Dal Ritorno di Tusk alla Linea di Orban: il blocco Visegrad verso il 2024

È stato un anno di grandi cambiamenti per i paesi dell’Europa centro orientale. Un anno segnato da due importanti appuntamenti elettorali, peraltro molto ravvicinati tra di loro, che hanno rimescolato le carte nel gruppo di Visegrád, dove l’unico punto fermo resta ormai da ben più di decennio l’Ungheria di Viktor Orbán. Andiamo a vedere cos’è successo e quali sono le prospettive per il prossimo anno.

Il ritorno di Tusk…

Il capovolgimento più grande arriva dal Paese con il maggior peso specifico della regione, la Polonia. Le elezioni del 15 ottobre scorso hanno decretato la fine del governo conservatore e nazionalista di Diritto e Giustizia (PiS), sostituito dalla coalizione centro-liberal-progressista guidata da Donald Tusk. Il suo ritorno al governo – è già stato primo ministro dal 2007 al 2014 – segna una svolta a trecentosessanta gradi nelle politiche di Varsavia, che torna a riallinearsi a Bruxelles dopo otto anni di rapporto tormentato.

Importante per l’Unione Europea, che ritrova un importante alleato, e ancora più importante per la Polonia: lo sblocco del Recovery Fund e dei fondi strutturali ora è sicuramente più vicino. Una prova è stato l’anticipo di cinque miliardi di euro, pari al 50 per cento del RePowerEU il meccanismo europeo a sostegno della transizione energetica. Per poter accedere al resto dei fondi sarà però necessario riuscire a riformare il sistema giudiziario, completamente stravolto negli anni a governo PiS.

Non sarà facile. Su questa e su altre riforme pende l’ombra del possibile veto del presidente della Repubblica Andrzej Duda, che del precedente governo è espressione e manterrà il suo incarico fino alle prossime elezioni presidenziali previste tra due anni. L’altro ostacolo è rappresentato da tutti gli altri organi ancora allineati con Diritto e Giustizia.

L’altro grande tema su cui il governo dovrà intervenire e su cui misurerà la tenuta della nuova maggioranza, è quello dell’aborto. La promessa fatta in campagna elettorale è stata quella di intervenire al più presto, ma per farlo sarà necessario giungere a un compromesso tra le diverse anime che compongono la coalizione. PiS non aspetta altro che un passo falso degli avversari. Il 2024 porterà in dote due importanti appuntamenti elettorali. Oltre alle europee sono anche in programma le amministrative locali. Il risultato di queste elezioni sarà il trampolino di lancio proprio le elezioni presidenziali.

 

…e quello di Fico

Un paio settimane prima del “ribaltone” polacco era andato in scena il ritorno di un altro ex premier. Le elezioni parlamentari slovacche erano infatti state vinte da Direzione – Socialdemocrazia (Smer – SD) il partito guidato dal leader populista Robert Fico, già primo ministro tra il 2006 e il 2010 e tra il 2012 e il 2018.

La vittoria di Fico ha segnato l’ennesimo passaggio di un anno turbolento a dir poco, dove il governo sfiduciato di Eduard Heger non è stato in grado di portare a termine la missione affidatagli dalla presidente Čaputova di traghettare il Paese alle elezioni del 30 settembre. L’ennesimo scandalo che ha visto coinvolti alcuni ministri ha costretto Heger a rassegnare le dimissioni. Da maggio a settembre la Slovacchia è stata quindi amministrata dal governo tecnico guidato da Ľudovít Ódor, che pur con poteri limitati ha portato avanti un’agenda filo atlantista ed europeista. Fico dal canto suo è stato abile a sfruttare il clima di incertezza politica. Da una parte si è presentato come elemento antisistema, abbracciando le istanze populiste più estreme, dall’altra, forte della sua esperienza da capo del governo, ha promesso di restituire stabilità al Paese.

La sua però non è stata una vittoria schiacciante, e per costruire un esecutivo ha dovuto imbastire una coalizione con Voce – Democrazia (Hlas – SD), il partito dell’amico/nemico Peter Pellegrini, favorito alle elezioni presidenziali del prossimo anno, e con i nazionalisti del Partito Nazionale Slovacco (SNS). Il ritorno di Fico aveva destato preoccupazioni sul piano internazionale a causa delle sue posizioni riguardo alla guerra in Ucraina, per il momento però la Slovacchia si è allineata agli altri Paesi in occasione del Consiglio Ue di dicembre.

Piuttosto, Fico ha invece dimostrato di essere più concentrato sugli affari interni. Uno dei suoi primi provvedimenti è stato quello di interrompere le comunicazioni con quattro organi di informazione a lui invisi. Poi c’è stato il tentativo di chiudere l’Ufficio del procuratore speciale, un organo anticorruzione che da anni sta indagando su diverse personalità vicine a Smer – SD. Circa 10mila persone sono scese in strada a manifestare contro questa mossa. Sotto l’aspetto dello stato di diritto questo inizio di legislatura non è stato dei migliori, un trend da tenere d’occhio anche nel 2024.

