Il superamento del settarismo passa dalle comunità cristiane orientali

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La Siria, l’Iraq, il Libano, la progressiva settarizzazione e spartizione del Levante in zone di influenza. L’imperialismo uguale e contrario dell’Iran e delle petromonarchie del Golfo. I cristiani orientali, i loro diritti non in quanto minoranza ma parte integrante delle società arabe, e la loro centralità nel superamento degli attuali conflitti e nella costruzione di una comune cittadinanza.
Riccardo Cristiano, vaticanista del Giornale Radio Rai, autore fra gli altri di Medio Oriente senza cristiani? e Il giorno dopo la Primavera, scritto con Samir Frangieh, studioso dei fenomeni interreligiosi e del rapporto fra islam e cristianesimo, rintraccia negli anni Settanta il primo periodo di crisi del pensiero laico e progressista, e l’emergere di quello rivoluzionario sunnita.

Cosa ha portato, dalla fine dell’impero ottomano in poi, allo sviluppo di due blocchi di influenza che ruotano attorno agli ayatollah sciiti da un lato e alle monarchie sunnite del Golfo dall’altro? E quali sono i punti di contatto fra queste due realtà apparentemente opposte?

Se negli anni Settanta abbiamo assistito all’eclissi del pensiero laico, progressista e comunista, e ad un improvviso emergere del pensiero rivoluzionario sunnita, il primo punto di contatto fra questi due blocchi si ritrova nelle teorie di Sayyd Qutb (1906-1966, ideologo radicale egiziano, membro dei Fratelli Musulmani e autore de La Giustizia Sociale nell’Islam, ndr.), di stampo islamico rivoluzionario, che si possono associare sia all’area sunnita che invocherà questa strada con derive diverse, sia all’area sciita che sceglierà un approccio teocratico. Qutb rappresenta la sintesi delle rivoluzioni di sinistra tese a soddisfare la richiesta di condivisione della società, dove sarà la sharia a diventare strumento rivoluzionario. Questa è una categoria che troviamo sia nell’islam sunnita sia in quello teocratico khomeinista. Dal punto di vista delle petromonarchie, il pensiero di Qutb non è certo familiare: loro non sono rivoluzionari, ma reazionari, associano in quegli anni la loro guerra al passato, al nasserismo, alla sinistra, alle esperienze fallite e al panarabismo, ad una visione espansionista per la conquista dell’islam. L’islam wahabita che era guardato con disprezzo sin dai tempi degli ottomani, diventa un protagonista globale quando lo diventa l’Arabia Saudita.
Secondo Jilles Kepel l’accordo tra sauditi e wahabiti ha funzionato nella prospettiva di una rottura della violenza del ciclo tribale finalizzata alla costruzione di una ipertribù, quella saudita. Ma per fare questo serviva il jihadismo fanatico. Esportare questa visione dell’islam era impossibile nelle società levantine, come Libano, Siria, Egitto. E diventa possibile solo quando l’Arabia Saudita si fa promotrice di un islam che rappresenta il muro antisovietico. Con la guerra in Afghanistan quest’islam reazionario si salda con quello rivoluzionario dei mujaheddin afgani, ed è da lì che il qutbismo si impossessa di una corrente armata finanziata dai sauditi, ma che ha in loro, considerati amici degli americani, anche il principale nemico.
Lo stesso processo a parti capovolte accade dall’altra parte: la teocrazia iraniana si presenta non come reazionaria ma come rivoluzionaria in senso propriamente qutbista, applicando però in aggiunta una visione teocratica estranea alla tradizione sciita. Queste due eresie diventano predominanti nel mondo islamico in funzione delle parti contrapposte che si fronteggiano a quel tempo. Una alleata del mondo antagonista rivoluzionario, una del mondo conservatore reazionario. È interessantissimo vedere come il pensiero teocratico komeinista riesca a fare proprie sin dall’inizio le idee rivoluzionarie islamico marxiste di Shari’ati, pur non avendo nulla in comune con il suo pensiero – tant’è che poi verrà estromesso dal filone di comando della rivoluzione. Per quanto le origini siano diverse e il corso della storia sia stato differente, si determinano due imperialismi che hanno come oggetto la conquista dell’islam. I sauditi mirano a wahabizzarlo, e il califfato è l’ultima deriva di questo processo, e la stessa idea è quella dell’imamato komeinista, che mira anch’esso alla conquista dell’islam. Questi opposti imperialismi ideologici si manifestano anche sul terreno, ad esempio con l’uso di milizie.

