, lo scrittore prende posizione a favore del dialetto marocchino e chiede che sia questa la lingua dell’insegnamento e dei media, denunciando la frattura che va via via allargandosi tra i marocchini e lo Stato proprio a causa di quella che viene percepita sempre più diffusamente come un’imposizione linguistica.

È una posizione forte e naturalmente molto dibattuta in Marocco, soprattutto tra i fautori del dialetto – spesso francofoni come Laroui – e i difensori dell’arabo classico, che negano al dialetto il rango e la dignità di ‘lingua’ e chiedono invece di pulire l’idioma dei marocchini dall’eredità coloniale francese e francofona: molti marocchini infatti scrivono e parlano solo in francese o in dialetto e non conoscono una sola parola di arabo classico.

Sono due posizioni che si confrontano nei giornali, nelle televisioni e nel dibattito pubblico, ognuna con i propri canali e riferimenti politici e culturali, ovviamente opposti. È un dibattito che pervade la società e che sempre più coinvolge la relazione che essa intrattiene con le articolazioni politiche, economiche e culturali del potere nel Regno.

Anche ne L’esteta radicale l’autore torna sul problema linguistico, insistendo sul paradosso idiomatico che fa sì che i personaggi, di varie estrazioni sociali pur parlandosi, non riescono a capirsi, perché si riconoscono in lingue diverse: dei faccia a faccia spesso tragicomici che rispecchiano però una dimensione molto seria del vissuto quotidiano dei marocchini, segnato da fratture sociali e culturali dovute spesso alla mancanza di un’identità linguistica condivisa.

Gli otto racconti della raccolta possono essere divisi a seconda dell’ambientazione: due di essi si svolgono a cavallo tra l’Olanda e la Francia e gli altri in Marocco. I tre racconti riservati direttamente o indirettamente al problema della lingua si svolgono in Marocco e combinano una vena grottesco- ironica con la constatazione ‘tecnica’ della drammaticità di questa questione per i marocchini. In questo contesto, l’autore, impietoso nelle sue accuse al ruolo svolto dall’arabo classico nella società marocchina contemporanea, appare spesso più clemente con i personaggi – categoria a cui egli stesso appartiene. Infine, oltre alla questione linguistica, i racconti marocchini sono accomunati da un punto di vista sul Marocco attento a problemi sociali quali la lotta di classe, gli abusi del potere e la migrazione clandestina.

I racconti ambientati all’estero invece riguardano in particolar modo le problematiche legate alla migrazione, all’immagine del migrante soprattutto musulmano nelle società ospitanti. Laroui confeziona un ritratto assai amaro della realtà di un’interazione difficile fra i migranti o i loro figli e le società occidentali: l’eterno sospetto con il quale, volenti o nolenti, sono spesso visti i migranti musulmani rende tanto complicata anche per loro la possibilità di avere fiducia negli altri. L’appartenenza a due ‘mondi’ diversi fa sì che l’umiliazione che ‘un mondo’ a volte riserva all’altro – come è accaduto con l’occupazione dell’Iraq nel 2003 e con la diffusione del brutale video dell’impiccagione di Saddam, di cui parla uno dei racconti – viene vissuta come un’ ingiustizia personale, un’aggressione ai propri valori e principi, una dichiarazione di guerra contro la propria ‘diversità’. Spesso questo conflitto delle appartenenze sfocia in una rivalutazione del proprio vissuto e delle proprie scelte.

Oltre a questi temi attuali e pressanti, nella sua scrittura Laroui insegue le trasformazioni sociali, politiche e culturali in seno alla società marocchina, e la sua formazione scientifica è alla base di una scrittura leggera, quasi didascalica basata soprattutto sul dialogo e sull’immediatezza della comprensione. Descritti con uno stile asciutto e carico di umore caustico, i personaggi di Laroui sono degli antieroi caduti dal cielo o incrociati per strada, messi di fronte a delle situazioni che sfiorano il burlesco, e i dialoghi dal sapore spesso kafkiano indicano come gli uni sono alla ricerca di un’identità mentre gli altri inseguono un senso alla loro vita, un amore o un semplicemente po’ di pace.

In Laroui non c’è il manierismo degli scrittori magrebini francofoni degli anni ‘70 e ‘80, non ci sono quella poetica e quelle numerosissime metafore importate dalla cultura araba classica nella lingua francese di autori come Taher Ben Jelloun, Mohamed Khair Eddine o Abdellatif Laarbi. Laroui appartiene a una nuova generazione di scrittori marocchini di espressione francofona che forse non ha più bisogno di dimostrare ai francesi che è abile a scrivere in una lingua che non è la sua ”lingua materna”, e non sente più l’esigenza di farcire le proprie frasi di espressioni difficili che tradiscono il desiderio di mostrarsi pari agli scrittori francesi.

Negli ultimi anni Laroui ha dovuto senza dubbio misurarsi con la propria notorietà di ‘opinion maker’. Le sue posizioni non sono sempre piaciute ai militanti del Movimento 20 Febbraio che ha guidato le manifestazioni e il movimento di contestazione in Marocco sulla scia delle rivolte arabe in Tunisia e in Egitto. Laroui è accusato da quest’ultimi di avvalersi della propria autorità ‘paternalistica’ per difendere il sistema politico vigente e per criticare i manifestanti. Infatti, mentre il Movimento 20 Febbraio considera la riforma costituzionale proposta dal Re Mohamed VI e votata dal popolo marocchino come una farsa, Laroui – per esempio in un lettera pubblicata sul quotidiano Marocchino in lingua francese Libération nell’Agosto del 2011 – non ha mancato di accusare i militanti della ‘primavera marocchina’ di mancanza di democrazia e di poca conoscenza della realtà : “La primavera araba non esiste – scrive –, è solo un tic linguistico”. Lo scrittore si dichiara a favore della costituzione e invita il movimento di protesta a imparare qualcosa dalla lezione libica e siriana. La risposta del Movimento non si è fatta attendere e da “fustigatore” si è trovato fustigato: nel suo “j’accuse” contro le manifestazioni, scrivono i militanti, Laroui in realtà cerca di difendere un sistema politico ed economico di cui egli stesso è uno dei beneficiari, un “intellettuale che conta”, ben inserito nei posti “che contano” grazie alla propria formazione privilegiata fatta di scuole private francesi esclusiva dei soli figli dell’alta borghesia, e grandi università europee.

“Essere qualcuno” – come recita il titolo di uno dei racconti – non è facile.

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