Aprire agli islamisti per “dimenticare”
i palestinesi. La tentazione del Likud

Le elezioni del 23 marzo scorso in Israele sono state le quarte nell’arco di due anni (dall’aprile del 2019) e molti giornali si sono soffermati sul fatto che, per la quarta volta consecutiva, il sistema elettorale proporzionale non sia stato in grado di designare una maggioranza certa.

Il Likud, il partito maggioritario del Premier Netanyahu, ha registrato un arretramento netto di 7 seggi complessivi, realizzando la sua peggiore performance elettorale dal 2019: tuttavia non si tratta di una sconfitta netta, anzi, il Presidente Rivlin ha appena riaffidato al Premier uscente il mandato esplorativo per la formazione di un nuovo governo entro i prossimi 28 giorni, avendo egli ottenuto la maggioranza delle nomine da parte delle forze parlamentari. Sembra, dunque, che ancora una volta Netanyahu abbia ottenuto un risultato soddisfacente, ovvero la chance di formare un altro governo di coalizione.  Cosa c’è di nuovo, dunque, rispetto ai cicli elettorali precedenti? Che quello che si delinea potrebbe essere una coalizione sempre a guida Netanyahu ma poggiante su un blocco eterogeneo di forze politiche ultraconservatrici bipartisan, del tutto inedito per il Paese.

Tutti i governi precedenti si sono, infatti, fondati su un blocco a vocazione maggioritaria (anche quando incapace di raggiungere i 61 seggi richiesti per governare il Paese), composto dalla destra pragmatica del Likud, dai partiti religiosi e da altre formazioni di centro-destra (come i Bianchi&Blu – Kahol Lavan di Benny Gantz) o di destra come ha-Yamina di Naftali Bennet. A contrapporsi al blocco maggioritario – Israele è governato dalla Destra o da alleanze di Destra dal 1999 – vi erano sempre le forze divise della Sinistra sionista (Il partito laburista e Meretz, la sinistra radicale) e i partiti arabi, marginalizzati da tutti i governi israeliani e condannati all’ininfluenza, nonostante la loro Lista Unita fosse emersa come la terza forza del Paese nelle elezioni dello scorso marzo (2020). Nonostante tutte le incertezze del caso e la possibilità di spaccature interne alla Destra (ad esempio, la frattura con Kadima di Ariel Sharon nel 2000) e frazionamenti legati a contrasti personali (si veda l’attuale opposizione tra Gideon Sa’ar di Tikvà Chadashà e Netanyahu), la Destra è considerata il perno stabile intorno al quale costruire qualsiasi coalizione di governo dal 1999: la Sinistra sionista è infatti percepita come un reperto storico e del tutto condannata – come i partiti arabi, sebbene per ragioni diverse – all’irrilevanza.

 

Amici o nemici

Nell’ultimo anno, ovvero dal 17 marzo dello scorso anno, in cui al Premier sono state formalizzate tre accuse gravi per corruzione dal Procuratore di Stato, i toni delle campagne elettorali israeliane sono diventati completamente antiideologici, ruotando soltanto intorno al giudizio sulla figura politica di Netanyahu ed escludendo un dibattito pubblico su qualsiasi altro argomento di interesse strategico, come la ripresa di negoziati di pace con i Palestinesi, l’attacco preventivo all’Iran o temi economici di particolare interesse per il pubblico, considerato il tasso di disoccupazione in risalita (ora al 16.7%).

Lo scontro partitico, invece, si è concentrato solo ed esclusivamente sulla figura del Premier: in effetti, Netanyahu ha dovuto confrontarsi con l’avvio del processo per tre capi di imputazione diversi – i cosiddetti “casi 1000, 2000 e 4000”, che riguardano le accuse di “frode, abuso d’ufficio e corruzione” per aver ottenuto regali da parte del produttore hollywodiano USA Arnon Milchan in cambio di esenzioni fiscali e aver rispettivamente corrotto il direttore del quotidiano Yediot Aharonot e quello del sito di informazione Walla in cambio di una copertura mediatica favorevole. Il risultato è stato che le campagne elettorali si sono trasformate in plebisciti pro o contro la sua persona, accusata dai suoi oppositori di corruzione e immoralità dilagante, e difesa dalla sua constituency in virtù di tutti i risultati positivi e concreti ottenuti dalla sua politica negli ultimi venticinque anni.