L’Iraq: cosa è cambiato dall’invasione americana del 2003 in termini di identità del paese?

L’Iraq è una drammatica faglia. Baghdad è l’antica capitale di quel califfato che gli sciiti in un certo senso rivendicano come bagaglio storico. Quindi per loro riprendere il controllo di Baghdad significa presentarsi come gli eredi intestatari dell’epoca abbaside (750-1258 d.C. ndr). La capitale irachena ha un valore molto forte anche per la presenza dei luoghi santi che vengono sempre usati simbolicamente per richiamare le sofferenze subite dalle minoranze. Gli sciiti sono stati massacrati e disprezzati in tutto il mondo arabo, in particolare in Iraq dove c’erano i loro luoghi santi, ed è chiaro come richiamo di Najaf, Karbala e Baghdad sia molto forte, come lo è il richiamo ai luoghi santi in pericolo, per chi è stato sotto il tacco per secoli.
Quello che è successo nel 2003 è stato di un’enorme valenza, intanto perché gli sciiti non erano più minoranza e rivendicavano i loro diritti, ma questa rivendicazione anziché sanare il passato ha favorito solo l’emergere del settarismo, l’unica cosa che resta in piedi oggi. Non a caso si comincia a parlare di tripartizione su linea clanico tribale, fra curdi, sunniti e sciiti. Questa deriva favorisce lo smantellamento degli stati e una loro ridefinizione in termini di identitarismo, e non potrà produrre altro che una riorganizzazione in cui la politica scompare sempre più a favore della religione.
Nel libro Medio Oriente senza cristiani? faccio l’esempio delle tribù transgiordane religiosamente miste (le tribù di Karak), organizzate in una federazione governata da membri indifferentemente cristiani o musulmani. Le alleanze non si determinavano in base al fattore religioso, e spesso, essendo tra i pochi alfabetizzati, erano i preti cristiani a svolgere la funzione di qadi (giudice islamico, ndr). Purtroppo il concetto di uguaglianza è venuto meno e ha lasciato spazio alla formula delle minoranze protette.

Dei cristiani orientali si parla sempre in termini di minoranze, eppure sono storicamente e culturalmente parte della società araba. Come si supera questo concetto?

A Baghdad i cristiani erano i custodi della Casa della Sapienza, a Beirut sono diventati i tutori della lingua araba messa a repentaglio dalla supremazia turcofona proposta dagli ottomani. Sono stati i monasteri, le stamperie, le case editrici cristiane a mantenere l’arabo, che si modernizza proprio nel lavoro di traduzione della Bibbia. L’arabo mediano, ripulito dalle formule complesse dell’arabo aulico del Corano, costituisce il riferimento autentico della lingua oggi in uso, ed è stato inventato dai traduttori della Bibbia, due missionari e un dotto dell’islam. A quel punto l’arabo diventa anche la lingua di tante liturgie cristiane che possono più facilmente incamminarsi al fianco di quella aramaica. È evidente che i cristiani non sono una minoranza: sono numericamente di meno, ma come si può considerarli parte minoritaria nella società, visto il significato che hanno avuto nel percorso culturale?
Questa categoria dei cristiani come minoranza protetta è una sorta di accettazione del fatto che in quel mondo non si possa esistere se non in quanto minoranza.
Ma così non è: c’è stata la costituzione ottomana, poi l’esperienza egiziana di re Fu’ad. E c’è il Libano che dimostra che si può essere Stato differenziandosi dalla deriva settario-confessionale, e garantendo all’interno di un territorio tutte le comunità presenti, in questo caso rappresentate dalle tre cariche istituzionali.

In questo senso la pace di Taif che ha messo fine a quindici anni di guerra civile libanese è un modello esportabile, ad esempio in Siria?

Credo che Taif sia il prodotto di un’esperienza dolorosissima. Quindici anni di guerra civile hanno significato la presa di consapevolezza di non volerci ricadere più, nonostante le tensioni che tuttora ci sono. Taif è una formula che non deve essere reintrodotta pedissequamente, ma nella sostanza dice che le comunità appartengono a quella società e vanno garantite perché nessuno deve più temere di essere annichilito dall’altro e i diritti vanno dati alle persone, riconosciute in quanto tali e non in quanto appartenenti ad una fede.
Mentre se continuiamo ad accettare la definizione di minoranza creiamo gabbie.
La rappresentanza istituzionale delle comunità diventa il simbolo che indica come tutti debbano essere garantiti ed intestatari di diritti. Le soluzioni possono essere diverse, ma il principio deve essere il vivere insieme, e se ha funzionato in Libano dove ci sono 18 diverse comunità non riesco a capire come non possa funzionare altrove. E la Siria da questo punto di vista potrebbe essere il paese che meglio si adatterebbe a quel modello, anche per contiguità storica. Il problema è che continuano a prevalere le ideologie identitarie.

