Turchia: abc elettorale di un paese con l’opposizione in carcere

Dalla fine dell’Impero Ottomano la storia politica della Turchia moderna ha avuto riflesso non solo sulla geografia, sui simboli e i luoghi del potere, sulle regole d’abbigliamento e le festività celebrate ma anche e soprattutto sull’alfabeto, sulla lingua e sulle parole utilizzate ogni giorno dalla sua popolazione. Dall’epurazione pianificata, propria degli anni Venti, delle parole di origine araba, persiana, greca e armena in ricerca di una purezza ancestrale della lingua turca, sono tanti i termini che si sono susseguiti, i registri tutt’oggi utilizzati da diverse frange culturali e politiche della popolazione.

Le parole non sono solo veicolo di idee, sono spesso utilizzate volontariamente per segnalare l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo di quello che viene spesso descritto come “kutuplaşma’’, polarizzazione ideologico-politica della società turca sviluppatasi un modo sempre crescente dal primo decennio degli anni duemila. Nel susseguirsi di questo o quel registro, espressioni idiomatiche, modi di dire comuni si sono diffusi in modo quasi naturale in questo o quello schieramento politico. Le stesse parole, passando da uno all’altro lato dello schieramento, assumono significati e sfumature sempre nuove.

Attraverso un’analisi incrociata dei discorsi politici della campagna elettorale del maggio-giugno 2018, proponiamo un breve dizionario di espressioni ricorrenti o formule nuove per chi voglia orientarsi, o è disorientato, dalle sorti politiche della Turchia contemporanea.

“Yeni Türkiye”: “nuova Turchia”, è forse l’espressione più diffusa dai primi anni del governo AKP. Utilizzata per la prima volta con accezione positiva da un giornalista della BBC inglese nel 2005, il termine celebrava il processo di trasformazione e crescita economica del paese, l’allora dialogo aperto con il PKK, la percezione di un’aumentata libertà di espressione e politica nel paese nelle prime legislature del presidente Erdogan. L’AKP fece propria questa espressione nel 2010, per diventare poi un leitmotiv della campagna presidenziale di Recep Tayyip Erdogan del 2014 e di quella di oggi. Essendo i grandi progetti edilizi e il rinnovamento dei trasporti uno dei fiori all’occhiello del governo AKP, striscioni riportanti l’espressione hanno ricoperto le impalcature dei massicci e discussi progetti di smantellamento e riqualificazione urbana di Istanbul e altrove, operazione simbolo di una retorica che contrappone costantemente il vecchio al al nuovo.

“Tek adam”, “çok insan”: “un sol uomo” – “tante persone”. La contrapposizione tra i due termini è un gioco di parole riportato dal candidato presidente dell’HDP attualmente in carcere, Selahattin Demirtaş, nel suo unico discorso elettorale televisivo trasmesso nel giugno 2018. L’utilizzo del termine “tek” richiama espressamente uno slogan consolidato dell’AKP, “tek millet, tek bayrak, tek vatan, tek devlet” (“una nazione, una bandiera, una patria, uno stato”) che richiamava all’unità le molteplici anime della società turca, contro la polarizzazione. “Tek adam” è anche le denominazione usata per Mustafa Kemal come unico uomo al comando della repubblica, ed è anche il titolo di una delle sue biografie più conosciute in Turchia. Nel tempo la retorica politica AKP si è appropriata dell’espressione riempiendola di nuovi contenuti, facendo riferimento ad una figura presidenziale forte e necessaria, e attribuendone l’incarico a Erdogan. Alla reiterazione del termine ‘tek’, ‘uno, unico’, Demirtaş oppone un discorso incentrato sull’accettazione del pluralismo e delle diversità del mosaico della società Turca: “siamo turchi, siamo curdi, siamo donne, siamo uomini, siamo Alevi e siamo Sunniti, ma prima di tutto siamo umani […]. Non siamo un sol uomo, siamo tanti uomini”, con una critica velata anche al sistema presidenziale entrato in vigore attraverso referendum costituzionale nel 2017 e che rafforzerà i poteri del futuro presidente.

“icraat”, “azioni” e “kayıp”, perdita: con il termine icraat, di etimologia araba e più vicino alla Turchia ottomana che a quella moderna, Erdogan ha sottolineato le azioni intraprese dal suo governo, citando in particolare i progetti edilizi ultimati negli ultimi anni e quelli in progetto per il futuro: la nuova moschea in piazza Taksim in grado di ospitare, nel centro di Beyoğlu, vecchio cuore laico, sede dell’Istanbul europea e levantina, cinquemila fedeli; ricordando la demolizione dello storico centro culturale Atatürk in piazza Taksim, uno dei simboli delle proteste di Gezi Park, per costruire “la più grande sala d’opera della Turchia”; il futuro smantellamento dello storico aeroporto Atatürk, il più vicino al cuore turistico della città, per costruire “un’area verde pubblica più grande del Central Park di New York”. Alle “icraat”, le azioni presentate da Erdogan, si sussegue il termine “kayıp”, perdita, reiterato nei meeting di Muharrem Ince, candidato presidenziale del partito d’opposizione CHP. La perdita degli anni dell’AKP, ha commentato Ince nel suo meeting ad Hatay il 19 giugno, è prima di tutto quella della libertà di espressione, di protesta. E’ una perdita di sicurezza ai confini della Turchia. E’ la perdita di privacy, di una popolazione che teme che le proprie telefonate siano costantemente intercettate. E’ una perdita di vite umane, nelle operazioni militari frequenti nel governo AKP, dentro e fuori i confini. E’ una perdita di libertà di culto per gli aleviti, dei cui luoghi di preghiera (cemevi) Ince ha promesso il riconoscimento immediato, nei primi cento giorni di presidenza, in caso di elezione.