Netanyahu ha già vinto il suo referendum personale, continuando a detenere fermamente la leadership del suo partito, non insidiata dal rivale ed ex compagno likudnik Gideon Sa’ar, da cui i sondaggi si attendevano un’avanzata elettorale significativa, e disintegrando il possibile vantaggio del blocco a lui opposto: dividendo il terzo partito uscito dalle urne nel 2020, la Lista unita (araba), che ha così finito per perdere ben 5 seggi determinanti (dagli 11 del marzo 2020 agli attuali 6).

La sua apertura pre-elettorale a Mansour Abbas, leader di Ra’am, il partito islamista e più marcatamente conservatore di tutto lo spettro politico arabo, ha infatti spiazzato gli osservatori, ma Netanyahu ha intuito, più di chiunque altro, che, data l’alta frammentazione interna al campo sionista, soltanto un forte blocco elettorale arabo si sarebbe frapposto tra lui e il prossimo governo. Ra’am, il partito islamista, si è infatti subito staccato dalla Lista unita, ovvero dalla coalizione araba, per affermare la sua identità specifica di partito islamico più ostile ai temi LGBTQ+ che anti-ebraico (inclusa la tradizionale opposizione dei partiti arabi alla Legge fondamentale sullo Stato nazione ebraico, luglio 2018, e la solidarietà ai Palestinesi oltrecortina).

 

Gli opposti si attraggono

Abbas e Netanyahu, due leader estremamente pragmatici, non hanno fatto altro che interpretare due tendenze profonde in atto nel Paese: la voglia di partecipazione degli arabi di Israele e la generale virata ulteriormente a destra degli ebrei. Quest’ultima coincide, per gli ebrei, con la richiesta di sdoganare definitivamente il processo di colonizzazione in Cisgiordania da obblighi e sanzioni del diritto internazionale, con i coloni che pretendono una cittadinanza piena e senza distinguo, nonché con un più marcato conservatorismo nei costumi, che contraddistingue un quarto abbondante della popolazione israeliana, se si sommano un 12,6% di ultraortodossi ed un 13% di nazionalisti-religiosi alla rappresentanza di arabi di Israele che hanno votato Ra’am (intorno alle 273.000 persone, pari al 3,79% dei votanti, abbastanza per passare la soglia di sbarramento posta al 3,25% e contare 4 seggi).

Poiché la vittoria nelle elezioni israeliane è data dalla sommatoria di infinite piccole formazioni partitiche, Netanyahu non ha sbagliato nello scommettere che scorporare quella piccola percentuale della popolazione che sostiene i costumi ultraconservatori di Ra’am avrebbe avuto un effetto sul risultato elettorale complessivo. La stessa operazione-miracolo che Netanyahu ha provato a fare alla sua destra, corteggiando quella piccola percentuale di voti che tradizionalmente veniva allocata a Otzma Yehudit (“L’orgoglio ebraico”), nelle ultime elezioni confluito nel ricostituito partito Nazional-religioso (Miflagà ha-datit ha-leumi). Nondimeno è proprio su questa seconda scommessa che il suo accorto calcolo elettorale sembra essersi arenato.

L’ala più estremista dei Nazionalisti Religiosi, rappresentata da Itamar Ben Gvir, un ex terrorista ebraico, e da Bezalel Smotrich, aperto sostenitore di teorie razziste e scioviniste, è difficile da arginare. Ben Gvir, in passato sostenitore dell’omicidio Rabin, si è a lungo collocato al di fuori dello spettro di legittimità delle forze politiche israeliane e espone ancora un’immagine di Baruch Goldstein (autore della strage a Hebron nel 1994) nel suo salotto, per testimoniare la doppia fedeltà agli ideali della purezza della terra e a quella etnica. Smotrich, sostenitore dell’annessione su tutta la Samaria e Giudea – ovvero tutta la Cisgiordania e non la sola Valle del Giordano – è fondatore di Regavim, una ONG volta a denunciare qualsiasi costruzione abusiva di matrice araba su tutta la terra di Israele, ovvero dal Mediterraneo al Giordano, ma è anche ferocemente contrario alla creazione di uno Stato palestinese, per quanto a sovranità limitata. Al contrario, egli è autore della “teoria della scelta” per risolvere il conflitto israelo-palestinese: a suo parere, i Palestinesi d’oltrecortina dovrebbero essere confrontati con tre opzioni, ovvero andarsene, accettare la sovranità israeliana o combattere ed essere sconfitti.