 

La linea Orbán

Quello che si sta per concludere è il tredicesimo anno consecutivo (il diciassettesimo in assoluto) a capo del governo per Viktor Orbán e niente sembra in grado di impensierirlo. Non la categoria degli insegnanti, scesa a manifestare a più riprese contro gli stipendi bassi e più in generale sulle condizioni del sistema dell’istruzione. Contro di loro si è abbattuta la mannaia della cosiddetta “Legge vendetta”, un provvedimento che ha tolto loro lo status di dipendenti pubblici – con tutta una serie di benefit a cui avevano diritto, come periodi di riposo compensativo più lunghi e liquidazioni più alte. L’opposizione politica è di fatto inesistente: la sconfitta bruciante subita alle elezioni del 2022 fa ancora sentire i suoi effetti.

In un Paese in cui Orbán tiene in mano l’intero settore dei media, lo scenario si alterna tra il deprimente e il preoccupante. Certo non servirà a migliorare la situazione la Legge per la protezione sulla sovranità nazionale, approvata proprio in questi giorni e che prevede l’istituzione di un organo di investigazione e controllo su chiunque sia sospettato di servire interessi stranieri accettando finanziamenti dall’estero. La principale critica che viene mossa a questo provvedimento è stata quella di essere molto simile alla legislazione russa sugli agenti stranieri.

A proposito di Russia, il 2023 verrà ricordato come l’anno della stretta di mano di Orbán con Vladimir Putin a Pechino durante il forum sulla Via della Seta. È il primo politico occidentale a farlo dall’inizio della guerra.

Nel consesso europeo continua il braccio di ferro con Bruxelles. In occasione dell’ultimo Consiglio europeo Orbán è riuscito a farsi sbloccare dieci miliardi di euro di fondi, congelati per le questioni relative allo stato di diritto. È stato questo il prezzo alla sua assenza durante il voto all’avvio dei negoziati di adesione all’Unione europea per l’Ucraina. La sua contromossa è stata quella di porre il veto al pacchetto quadriennale di aiuti da 50 miliardi di euro destinato a Kyiv.

Il 2024 vedrà nel secondo semestre proprio l’Ungheria alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. C’è però un’incognita: contro Budapest potrebbe ritornare d’attualità la minaccia dell’attivazione dell’articolo 7 dei trattati, il meccanismo che sospende il diritto di voto proprio in sede di Consiglio. Negli ultimi anni questa spada di Damocle era stata neutralizzata dal veto polacco. Ora però che il vento a Varsavia è cambiato, Orbán rischia di ritrovarsi pericolosamente solo.

 

Paure ceche

Quello della Repubblica Ceca è stato un anno particolare. Il risultato delle elezioni presidenziali di gennaio sembrava aver dato equilibrio e stabilità all’assetto politico del Paese, con la netta affermazione del generale in pensione Petr Pavel davanti all’ex premier Andrej Babiš. La candidatura di Pavel era formalmente indipendente, ma espressione della coalizione centrista ed europeista guidata da Petr Fiala che governa il Paese dal 2021. Si andava a creare così un allineamento che in Repubblica Ceca mancava dal 2013, ovvero da quando l’estroso Miloš Zeman aveva assunto la carica presidenziale. Le premesse per un anno sereno, o perlomeno di transizione c’erano tutte. Le cose però sono andate diversamente.

La Repubblica Ceca oggi è alle prese con una difficile situazione economica legata a un grave deficit pubblico. A novembre dopo mesi di tentativi e ripensamenti il governo ceco ha fatto passare una serie di misure di austerità volte a sanare il bilancio. Norme dolorose come la riforma dell’Iva che ha provocato l’innalzamento delle tasse su alcolici e medicinali, e un generale aumento delle imposte. Ad essere contestata è soprattutto la proposta di riforma del sistema pensionistico, che prevede un ricalcolo dell’età pensionabile in base all’aspettativa di vita e un sostanziale rallentamento nell’indicizzazione in rapporto all’inflazione. I sindacati lamentano poco coinvolgimento da parte nel governo, il cui livello di popolarità è ormai ai minimi storici. Il 27 novembre migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la manovra e invece chiedere maggiori fondi per sanità e istruzione. Quel giorno oltre il 70 per cento delle scuole sono rimaste chiuse.

A sostenere le proteste c’è ovviamente Babiš, che conta in un passo falso dei suoi avversari politici per ritornare al governo. Con queste premesse il 2024 si preannuncia tutt’altro che tranquillo.

 

Immagine di copertina: l’ex primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e il primo ministro ungherese Viktor Orban (foto di Beata Zawrzel / NurPhoto / NurPhoto via AFP).

 

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