“Iyi”ler, “i buoni”: è un gioco di parole nato dal nome del nuovo partito nel panorama politico turco, quello di Meral Akşener, fuoriuscita dal partito ultra-nazionalista del MHP, l’IYI PARTI (‘il partito buono). Segnala la presenza di una nuova forza politica di destra in campo con potenziale di attrarre i conservatori delle aree urbane ma anche di rubare, secondo alcuni sondaggi, la fetta di un buon 70 percento del vecchio partito nazionalista d’origine MHP, alleato con Erdogan.

‘Müşahit’: osservatore, rappresentante di lista. Tutti i partiti politici in gara hanno richiamato i propri elettori a farsi da garanti della regolarità delle elezioni, contro la paura diffusa di brogli e irregolarità. Su questo tema caldo per queste elezioni, il CHP ha dedicato uno spot preciso girato da attori conosciuti nel panorama televisivo e cinematografico turco, chiedendo ai propri rappresentanti di lista di rimanere a monitorare la trasparenza del processo. A questo scopo la coalizione allargata tra il CHP, l’IYI Parti e il partito filo-islamico e conservatore del Saadet ha messo a punto un’applicazione per telefoni cellulari disegnata espressamente per i rappresentanti di lista, “Adil Seçim”, “eque elezioni”. Tramite l’applicazione viene chiesto ai rappresentanti di lista di denunciare subito eventuali irregolarità e di fotografare l’esito degli scrutini in modo che possano essere messi a confronto con i numeri ufficiali pronunciati dal YSK, l’Alto Consiglio per le Elezioni, la più alta autorità nazionale in campo elettorale.

“Özgürlük”, “libertà”: una delle parole più utilizzate nella campagna elettorale, assume sfaccettature diverse a seconda del candidato a pronunciarla. Dal presidente uscente Erdoğan la parola libertà è spesso utilizzata in contrapposizione al ricordo dei colpi di stato che si sono susseguiti nella storia della Turchia moderna, presentando l’AKP come partito liberatore dalle pressioni militari del passato. Uno dei punti centrali dell’ultimo meeting del presidente uscente è stato l’annuncio del rinnovamento completo e dei nuovi edifici costruiti sull’isola di Yassıada, rinominata dall’attuale governo “Isola della democrazia e delle libertà”. Yassıada è stata teatro del tribunale che giudicò e condannò a morte Adnan Menderes dopo il colpo di stato militare del 1960, primo ministro in alternanza al governo monopartito del CHP negli anni Cinquanta in una formazione di centro. Erdogan, il cui partito nel 2008 aveva rischiato la chiusura per mano della Corte Costituzionale, ha spesso ricordato gli avvenimenti del Sessanta, ponendosi in continuità con Menderes, ribadendo un concetto di libertà da ingerenze dell’esercito, che il suo governo avrebbe garantito nel corso delle legislature.

Per Akşener, candidata del partito di centro e nazionalista, la libertà è innanzitutto quella dallo stato di emergenza, protratto dal fallito tentativo di colpo di stato il 15 luglio 2016. E’ una libertà dai problemi economici in cui versa la Turchia, dall’inflazione crescente, dalla disoccupazione giovanile, ma anche, e soprattutto, dai problemi portati dall’immigrazione. Spesso “libertà” assume l’accezione di “liberazione” dalla massiccia presenza dei profughi siriani su gran parte del territorio nazionale in una Siria libera dalla guerra.

Per il candidato presidenziale in carcere Demirtaş, infine, la parola libertà è quella che assume maggior valenza, anche dal punto di vista meramente oggettivo. Dalla sua condizione di restrizione di libertà in prigione, Demirtaş offre una metafora e un parallelismo per i suoi elettori “quando voi sarete liberi, lo diventerò anch’io”, forse alludendo indirettamente alle decine di giornalisti e intellettuali turchi e curdi attualmente nella sua stessa condizione. Nei discorsi elettorali dei membri dell’HDP la parola libertà, “özgürlük” è spesso declinata al plurale, “özgürlükler’’: le libertà di una società plurale che riconosce e accetta le sue molteplici anime etniche e religiose, che si riappropria della libera espressione in un contesto realmente democratico.

A questo piccolo dizionario si aggiungono e si aggiungeranno termini sempre nuovi, molti dei quali, oggi, è difficile prevedere in quanto legati al destino di queste elezioni. Aggiungiamo all’elenco, in buon auspicio, “barış”, pace, “adalet”, giustizia e “umut”, speranza.

Credit: Bulent Kilic / AFP PHOTO

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