Kapuscinski, il giornalista poco ortodosso

A cinque anni dalla morte di quello che è stato definito il giornalista delle rivoluzioni, viene tradotta in italiano – a cura di Silvano De Fanti – una biografia, ricca e appassionante, di Ryszard Kapuściński. Anzi, una “biografia creativa”, come la presentano i due autori Beata Nowacka e Zygmunt Ziątek, due docenti universitari di letteratura polacca, particolarmente attenti allo studio di quell’interessante confine tra scrittura di documentazione e prosa letteraria, di cui proprio Kapuścińki è considerato uno dei maestri, a livello polacco e mondiale.

L’analisi delle opere più famose e di quelle meno conosciute del reporter polacco, si intreccia con il racconto dei viaggi, delle esperienze e dei traumi di Kapuściński, per svelarne le interrelazioni più intime e raccontare la vita di uno dei massimi esponenti del genere del reportage antropologico. Presentare Kapuściński come un giornalista è infatti limitativo per gli autori che, in una sorta di climax ascendente finiscono per definirlo addirittura un “uomo spirituale”, al pari di Socrate o Platone. Paragoni discutibili almeno quanto sono indiscussi l’ammirazione e l’affetto che Kapuściński ha saputo conquistarsi con il suo viaggiare e il suo raccontare, con uno stile personale che rende difficile incapsulare il suo nome all’interno di categorie ben definite. L’esperienza infantile della guerra, la passione per la storia e le rivoluzioni, l’indole poetica avranno sempre la propria parte all’interno delle opere di Kapuściński: gli ingredienti saranno sempre quelli, tra loro complementari, anche nelle opere dove sembrerà di scorgere la prevalenza di un elemento sugli altri.

Nato a Pinsk nel 1932, Kapuściński si imbatte giovanissimo nella Grande Storia: l’impatto è violento, segnato dalla povertà e dalle atrocità della Seconda guerra mondiale – ma lascia in eredità al piccolo Ryszard quella voglia di lottare e quell’amore per l’evolversi dell’umanità, per l’emanciparsi dei popoli, che matureranno nel desiderio di essere lì dove la storia si fa, di prenderne parte e renderne partecipe il mondo intero, con l’obiettivo fissato sulle piazze più che sui palazzi, per dare la massima credibilità possibile al reportage. Prendere parte al mondo che cambia e identificarsi con chi si rende attore di questo cambiamento sono, per Kapuściński, delle vere e proprie necessità che lo porteranno a lasciare progressivamente la poesia impegnata, la pubblicistica combattiva e infine la sua Polonia. E’ la seconda metà degli anni Cinquanta, è il periodo del nazionalcomunismo di Władysław Gomułka e Kapuściński sente il bisogno di spostarsi. Dopo i primi viaggi da corrispondente in India e Cina, accetta l’offerta che lo farà innamorare dell’Africa: nel 1959 sarà in Ghana, da lì poi si sposterà in Congo per raccontare la storia silenziosa della rivoluzione, quella dei combattenti e dei contadini che incontra per la strada. Si appassionerà subito a quest’Africa, al calore della sua gente e a quello dei climi politici, al punto che basteranno questi due viaggi per fargli dire: “Ormai io sono un africano”.

Le rivoluzioni a cui Kapuściński parteciperà saranno in tutto ventotto: le rivolte popolari gli faranno visitare gran parte dell’Africa, dell’America Latina e dell’Unione Sovietica. E proprio la rivolta del 1980 lo riporterà nella sua Polonia: solo allora, quando sarà la piazza a chiamarlo, Kapuściński sentirà che è finalmente giunto il momento di fare ritorno in Patria. Proprio questo ritorno segnerà la fine della sua vita errante e, insieme, la fine dell’esperienza del reporter: accolto come una star dai suoi compatrioti, Kapuściński si rende conto che la perdita dell’anonimato non potrà fargli vivere l’insurrezione in maniera diretta, come aveva fatto altrove, negli anni addietro.

La rivoluzione polacca segna così uno spartiacque significativo nella vita e nella opera di Kapuściński: ormai non più giovanissimo, dopo aver viaggiato tanto e aver preso parte a tante rivolte, averci creduto ed esserne rimasto puntualmente deluso, torna progressivamente a concentrarsi sulle cose a lui vicine, fino a ritrovare l’Altro all’interno di sé. E’ un processo circolare al quale è destinato anche il suo stile: dalla poesia Kapuściński parte e alla poesia Kapuściński tornerà, condendola però di tutto ciò che nel frattempo ha toccato con mano rincorrendo gli uomini delle rivoluzioni, di qualunque età, colore, nazionalità e lingua. Kapuściński rinuncia progressivamente e ostentatamente ai doveri giornalistici della precisione e dell’oggettività, privatizza gradualmente il racconto, per farne emergere l’umanità e trasmettere la sua empatia.

Con il maturare della produzione di reportage antropologici di Kapuściński, lo scopo diventa sempre più evidentemente questo ed è questo fine a giustificare certi mezzi, non proprio ortodossi per un giornalista. Talvolta il racconto passa per una poetica dinamica e che molto deve alla cinematografia – come nel caso di Shah-in-shah, dove l’isolazionismo caratterizzante l’Iran di Khomeini, viene trasmesso, ad esempio, attraverso la contrapposizione linguistica, neologismi vs arcaismi. Altre volte, linguaggi diversi vengono accostati dando vita a un’opera multimediale come forse può essere definita la collezione dei Lapidaria, dove Kapuściński tenta di raccontare la “normalità dell’anormalità” aiutandosi con la fotografia e la poesia. Tutto questo per rendere il mondo più comprensibile, motivazione che muove l’intera opera di Kapuściński e che, secondo gli autori, finisce per accostare la figura di Kapuściński a quella dell’artista, dello scrittore più che del giornalista. Globalmente riconosciuto come esperto e universalmente amato, come molti altri “uomini spirituali”.

Titolo: Ryszard Kapuściński. Biografia di uno scrittore

Autore: Beata Nowacka e Zygmunt Ziątek (Traduzione e cura di Silvano De Fanti)

Editore: Forum

Pagine: 447

Prezzo: 25 €

Anno di pubblicazione: 2012



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