Bambini, la prima vittima della crisi.
Una tragedia che poteva essere evitata

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il crack finanziario degli ultimi anni è diventato crisi economica e la crisi economica è diventata crisi dei bambini. Perdita di lavoro in famiglia, mancanza di risorse economiche, tagli al welfare e ai servizi sociali si sono risolti in maggiore povertà per minori e adolescenti. La povertà ha tante facce. Ha quella, drammatica, della grave deprivazione materiale: mancano i soldi per tenere la casa riscaldata e per avere pasti adeguati, così le famiglie in crisi comprano meno, comprano cibo di minore qualità, mangiano meno carne e pesce. Dal 2008, dice l’Unicef, la percentuale di nuclei familiari con bambini che non può permettersi di mangiare carne, pesce o pollo ogni due giorni in Italia è più che raddoppiata. C’è poi una povertà che taglia le gambe alle speranze dell’infanzia e alla capacità dei bambini di sognare e di costruirsi un futuro: è quella che non permette di avere libri, di andare in vacanza, di frequentare uno sport, di visitare un museo, di avere la connessione Internet. E come si fa a essere disconnessi in un mondo che è sempre online? Si perde terreno prima ancora di partire. La crisi economica ha avuto un impatto devastante sui bambini e sugli adolescenti che rischiano di rimanere intrappolati in una catena di povertà: le condizioni di deprivazione rischiano di riprodursi all’infinito, la povertà è anche disuguaglianza e mancanza di opportunità, le disuguaglianze sociali stanno aumentando e tutto questo può alimentare nuova povertà. Non è inevitabile, ma senza interventi a sostegno dell’infanzia è così che la catena rischia di riprodursi.

Si legge nel rapporto Unicef «Figli della recessione», pubblicato lo scorso ottobre con i dati sulle condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza in 41 Stati ad alto reddito (Ocse e Ue) colpiti dalla recessione fra 2008 e 2012: «A distanza di venticinque anni da quando la Convenzione sui diritti dell’infanzia è diventata legge internazionale, molti dei suoi propositi non sono stati attuati, e i paesi industrializzati maggiormente in grado di realizzare tali obiettivi stanno perdendo terreno. La Grande Recessione, messa in moto da un crack finanziario partito dagli Stati Uniti e diffusosi poi rapidamente in tutto il globo, ha causato una crisi economica che ha colpito in modo particolare i bambini. Il divario tra famiglie ricche e famiglie povere si è ingigantito in un numero allarmante di paesi industrializzati. Per molti di questi bambini, ancora una volta il luogo di nascita può essere decisivo in termini di diritti e opportunità». L’Italia ne esce con le ossa rotte: il 16% dei bambini italiani, dice l’Unicef, vive in condizioni di grave deprivazione materiale (le famiglie non possono pagare il mutuo o le utenze, oppure tenere calda la casa, o consumere regolarmente carne) e ha il tasso più alto d’Europa di giovani Neet – sono coloro che, fra i 15 e i 24 anni, non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione.

La situazione è ancora più drammatica se si guarda agli ultimi dati messi insieme da Save the Children nell’Atlante dell’Infanzia: in Italia ci sono un milione 400 mila bambini e ragazzi che vivono in condizioni di povertà assoluta (il 13,8% dei minori) e più del 68% delle famiglie è costretta a risparmiare sul cibo o a comprarne di qualità inferiore. Spiega Raffaela Milano, Direttore Programmi Italia-Europa di Save the Children: «Dal 2009 al 2013 è raddoppiato il numero dei bambini e degli adolescenti che sono in povertà assoluta. Nel 2013 l’Istat ha calcolato 1 milione 400 mila minori in povertà assoluta, una condizione che indica quando una famiglia non ha un paniere di beni e servizi essenziali per una vita quotidiana dignitosa. Chi sono? Sono bambini che vivono soprattutto nelle regioni del Sud Italia. Sono bambini che vivono in famiglie numerose o con un solo genitore. Sono bambini di famiglie migranti. E bambini figli di coppie molto giovani».

La povertà però va oltre il livello materiale, pur grave, e diventa «povertà educativa»: riduzione del reddito delle famiglie e tagli al welfare impoveriscono la vita culturale dei bambini. Save the Children evidenzia che «tre milioni 200 mila bambini e ragazzi tra 6 e 17 anni (il 47,9% del gruppo di età) non hanno letto un libro nel 2013 e circa 4 milioni (il 60,8%) non hanno visitato una mostra o un museo. Non viaggia né si apre a nuovi mondi e persone il 51,6% di under 18 che vive in famiglie che non possono permettersi nemmeno una settimana di ferie l’anno lontano da casa. Lo sport grande assente nei pomeriggi del 53,7% degli adolescenti (15-18 anni), che non fanno alcuna attività motoria continuativa nel tempo libero».