Che cosa hanno dimostrato le Primavere del 2011, movimenti trasversali al panarabismo e ai settarismi?

C’è da prendere atto del fallimento della politica araba: ci sono state influenze esterne rilevanti, però il fallimento di tutti i panarabismi e panislamismi è stato denunciato dalle piazze arabe del 2011. Questa ammissione dice che c’è una speranza ma anche un problema. Non è facile ripartire da zero, se questo processo è stato determinato dall’espulsione dei diritti umani dal proprio contesto. Una via d’uscita istantanea non sarebbe mai stata possibile, ma spesso la sua ricerca immediata ha favorito letture poco pensate, come quella delle minoranze. Parlare di minoranza però implica il riconoscimento delle discriminazioni, e il pericolo è che ci si appoggi agli estremismi.
L’Isis non esisteva: è derivato dal fatto che non si è vista la questione sunnita. Il fatto che non ci sia un’iniziativa per cercare di offrire un terreno comune a sunniti e sciiti per superare gli opposti imperialismi, che si presentano come tutori dell’una o dell’altra comunità, non fa altro che rendere più drammatica la crisi.
Ma bisogna tenere conto che, nonostante la presa di coscienza, nel 2011 si facevano i conti con società destrutturate, dove era naturale che un conflitto durato decenni portasse a regolamenti di conti interni prima che alla costruzione di una prospettiva comune. Considerato che non c’erano le condizioni per far emergere una leadership già pronta.
Solo in Tunisia le cose sono andate un po’ meglio perché le leadership hanno dimostrato di voler tutelare il concetto di Stato, cosa che ha consentito il secondo voto, la costituzione e un cammino faticoso ma percorribile. Gli altri hanno avuto più difficoltà. In Iraq la rivolta contro al Quaeda c’è stata ma poi l’esperimento Petraeus è stato abbandonato da Obama, che ha preferito ritirarsi, e in quel vuoto sono intervenuti altri fattori, tutti estremisti.

Cristiani orientali e non cristiani d’Oriente. Perché? E quale ruolo possono assumere oggi nella costruzione di una terza via che non sia sponda di alcun estremismo?

Se si parla di cristiani orientali, l’accento cade sui cristiani; se si indicano queste comunità come d’Oriente, l’accento cade appunto sul luogo come categoria politica, come contrapposizione rispetto ad altro. Quindi implicitamente si assume che il territorio sia appannaggio del solo islam, e che i cristiani in quanto minoranza e non cittadinanza vadano protetti.
In questi giorni il patriarca caldeo ha lanciato un messaggio per il superamento delle divisioni fra assiri e caldei, si è detto disposto a dimettersi per fondare una chiesa unica, convocando un grande sinodo per superare gli etnicismi. Un patriarca che mette a disposizione il suo posto per salvare un patrimonio di spiritualità ma anche culturale e politico, offre un contributo enorme. Ma ho visto solo questo caso di presa di posizione.
Credo che i cristiani possano offrirsi come honest broker, perché conoscono sunniti e sciiti, sono loro fratelli. Perché sul nucleare ci si può confrontare e sull’assetto territoriale di stati falliti come Iraq e Siria no? Anche il male minore può essere una categoria solo se la si valuta insieme. Altrimenti ci si dovrà sempre fare i conti. Le tribù sunnite che si sono alleate con lo Stato Islamico perché vessate dal regime di al Maliki hanno ritenuto di scegliere il male minore. Ma quelli che sono stati uccisi, vessati dall’Isis la penserebbero ancora così? Guardare a realtà in cui ci sono state pulizie etniche fra le più efferate dal secondo dopoguerra e ritenere che ci possa essere un male minore più produrre solo ulteriori danni. La malattia è il fallimento della politica araba. E va affrontata. E le comunità cristiane in questo possono giocare un ruolo importante.

Immagine di copertina: Delil souleiman / AFP

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