Egitto: così al Sisi minaccia anche
con l’arma islamista della “blasfemia”

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Non poteva scegliere tema più calzante Fatima Naoot. La poesia che ha deciso di leggere, durante un incontro letterario tenutosi al Cairo alla fine del marzo scorso, parlava di prigioni sia fisiche, che psicologiche e delle persone le utilizzano per intrappolare la libertà di parola. Tra costoro ci sono coloro che si sono sentiti oltraggiati da un suo post su Facebook, e quelli che hanno intentato contro di lei una causa, conducendola al cospetto di un tribunale egiziano che l’ha condannata per aver “insultato l’Islam”.

Nel post incriminato la poetessa ha definito l’uccisione cerimoniale dei montoni, che avviene tradizionalmente durante la festa musulmana dell’Id al-Adha, «il più orribile dei massacri commessi dagli esseri umani». Per questo, nel gennaio scorso, è stata condannata a tre anni di prigione. Purtroppo anche il suo tentativo di appello, a cui aveva fatto ricorso mentre era fuori dal carcere su cauzione, non è andato a buon fine, così alla fine di marzo una corte egiziana ha confermato la sentenza per “oltraggio alla religione”.

Questo episodio, che fa parte di una lunga serie, mostra il progressivo ridimensionamento della libertà di espressione in Egitto a partire dalla rivoluzione che ha deposto il regime autocratico di Hosni Mubarak, cinque anni fa.

In effetti, Naoot fa parte di quel crescente numero di cittadini egiziani che si trovano in prigione, sotto processo, oppure hanno perso il lavoro per aver pubblicamente espresso le loro opinioni. Per di più, nel suo caso, la negazione della libertà di espressione non è il solo elemento a destare preoccupazione, c’è qualcos’altro: Naoot è stata, infatti, una delle vittime della problematica legge sulla blasfemia che il governo egiziano sta incessantemente applicando in maniera viepiù aggressiva.

Infatti, nonostante la lunga storia secolare dell’esercito egiziano che si trova ora al governo del paese, i dati mostrano come ci siano state più incarcerazioni su base religiosa durante il presente mandato del presidente Abd al-Fattah al-Sisi, che sotto il governo islamista che lo stesso ex-generale ha deposto due anni fa.

Effettivamente, dalla rivoluzione del 2011 c’è stato un repentino incremento nei casi di blasfemia, una tendenza che sta continuando sotto il governo di al-Sisi, nonostante, dopo aver cacciato l’ex presidente Morsi, egli si sia autorappresentato come protettore delle minoranze religiose in Egitto.

Tipicamente, le accuse di blasfemia si rifanno all’Articolo 98(comma F) del codice penale egiziano, che vieta “di insultare o denigrare le religioni celesti” (Islam, Cristianesimo ed Ebraismo). Nella pratica, però, le accuse vengono rivolte in maniera sproporzionata proprio nei confronti dei membri delle minoranze religiose, quasi sempre incolpati di aver insultato l’Islam.

Secondo il Tahrir Institute for the Middle East Policies (TIMEP), delle 36 accuse di blasfemia portate a processo tra il 2011 e il 2012, 35 erano per oltraggio all’Islam, e solo una, successivamente respinta, era per blasfemia contro il Cristianesimo. Inoltre, quasi il 41% dei casi di blasfemia sono intentati contro cristiani, sebbene essi rappresentino all’incirca il 10% sul totale della popolazione egiziana. Senza contare che queste accuse spesso si fondano su prove di dubbia evidenza, così come per il caso di post di Facebook.

I giornali sono pieni di storie assurde, come quella dei tre ragazzi cristiani di Alessandria, accusati di “aver pubblicamente oltraggiato l’Islam”  per aver distribuito, dopo il tramonto durante il mese di Ramadan, dei datteri che recavano dei versi della Bibbia scritti sull’imballaggio in cui erano avvolti. Così come, lo scorso febbraio, altri quattro cristiani copti, poco più che adolescenti, sono stati condannati a cinque anni di prigione per aver girato un video in cui recitavano dei versi del Corano, mentre uno di loro si portava una mano alla gola, mimando una decapitazione. Il giudice ha disposto la loro carcerazione per aver insultato l’Islam, nonostante i ragazzi si siano giustificati dicendo che il video intendeva essere una parodia della violenza dello Stato Islamico.

Lo Stato non è il solo responsabile di questi processi e incarcerazioni. Infatti anche al-Azhar, l’importante istituzione universitaria e moschea sunnita, sta avendo un ruolo nella questione, con i suoi studiosi che sembrano voler garantire e proteggere questa discussa legge. Ad esempio, nel maggio 2015, il presentatore televisivo Islam al-Behairy è stato condannato per blasfemia in seguito alle proteste inscenate dalle autorità di al-Azhar che lamentavano il fatto che il suo programma “instillasse negli spettatori dei dubbi su ciò che, invece, è certo nella religione”. Dopo circa un anno di processi e appelli, Behairy è stato condannato nel febbraio 2016 e dovrà scontare un anno di carcere.

Inoltre, i membri di al-Azhar, così come altre frange dell’establishment religioso di stato, hanno ripetutamente rilasciato dichiarazioni circa i pericoli a cui va incontro il vero Islam per il diffondersi di ideologie come l’ateismo e lo Sciismo. Questo, nonostante Mona Mounir, membro del parlamento in carica, abbia depositato una proposta di legge per modificare l’Articolo 98(F) del Codice Penale, e Ali Abdel Aal, il portavoce del Parlamento, abbia chiesto alla stessa al-Azhar e al Ministero dei Beni e degli Affari Religiosi di rivedere la legge, incoraggiando al rinnovo del discorso religioso.

Sebbene molti osservatori e inchieste avessero riscontrato un incremento delle denunce per blasfemia nel periodo successivo alla Rivoluzione e durante il governo di Morsi, questa tendenza è aumentata in maniera preoccupante sotto al-Sisi, nonostante egli sostenga di difendere le minoranze religiose in Egitto. I dati sembrano, infatti, smentirlo, in quanto il numero di casi registrati finora durante il suo governo risulta maggiore di quelli avvenuti sotto Morsi.

In realtà sta diventando sempre più chiaro come l’uso di denunce  e accuse di blasfemia sia in realtà usato come un potente strumento per riottenere e mantenere il controllo della popolazione. Tutto ciò sembra confermare quanto già anticipato, nel maggio 2014, da Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell’Egitto contemporaneo. «Al-Sisi  si appoggerà molto di più sull’Islam per legittimare il suo regime autocratico – scriveva Springborg nel suo articolo Sisi’s Secret Islamism comparso su Foreign Affairs – più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri».

In questa ottica, il discorso sulla “rivoluzione religiosa” tenuto da al-Sisi il 28 dicembre 2014 ad Al-Azhar, grazie al quale è stato paragonato a Martin Lutero, è stata solo la rappresentazione pubblica ed evidente di una strategia volta al consolidamento del suo regime, di cui la religione è solo una componente, seppure molto importante.

Nella foto di copertina: Il generale Al-Sisi visita il Pope Tawadros II in una chiesa copta del Cairo la notte di Natale 2015

Silia Galli ha collaborato alla redazione del testo.

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