Di fronte a posizioni così oltranziste, Netanyahu, che ha disperatamente bisogno di associare i quattro seggi del partito Ra’am al suo governo per ottenere la quadra, ovvero la soglia dei 61 seggi, non ha ancora una strategia. Tuttavia, essendo la Destra l’unico schieramento forte e compatto in campo e non potendo desiderare alcun partito andare a quinte elezioni – che comunque non si rivelerebbero più decisive delle precedenti – è probabile che un paradossale accordo con Smotrich e Ben Gvir mediato da Bennet in un governo saldamente a guida Netanyahu possa vedere la luce.

Esso potrebbe assumere la caratteristica di un governo di coalizione con tutte le sfumature della Destra e dei partiti religiosi e un sostegno esterno del piccolo partito arabo-islamista in cambio di servizi di base per le comunità beduine e alcune città della Galilea, come Maghar e Sakhnin, suoi principali bacini elettorali. Non sarebbe nemmeno così difficile ottenerlo, smussando le asperità ideologiche dell’ala dei coloni, perché il sostegno di Ra’am potrebbe essere blandito con piccole promesse, come leggi pro-islamiche nel settore autonomo dell’istruzione araba, la legalizzazione di insediamenti beduini nel Negev o trasporti e alloggi pubblici da e per città e villaggi arabi. Abbas, in altre parole, non pone alcuna scelta controversa di fronte al Premier: non si tratta di combattere la criminalità endemica nella società araba, né di rivendicare il diritto di ritorno dei profughi palestinesi, né diritti politici particolari; tutto quello che vuole è ottenere vantaggi materiali e maggiore autonomia per la sua comunità. Opportunità d’oro per Netanyahu e avvertita come tale anche da alcuni rabbini nazionalisti-religiosi, come Yitzhak Shilat, che hanno aperto a questa opzione, anche se la maggioranza del partito rimane ostile, ritenendo l’opzione di un governo di minoranza esecrabile in quanto non fondata su una solida maggioranza “democratica” ebraica.

 

Agenda segnata

In ogni caso, sia che Netanyahu dovesse ancora una volta avere la meglio piegando l’ala estremista, sia che non vi riuscisse e ottenesse solo di guadagnare tempo prezioso come Premier ad interim in vista di quinte elezioni, non bisogna farsi illusione sull’orientamento di massima di un prossimo governo israeliano: le linee guida saranno legittimare il più possibile i circa 682mila coloni compresi tra Cisgiordania (Consiglio di Yesha) e Gerusalemme est per renderli cittadini a pieno titolo, emancipandoli dall’amministrazione civile separata dei Territori, blindare Gerusalemme con la costruzione delle ultime colonie (come Givat Ha-Matos al momento in costruzione) per separare fisicamente i quartieri arabi dalle città palestinesi di Betlemme, Jericho e Betlemme e cancellare qualsiasi velleità di contiguità territoriale palestinese in Cisgiordania, far dimenticare l’esistenza della Striscia di Gaza con i suoi problemi al resto del mondo, inclusi possibilmente i suoi vicini arabi, approfondire le relazioni economiche e diplomatiche con i Paesi sunniti della ragione in funzione anti-iraniana, spingendo Washington a coprire un’eventuale azione militare preventiva israelo-sunnita, qualunque forma essa potrà assumere, prima che Teheran raggiunga un punto di non ritorno nel suo programma nucleare.

I 43 seggi ottenuti dalla Destra nazionalista, in tutte le sue sfumature, e quel 58% di Israeliani che, secondo l’ultimo sondaggio IDI (Israeli Democracy Institute, febbraio 2021) sostengono che nessun futuro accordo con i Palestinesi possa comportare l’evacuazione di colonie, sono lì a dimostrare che il nuovo governo israeliano avrà un solo ostacolo sul cammino della possibile estensione della sovranità su parte o tutta la Cisgiordania: la nuova Amministrazione Biden.

 

Foto: Il leader di Ra’am, Mansour Abbas, prima delle consultazioni con il presidente israeliano Reuven Rivlin – Gerusalemme, 5 aprile 2021 (Abir Sultan / POOL / AFP).

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