Le conseguenze di queste carenze sono immediate e si riverberano nel futuro, spiega Raffaela Milano: «È un grande danno, quello che viene fatto ai bambini che vivono in famiglie povere e in contesti poveri, perché si pregiudica il loro futuro. E la scuola non riesce a riequilibrare queste distanze». Ci sono poi i «disconnessi culturali»: sono i minori che non leggono, non visitano musei, non hanno accesso alla cultura. I dati di Save the Children dicono che quasi cinque minori su dieci, nella fascia d’età fra 6 e 17 anni, non ha mai letto un libro durante l’anno; oltre il 60% non è mai stato in un museo; sette su dieci non hanno visitato un’area archeologica e non sono andati a teatro; più di otto su dieci non hanno mai ascoltato un concerto. I bambini che vivono in periferia talvolta non hanno mai visto i monumenti della loro città. Commenta Raffaela Milano: «In un’epoca in cui si è sempre connessi, una percentuale rilevante di bambini e adolescenti rischia di chiudere i propri orizzonti sin da piccoli. C’è un muro che si alza di fronte a questi bambini e ragazzi, perché la mancanza di opportunità di crescita culturale pregiudica la scoperta dei propri interessi e dei propri talenti e la voglia di guardare avanti. Si crea un’enorme discriminazione ai danni dei bambini che vivono nelle famiglie più povere, perché purtroppo questi consumi culturali sono per gran parte dei casi solo a carico delle famiglie. Molti dei ragazzini con cui operiamo come Save the Children nei quartieri di periferia non hanno mai visitato i monumenti o il centro storico della propria città. È un mondo chiuso. E quando si cresce in un circuito chiuso tutto diventa più difficile quando si è più grandi».

L’istituzione scuola gioca un ruolo chiave ma in negativo: non ce la fa. Allo stesso tempo, sulle cronache sono spesso rimbalzati i casi dei bambini esclusi dal servizio mensa perché i genitori erano morosi. Dice Raffaela Milano: «È il segno più chiaro di un’ingiustizia feroce nei confronti dei bambini. Noi abbiamo chiesto un intervento per creare un livello essenziale di assistenza nazionale per cui la mensa debba essere considerata gratuita per tutti i bambini in condizione di povertà assoluta certificata». La proposta per ora è stata ripresa da un disegno di legge. Se è vero che nelle periferie non ci sono spazi pensati per i bambini, è anche vero che «spezzare la disuguaglianza è possibile», dice Milano. Save the Children ci sta provando con la campagna “Illuminiamo il futuro” e con la realizzazione di “punti luce” in alcune aree di periferia «dove garantire ai bambini che vivono in contesti difficili spazi “ad alta densità educativa” – spiega Milano – dove sono accompagnati non solo nello studio ma possono scoprire l’amore per la musica, il teatro, lo sport. Questo anche in un contesto povero fa la differenza». Un’agenda in tre punti di provvedimenti da prendere subito, prosegue Milano, sarebbe quella di sbloccare i fondi europei per gli asili nido, di ampliare a tutta Italia la sperimentazione della nuova social card alle famiglie povere con minori, di istituire «aree ad alta intensità educativa» nelle aree più povere e nei quartieri più difficili per i minori, investendo nella scuola come nei campi da gioco e nei teatri.

Bisogna però sollevare il dubbio e rispondersi negativamente: l’impoverimento ulteriore dei bambini con la crisi economica non era un esito inevitabile. Certamente i giovani sono stati le prime vittime della crisi in tutti i paesi ad alto reddito, ma l’impoverimento non ha riguardato tutti. Qualcuno ce l’ha fatta a non sacrificare la propria infanzia. E a dirlo è proprio l’Unicef nel rapporto «Figli della recessione» che pure evidenzia come governi e istituzioni non siano stati capaci di proteggere i bambini specialmente in settori quali l’istruzione e la salute. Sostiene l’Unicef: «In ciascun paese, la portata e la natura dell’impatto della crisi sui bambini sono state influenzate dalla profondità della recessione, dalle condizioni economiche preesistenti, dalla solidità della rete di protezione sociale e, cosa ancor più importante, dalle risposte politiche. È significativo che, in una crisi sociale senza precedenti come questa, molti paesi siano riusciti a limitare, se non addirittura a ridurre, la povertà infantile. Non era quindi inevitabile che i bambini fossero le vittime più penalizzate dalla recessione». Non lo è stato, ad esempio, in Australia, in Cile, in Finlandia, in Norvegia, in Polonia, in Slovacchia, che hanno ridotto i livelli di povertà infantile di circa il 30%.

Non era inevitabile, appunto. Spiega Raffaela Milano: «In Italia i bambini sono la fascia di età più colpita dalla povertà. In altri paesi non è stato così. Noi siamo arrivati ad affrontare la crisi senza avere un’infrastruttura di welfare solida, perché alcuni gap sono precedenti. Pensiamo all’assenza di asili nido: mancavano prima della crisi e questa mancanza è diventata più pesante dopo. Noi siamo partiti già con un welfare molto debole e delegato alle famiglie, poi le mancanze di welfare sono diventate più evidenti quando ci siamo ritrovati ad affrontare la crisi economica».

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *